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Prefazione a
I colori del buio
di Emanuele Giudice
la
Scheda del libro

Pasquale Matrone
Cinerea e greve è
la cortina di nebbia che insidia le cose, minacciando di fagocitarle, di farle
per sempre sparire nel buio della solitudine e della resa incondizionata.
Il male avanza, cresce, si dilata: s’insinua, come famelica gramigna,
negli uomini, fiaccandone la volontà, i sentimenti, l’anima… Emanuele Giudice,
uomo, intellettuale e poeta avvezzo da sempre a coniugare arte e vita con
tenacia, coerenza e umiltà, prende atto delle miserie che affliggono l’esistenza
e la storia e vi si cala dentro, per coglierne le cause, misurarne l’ampiezza,
valutarne la gravità, scoprire il rimedio più adatto a curare una “patologia”
che minaccia di cronicizzarsi, di diventare irreversibile, letale… Perciò, in
piena coerenza con la missione a cui si è votato, in questa sua nuova
raccolta di versi continua a percorrere la strada scelta negli anni giovanili;
lo fa con la stessa dedizione, nonostante i suoi ottant’anni e ad onta delle
“ferite” della vita e del tempo. Avverte sempre più forte e improcrastinabile
l’esigenza di raccontare a tutti che il buio non è nero, denso
e negato a ogni spiraglio; che ha, invece, dentro, se ci si sforza di
scandagliarne il fondo con occhi più innocenti, un cuore iridescente,
cangiante e aperto fino a rivelarsi tenero e accogliente, capace di farsi nido
dei voli della mente; che la disperazione può essere sconfitta; che, anche
se il male ha scavato le sue iperboli negli abissi malati della mente, se ci
ha annichiliti con le sue banali epifanie, noi siamo ancora forti della nostra
testarda volontà di guadagnare la luce che conclude il tunnel.
Studioso
instancabile e illuminato, Emanuele Giudice non ha mai amato chiudersi in una
fredda e inespugnabile torre d’avorio; ha sottoposto a verifica costante la sua
operosa e puntuale ricerca teoretica; ne ha sperimentato con pragmatica
accuratezza l’efficacia; è sceso in campo; ha speso in modo responsabile la sua
vita; ha fatto scelte chiare; ha operato nel sociale, ponendosi al servizio
della comunità e delle istituzioni con l’atteggiamento di chi intende il suo
ruolo come officium e non come imperium… E, nel contempo, ha
prodotto prosa e versi, senza mai fermarsi, sicuro che, nella scrittura,
avrebbe individuato, prima o poi, la chiave utile a interpretare la realtà e,
con essa, le risorse necessarie a integrarne le carenze, a correggerne i
difetti, a stimolarne la rigenerazione e la crescita. Perché convinto che è
soprattutto questo il motivo per il quale si scrive. Lo si fa per pareggiare i
conti che non tornano; per colmare i vuoti, sopperire alle carenze e alle
assenze; per denunciare, correggere, smascherare, difendere, condannare, curare,
incoraggiare…
Il poeta ha fatto
la sua parte, procedendo per sentieri impervi, confrontandosi con ostacoli più o
meno spinosi, sforzandosi di individuare codici adatti ad aprire con gli altri
un dialogo lineare, limpido, efficace e fecondo, persuaso della necessità di
stimolare la crescita culturale della società e, con essa, la graduale presa di
coscienza dei valori fondanti della verità, della giustizia e
dell’amore. La sua visione del mondo si è inverata quotidianamente in un
vissuto intenso, febbrile, creativo, edificante e generoso. Ora è giunto per lui
il momento di scendere dal palcoscenico; di ripararsi dalla luce, ormai
fastidiosa, dei riflettori per setacciare i luoghi più remoti e ancora anonimi
dei silenzi e leggerne il nascosto e favoloso canto di sirene.
Dopo tanto rumore, è arrivato il momento di tacere, di mettersi
totalmente in ascolto, in attesa di essere visitato dalla voce misteriosa e
appagante dell’Essere che, compassionevole, a poco a poco, si svela all’Esserci,
facendosi logos e parola, veicolo di messaggio assai più grande del
fragile suono in cui riesce a prendere forma e consistenza. La parola è
scintilla divina, infinitesimale e abbagliante frammento d’eternità.
L’uomo è forte.
Lo affermava, in una sua opera di denuncia e di annuncio, Corrado Alvaro, altro
grande intellettuale del sud, stigmatizzando la pseudo morale del fascismo e del
comunismo. Il titolo dell’opera, pubblicata nel ’38, era una provocazione, un
invito a riscoprire la forza vera della dignità e della libertà. Emanuele
Giudice sposa senza riserve questa filosofia: nessuno deve lasciarsi
atterrire dalla violenza, risorsa ebete dei vili; né serve a nulla
restarsene in disparte, a snocciolare vituperi contro il male, bloccandosi
alla sua rassegnazione: perché non esiste mostro vestito da uomo
capace di annientare le speranze e, con esse, il raccapriccio e la
voglia rabbiosa di vincere la sfida…
Ciascuno, dunque,
è chiamato a prendersi cura del mondo, a essere vigile e pronto
all’azione: anche quando gli anni cominciano a pesare, a lesinare linfa al
corpo, a fiaccare la volontà, a invitare anche il combattente più coraggioso a
non sperperare il poco fiato di cui dispone. Perciò un poeta non può sottrarsi
al suo impegno, deve continuare a scrivere: per sé stesso, ora, più che
per gli altri. Forte dei suoi inespugnabili silenzi e, finalmente,
estraneo alla babele di una società sempre più segnata dall’egoismo e
dalla guerra insensata di tutti contro tutti, deve resistere al tumulto delle
ansie incombenti, alle angustie di un’esistenza che, giorno dopo giorno,
smotta e crolla senza avviso…
Una vita intera,
per lunga che sia, non basta per capire. Giudice conosce il suo limite di
creatura inadeguata a scandagliare il nulla e a smascherarne le
parabole impietose e inaccettabili. E come creatura, pur sapendo di dover
ancora operare con la determinazione di sempre, non riesce a celare del tutto
l’inquietudine che sempre più spesso lo assale. Lo si avverte in certe
reiterazioni lessicali ed espressive presenti nel suo linguaggio: sera,
ombre, nero, tremori, malinconie, incertezze; favole mendaci, tronchi derelitti,
fosche attese, precipizi, sassaie di rimpianti… E poi: il vento: che
arpiona ogni cosa e costruisce paure dell’ignoto; che aggira e raggira
gli uomini trascinandoli, capriccioso e irrazionale, in vortici ignari
d’indulgenze e soste; che, da sempre, continua a soffiare dove vuole;
che non si lascia vincere dagli strumenti umani; che pare ostinato a negare un
sia pur minimo cenno di risposta alle accorate domande che si levano dalla
terra, stremata e stanca, con accenti inadeguati a misurarsi con la sua forza
soverchiante e impenetrabile.
Dio, dunque,
tace? Il dubbio atroce suona come ingrata bestemmia appena sussurrata. Non è
così: Lui si svela mediante segnali difficili da comprendere… Il male, la
sofferenza e la morte hanno, di sicuro, un senso: tutto fa parte di un mosaico
che, quando anche il tassello più piccolo sarà stato collocato nello spazio che
gli spetta, offrirà alla ragione le coordinate esatte di un progetto chiaro,
significativo, funzionale, buono e, soprattutto, giusto… La povera mente
claudicante del singolo, però, dura fatica a vedere: si sente spiazzata
dalla sapienza in cui si spende l’intelligenza che governa il tutto: le
mancano le tessere più importanti per capire il disegno; le rare
epifanie che, con guizzi fulminei, le regalano briciole di luce non bastano
a lenire le sue pene, non sono sufficienti a consentirle di celebrare il
morire e, nel contempo, di dare un senso alla congenita e tenace voglia
di risorgere.
La vertigine
provocata dai terrificanti precipizi del nulla, tuttavia, va sfidata, a
testa alta, se non si vuole subi-re la sconfitta; va affrontata, però, non con
orgoglio temerario, bensì con un atto di umiltà, liberando l’anima da ogni sorta
di zavorra, fidando nella certezza che non esiste male che non pesi sulla
spalla di Dio, germoglio silente dell’ora a cui gli uomini restano
avvinti dopo ogni caduta, Amore che pende sulla solitudine dei
viventi…
Dio, dunque, non
tace per crudeltà, ma solo perché la risposta abita proprio nel suo
incommensurabile e sovrumano silenzio: il suo tacere è un linguaggio, voce
paziente che rimuove il dubbio e apre la soglia all’incompreso…
Emanuele Giudice
non ha mai smesso di cercare Dio; lo ha fatto, e continua a farlo, con onestà
intellettuale, senza ipocrisia, aprendo il cuore, confessando le sue
perplessità, analizzando con cura prove e controprove, ponendo a sé stesso
domande provocatorie, atte a stanare dal suo animo ogni sorta di
ingiustificabile sospetto. Da persona leale qual è, e in perfetta sintonia col
positivismo italiano che, a differenza di quello europeo, ha preferito parlare
di Ignoto anziché di Inconoscibile, lui non ha mai interrotto la
sua indagine, convinto che ciò che non ancora si conosce è cosa ben diversa da
ciò che, per postulato, si decide di non poter mai conoscere. Poi è andato
oltre; ha incontrato Heidegger; ne ha condiviso la scelta metafisica e la
proposta estetica; ha compreso, grazie a lui, che l’esserci vince la
trappola del pessimismo solo se sa ritrovare il proprio fondamento nell’Essere,
se sa percepirsi come frammento prezioso e irripetibile d’Infinito… Il filosofo
tedesco gli ha fatto comprendere che Dio si fa parola nel singolo; che è
l’uomo a dare corpo e suono al verbo; che la parola è: fonema che
anticipa la musica; nido e radice di tutto; antifona del dopo che avverrà; porta
di luce e incontro; acconto del sapere che bramiamo; conoscenza e attesa di ciò
che c’insegue; molo a cui si aggancia la piccola barca alla deriva; musica
mirata a svestire l’umano del suo bruco… Ma, nonostante le sue innegabili
potenzialità, il poeta ne è pienamente consapevole, la parola è pur
sempre parziale, inadeguata a delimitare e a descrivere con esattezza i confini
dell’Essere; a volte riesce a farsi solo balbettio che singhiozza rapinando
il caos o, peggio ancora: degenera in rumore (“chiacchiera”, direbbe
Heidegger); subisce inerme la violenza di chi ne fa un uso distorto; diventa
ancella del pensiero malato, catena per legare, cloaca, sciarada per tramare
tele bugiarde; si fa ordito di reti e congiure scellerate…
Il lungo e
faticoso peregrinare del poeta siciliano nel vasto e multiforme universo della
parola rappresenta il punto nodale del messaggio racchiuso nei versi. La sua
acribia nell’esplorarne risorse e fragilità è generata dal bisogno di accertare
sul campo l’efficacia, l’utilità, la funzione e la pericolosità di uno strumento
che, nel corso degli anni, ha cercato di usare sempre con il dovuto rispetto,
procedendo con serietà, studio meticoloso ed esercizio artigianale ininterrotto…
A questo punto del suo percorso, Giudice avverte improrogabile l’esigenza di
sapere se ha fatto un uso giusto dei talenti a lui affidati; se la scelta di
coniugare la vita con la scrittura è stata lucifera e fruttifera, per sé stesso
e per gli altri; se le ore trascorse a limare versi sono state spese bene e non
invece sottratte a una quotidianità che da lui attendeva ben altro tributo; se
l’ostinata e indomita voglia di cantare ancora non è per caso una sorta d’insania
ininfluente, destinata a perdersi, come tutte le cose, nell’oceano dell’oblio
senza lasciare traccia alcuna…
Emanuele Giudice
non cerca risposte consolatorie ai suoi interrogativi. Gli basta la coscienza di
aver saputo riconoscere la sacralità della parola di cui si è fatto custode
diligente e devoto, senza lasciarsi mai incantare dai bagliori artificiali della
ribalta e senza mai agognare allori o plausi dozzinali ed effimeri. È
contento del cammino percorso: non si sente in colpa per giorni trascorsi a
poetare: non li ha sprecati, dal momento che, per lui, vita e scrittura sono
state l’una lo specchio dell’altra. E sa anche che, se pure fosse in grado di
raggiungere la stella più lontana, mai il canto sarebbe capace di vincere la
notte né di fornire ali robuste all’umana e comprensibile bramosia di
spodestare il cielo…
Tutto passa,
ritorna nel grembo della terra, si trasforma, germoglia ancora… Sfugge al
conteggio l’ora della partenza e quella dell’arrivo. È stata la scrittura a
illuminarlo. Gli ha ricordato che, per lui, come per tutti, giungerà la chiamata
al raduno nella grande pianura dove la vita si dilata e vola; che non
bisogna lasciarsi cogliere impreparati; che è necessario tenere, in un
cantuccio, sia pure stracolme di memorie e di rimpianti, le valigie già
pronte per il viaggio il cui approdo è nella divina e ineffabile bellezza…
La bellezza,
che è: il tutto che si posa sul dovunque; il silente sublime al suo mutarsi
in voce; parola trasfigurata; senso che svela e traduce ciò che non può essere
scrutato; sussurro di parole mai dette; singolare declinato al plurale e
all’infinito…
Quella di
Giudice, intellettuale abituato a immergersi nel mare periglioso della storia e
ad operarvi con generosità e tensione etica, è poesia dell’esistenza e
dell’essenza: ben radicata nell’umano e perennemente protesa verso il divino.
Cantore di necessità e non di statuto, studioso mai pago delle sue
conoscenze, artista sempre attento a trovare il giusto equilibrio tra classica
compostezza formale e innovazione mai gratuita o manieristica, il poeta
siciliano sa muoversi con senso critico e in piena autonomia nel panorama spesso
confuso della scrittura contemporanea, tenendosi a debita distanza dai fuochi
fatui delle mode e delle scuole avvezze ad autoproclamarsi detentrici e
governatrici delle ragioni e degli orizzonti dell’estetica. Lui, brillante,
creativo e autoironico, come conviene a chi del sapere ha ben compreso il senso
e lo scopo, canta non per aggiungere lamentazioni farneticanti e strepiti
ai rumori indistinti e molesti che già inquinano l’aria di una letteratura
troppo spesso vuota e belante ma perché ha cose da raccontare e perché ha
allenato la sua voce, con cura, giorno dopo giorno, con l’intento di renderla
idonea a esprimere la musica mirata a diradare ogni sorta di nebbia, a
descrivere i colori e, con essi, le perle preziose, le speranze e la
luce, nascoste anche nel buio più fitto e minaccioso.
La voce di
Emanuele Giudice ancora una volta, in questo I colori del buio (Edizioni
del Leone), riesce a farsi distinguere tra mille altre. Il timbro vigoroso,
l’altezza, l’intensità e il tono, che ne costituiscono la cifra, non si
giustappongono alla sostanza narrata come variabili estranee e asettiche
adatte a tutte le bocche e a tutti i messaggi, bensì sono la risultante
inconfondibile e armonica di un’interazione voluta, ben costruita e,
soprattutto, sorvegliata con rara e impareggiabile maestria.
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