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Sul remoto sfondo della poesia e delle prove narrative di L. Zinna e persino della sua appassionata ricostruzione critica dell’autore prediletto troviamo una laurea in filosofìa con indirizzo pedagogico e tesi su Maritain. Il che può voler dire che il poeta ha affondato radici forse non troppo filiformi sino a Léon Bloy. Questi nomi carichi di nordica foschìa possono sembrare oggi molto lontani dai lievi quadretti pieni di humor de Il ponte dell’ammiraglio e dalle tenere rievocazioni domestiche di Abbandonare Troia; ma ad una rilettura bisogna ipotizzare che la passeggiata nell’Orto Botanico parigino di Raissa e Jaques Maritain (con quel loro urgentissimo e giovanile dilemma circa la scelta radicale fra una vita piena di senso o altrimenti il suicidio) non sia passata senza lasciar traccia sull’ispirazione e la coscienza di Zinna, il quale mescola continuamente una terminologia religiosa – virtù, peccato, rimorso, rosario, ordine cosmico, ecc. − alla sua poesia e riferimenti religiosi ai suoi racconti, cercando ciononostante di mimetizzare quanto più possibile quel suo modo di guardare le cose sempre sospeso sul margine di un assoluto morale, quei suoi significativi lapsus nei toponimi attraverso il tono scherzevole dello studente bravissimo che gioca a parlare con la gente comune, conscio d’una parentela d’intenti, nel sottofondo, che lui però sa allontanare e riavvicinare a suo talento. Partendo dai coniugi Maritain − per tornare agli interessi predominanti di Zinna, − si potrebbe certo ricostruire una mappa densa di autori collegati dagli interrogativi ultimi, con relativo coinvolgimento nella pratica di vita. Ho notato i nomi di San Francesco, di Lucio Piccolo di Padre Kolbe… ed infine mi è sembrato che l’interesse di Zinna per Ippolito Nievo (v. Come un sogno incredibile, Pisa, 1980) dovesse venir situato nel medesimo filone. Il poeta siciliano si lega dunque di grande solidarietà al padovano del romanzo risorgimentale (e forse lega a lui la sua simpatia − oggi di nuovo attualissima − per i garibaldini). Il motivo sembra essere il fatto che Nievo è rimasto per i posteri come un esempio di personalità particolarmente coerente, in cui l’attività letteraria ben si sposava all’azione, all’impegno morale. Nievo fu assolutamente immune dagli ideali astratti e dalle disimpegnate dichiarazioni e manifestò anche in poesia un deciso gusto antiretorico: tutte qualità che si rivedono in Zinna, del quale sarebbe piaciuto a Nievo il commento morale intessuto alle divagazioni macchiettistiche, così come il gusto dell’eroicomico. Affascinato dunque dalla personalità di Nievo, persino nel suo piccolo studio sulla produzione incompiuta e marginale del padovano (v. Il pescatore d’anime, romanzo appena iniziato), Zinna lascia emergere a tratti il suo rovello della scelta radicale. O, diciamo pure, per quanto oggi ciò possa suonare strano, il rovello della santità. Di esso, Zinna è vissuto a lungo, con un tormento forse non lieve, come mi appare dagli spezzoni narrativi de ‘Il ponte’ e da varie poesie di Abbandonare Troia; e se in questo tormento è rimasto sospeso, dalla giovinezza alla mezza età, senza farsi stravolgere dal fascino dei Maritain, che oltretutto avevano gusto e sensibilità poetica, ne è stato causa il sanguigno amore per la vita, per l’edonismo più naturale e immediato: ‘mi vedo gleba alla terra confitto’, il che non si concilia evidentemente con quell’idea autoprivativa ad oltranza della santità, che per Léon Bloy rappresentava l’unico sistema di realizzare il paradiso in terra, l’essere del tutto poveri e crocifissi quaggiù: una specie di guerra continua contro se stessi, un continuo allontanamento da tutto ciò che piace, conforta, riscalda. ‘Non si può vivere senza poesia, calore né amore’ cita Zinna da una lettera di Saint-Exupery, ad introduzione della sua raccolta di versi. Lettera che l’autore del “Piccolo Principe” indirizzava ad un’autorità militare: a quale autorità Zinna rivolge il senso profondo della sua protesta? Si direbbe quasi che la sua stessa vocazione letteraria debba, attraverso questa citazione, difendersi da una accusa ed è da ricordare che Léon Bloy si sentiva fuori posto nella letteratura e che avrebbe preferito nascere inclinato a qualche altra attività per il servizio di Dio e del prossimo. Sul versante opposto, però, Zinna si trova a dover fare i conti con una realtà politica, sociale e culturale che gli ispira soltanto idee di decadimento: come il Ponte dell’Ammiraglio che unisce due rive dove l’acqua non scorre più, come il finto arcivescovo cui si riducono speranze e risorse di giorno in giorno, come il decrescente potere d’acquisto del pensionato, e via dicendo. Cose e persone e virtù che continuamente spariscono; compagna di tali rievocazioni è quindi un’idea di miseria presente, di squallore cui non si può porre rimedio. Zinna ci ironizza sopra fino ad effetti di pura comicità, pur restando sempre un poco avvolto in un’atmosfera vagamente funeraria, la cui (im)possibile alternativa ispira l’autodifesa della meditazione “Io e Francesco”. Qui si direbbe che l’autore si stia scusando di non essere il fondatore di un nuovo Ordine mendicante. È un altro modo di far capire come egli si senta assillato da una pretesa radicale, che non è, come S. Francesco, in grado di soddisfare. C’è la preoccupazione di definire la propria posizione di fronte al problema della proprietà, alle istanze di Madonna Povertà, la quale non è che un aspetto della questione, ma che comunque può apparire ‘santa’ in certi contesti e “squallida” in certi altri. La tensione di Zinna deriva forse dall’aver creduto che sempre e solo una scelta radicale di martirio e rinuncia potrebbe risolvere i drammi del mondo dove i suoi figli si trovano così male – “questi figli che ci stiamo | crescendo a poco a poco in maniera sbagliata | (pronti incapaci di menzogna aperti agli altri | in un covo di lupi)’ − ma nello stesso tempo ha paura che la santità prescelta, dopo averlo spogliato di tutto possa tramutarsi all’improvviso in ‘squallore’, possa cioè lasciarlo ‘indifeso’ di fronte ai lupi, cosi come ‘indifeso’ temeva di doverlo lasciare sua madre, morendo. Questa trama di ‘ancestrali dissidi’ riemergente sotto la giocosità dei racconti, queste labili nostalgie, sapore confuso di dolcezze e lacrime, esitazioni, problemi irrisolti, prendono ancor più efficacemente vita ‘nelle mirabili poesie di Abbandonare Troia. Un libro in cui è ancora visibile lo sforzo di dissipare la taccia di sudità, quell’idea di razzistica clausura di linguaggio, tematiche e costumi da cui gli autori siciliani si sentono avviluppati nel giudizio altrui − già tutto demitizzato e analizzato nell’introduzione all’antologia che Zinna curò per la Forum nel 1981 − anche se è invece il mondo intero che il poeta sente fluire verso di sé, scivolare in quegli stampi, in quelle immagini più proprie della sua terra natale: in esse egli incarna il rimpianto di un’istintualità repressa, di una vita poco goduta, metaforizzandolo anche nella celebrazione dei cibi, come unica occasione di socialità sopravvissuta; è un fatto che un vicentino non trae tanta ispirazione dal baccalà con il latte né un milanese si commuove tanto per l’ossobuco quanto si sublimano i siciliani nei cannoli e nelle pizze. Ciò è poesia per essi non meno che l’abbraccio delle fanciulle in fiore. E Zinna non evita di calare il suo senso poetico in certe forme rappresentative della sudità, perché in fondo è conscio di non perderci affatto la sua connotazione europea. Poiché non è proprio questione di sicilitudine se a lui è capitato, esattamente come a tanti nordici intellettuali, di sentirsi ingabbiato nelle preghiere contro le insidie notturne (ossia gli istinti), preghiere che censuravano come nemico estremo ciò che forse nemico non era, ma costituiva il fuoco ispiratore degli stessi mistici (operato, s’intende, un piccolo spostamento): ‘Ne polluantur corpora...’, il tormentato approccio dei cattolici con la carnalità. Zinna è invecchiato e varie occasioni si sono dissolte dietro di lui, come le fanciulle di un tempo, iperprotette dalla censura familiare, ‘...il tutto smarrito nella chiara | sensazione di una vita in fondo da vivere ancora’, ma egli ha fatto di questi ricordi, in specie delle compagne di scuola ‘seleniche e sode’, le sue metafore del dilemma fondamentale, se campare cioè da contadino della Garonna, immolarsi a un ideale che tolga tutto o restare fedele alla propria umana natura ed alla ricchezza immaginativa che essa gli può fornire. Non è la tragicità però che ha prevalso, ma la poesia, come mezzo di un recupero di tutto ciò che è rimasto inattuato, una poesia sostanziosa, dolcemente increspata dal gioco scherzoso di assonanze o rime interne, intellettuale e assieme ruvida di quotidianità, quasi nella costante riaffermazione che vi è anche la Natura cui occorre rendere conto di sé e che costituisce una religione a pari merito con l’altra, forse, per Zinna, migliore dell’altra (‘...per il resto (sia chiaro) la vita è vita e va (per la sua parte) dove la vita vuole’). Nato dallo stesso ceppo dell’animula eliotiana, quel ‘puer’ (che capacità di universalizzare ha ancora il latino!) della deliziosa poesia ‘Il rosario’, nel quale però s’incarna subito il vitale Carlino di Fratta, con quel suo impulso a essere, soprattutto essere, senza più cavillare, aderente a spontanei ritmi, fidente nell’invisibile protezione, tanto quanto nell’incoraggiante sapore del cibo. Vengono a mancare, oggi, nel meccanicismo più organizzato dei rapporti, le antiche consolazioni della sudità ed è il prezzo con cui si paga la tanto agognata identità europea. Ma, e la libertà? È forse la civiltà attuale, una reviviscenza peggiorata del potere patriarcale di ieri, cosi prolifica com’è di misteriosi autoritarismi libertari? Un sistema per il quale ancora non c’è diffidenza fra l’aggettivo che dovrebbe determinare una sfera di qualità anche positive e il complemento di specificazione, cioè la pura appartenenza del soggetto a qualcosa che, sovrastandolo, annulla i suoi diritti? Certo, lo schema grafico di Tesnière che Zinna ripropone in poesia, evidenzia, sotto la linea a capanna in cui è configurata la proposizione “la casa che appartiene al padre” e di cui il “paterno” sembrerebbe un semplice doppione, un tettuccio minore, quasi che la famiglia nuova fosse comunque condannata a restare sotto un incrollabile potere paterno, al che Zinna fa seguire la citazione (adattata): “e veramente mi sapea di sale | lo scendere e salir per le tue scale”. Poesia, quindi, calata nel quotidiano ma traforata puntualmente dalle intromissioni culturali di un mondo ben più vasto e mai estraneo, per un comune afflato romantico, che oggi risponde a un cosi grande e inconfessato bisogno, per le pennellate di angoscia ecologica (come in ‘Uccelli del viale’), per l’irrisolto tormento della cultura cattolica, per l’incessante spettacolo della violenza che si è sostituita a tutte le troppo tarde e insoddisfacenti risposte esistenziali, a Palermo come dovunque. Ne è strano che Zinna trovi un fratello spirituale in Ippolito Nievo nelle cui pieghe più marginali va a frugare ed in cui scopre anche − vedi il caso! − un sacerdote più interessato al recupero di una vita più spontanea, sottratta alle continue angosce del peccato e della santità, in un’atmosfera che fa vibrare all’altro capo del filo le straordinarie poesie di “Abbandonare Troia”. E ciò significa, alla fine, che il poeta (nella sua selezione di elementi odio-amore per l’isola amara) ci ha riproposto certi aspetti della sicilitudine come forma d’adesione più serena al problema della carne e della proprietà, dell’amore del prossimo e dell’amore di sé, anziché naufragare nella nordica e mistica mania di autospoliazione (‘Evviva noi − tutto sommato – Marco’). Forse, con queste sue recenti elaborazioni poetiche, narrative e critiche, Zinna ci mostra d’aver smesso di cercare tanto a nord la sua anima e di aspettarsi rigenerazione da un Maritain, che pure ancora sente l’obbligo di citare a proposito d’ogni ‘umanesimo integrale’. È certo che, nei versi sulla morte della madre, si distanzia molto dall’atteggiamento di Jaques difronte a Dio e a Raissa che egli vedeva di giorno in giorno ‘distrutta, come a colpi d’accetta...’ Non si può vivere senza poesia, calore né amore! Proprio in poesia, Zinna sente che il suo ‘sogno incredibile’ della santità deve trovare un accordo con la vita e con l’amore di sé – che al quasi monastico ritiro dei Maritain a Meudon potrebbe giustamente corrispondere la sua fuga verso il villaggio, lontano dalle crudeltà della morale consumistica, ma non escluso dalle semplici gioie dell’esistenza. Proprio l’idea della morte come possibile evento fulmineo e l’indifferenza della tomba abissale che accoglie il suo ancient mariner, ha indotto il poeta a fantasticare di poter essere un giorno deluso da quei custodi (o modelli?) della santità che forse gli offrirebbero un vuoto misterioso al posto dello scrigno cercato con tanta passione. Ed è quindi attraverso la visione-ricerca della sua poesia che Zinna sente oggi di poter accedere ad una sua personale forma di elevazione (‘credo nelle mie impossibili santità’) aperta all’umana pienezza, corredata di un suo preciso decalogo (v. in ‘Resistenza’) e persino di un suo nume paterno (ancora senza nome), che darà luogo all’esperienza di un ‘altro incontro […] con un sorridente | compassionevole che di noi tutto comprese solitario | e molteplice in un inaccessibile pianeta’. |
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