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Scendevamo giù per la collina
            Alcune considerazioni a proposito

La poesia ci interroga, a partire dai luoghi dove, bruciando lentamente su un flogistico sottofondo, intuiamo la fragilità della coscienza e dei limiti che l’esistere quotidiano, con la sua ineludibile banalità di ipocrite certezze, pone all’altro ed a noi stessi. Ed è in effetti un enigma pure quello dinanzi al quale, in rischiosa prossimità ai corollari adorniani, inerenti gli effetti sulla poetica procurati dalla tragedia totalitaria che un’età ormai classica della violenza ridusse ai suoi lacerti e alla sua carne offesa, indugia, non certo a caso, la filosofia novecentesca più coraggiosa, basti pensare all’indagine di Jacques Derrida sull’opera ellittica e iperbolica di Edmond Jabès, basti pensare alle dubitative ontologie post-heideggeriane, ancora umanistica e dialettica in Paul Ricoeur, aggettata su uno iato radicale, simile ad un ponte in perenne costruzione, in Emmanuel Lévinas.

Celebri rimangono, d’altronde, alcuni quesiti, tutt’oggi rintracciabili nel corpus lirico che, nonostante tutto, ancora alimenta una possibile memoria collettiva, nel segno grammaticale dei quali l’enunciazione si piega con un’umiltà supplementare a quella che confessasse soltanto retoriche aporie sul qui?, il quomodo? o il cur?: ricordiamo, par coeur e in sintetica non meno che apparente regressione, il baudelairiano “Pourquoi, l’hereuse enfant, veux-tu voir notre France? – perché, bimba felice, vuoi tu veder la nostra Francia”[1], o Anna Achmatova quando si chiede “Ne smertnogo l’časa ždu? - E non vi sto forse aspettando l’ora della morte?”[2] o la supplica di Rilke “wringt ein wem, wem zu Liebe / niemals zufriedener Wille? – per chi, per amore di chi / una volontà sempre scontenta li torce?”[3].

Un altrove indica dunque Gabriella Valera Gruber, sin dal titolo dell’ultima raccolta: Scendevamo giù per la collina. Un luogo lungo il quale si continua a provenire, man mano che dissolviamo nelle atmosfere permeate da una luce che non è ancora aurora ovvero annuncia un imbrunire incipiente, là dove sono ambientate molte delle stanze in cui il testo incontra consistenza. Come su un evanescente confine riverbera, per un istante, un’epifania, ad esempio “tra mare e cielo / egualmente grigi” (p.111), affinché, per sottrazione del tempo tragico della Storia, sia offerto il καιρός d’un quesito rivelatore: “Vedi? / le mie mani sono pallide / come fiori di giaggiolo […] / Soltanto le stelle potevano guardare / le bocche piene di dolore / e ascoltare / il sordo lamento / che apriva il cielo” (p.22).

La domanda emerge all’incrocio di ipseità che si rivelano a vicenda, nella presenza di un discorso compiuto attraverso il dolore dell’esperienza e quello della separazione, così da richiamare ad una gioia ancora da conoscere. Nella potenza di tale discorso, che è un dialogo a più voci, le quali dissimulano talora una maschera, talora un volto, matura l’attestazione di sé stesso come altro, si costruisce, con ipometrica pazienza, l’apertura etica rivolta al “vivere bene assieme e per gli altri entro istituzioni giuste”, qual era a fondamento di un’antropologia infine sostenibile, ravvisata appunto da Ricoeur in alcune pagine.

Qua però, nel libro di Valera, gli incontri accadono sotto lo stigma della levità, che fende il sofferto tessuto della disamina, lascia intravedere un colore mai prima così vivo, se è vero che va “a te, amor mio, / la luce di questa notte, / in cui cerco me / e trovo te” (p.193). La labilità condizionale del ricongiungimento, d’altronde, emerge pure in taluni dati metatestuali, forse non del tutto fortuiti, in certe occorrenze compositive, di cui si rintraccia un esemplare, sfogliando il volume, là dove una delle grafiche di Ottavio Gruber – nella quale si staglia una coclea di scale condominiali, per perdersi, in alto, verso un “cielo pallido” o anche di anodina luminescenza, simile a quanti, di pari straziante quotidianità, ne balenano in altri passi nello spazio della silloge – nasconde, sul retro, una coppia di distici che registrano: “Oggi nel cielo alto dell’estate,/ tra i rami frondosi,/ la voce degli uccelli/ ha una forza che non perdona” (p.142), tanto che “resta poi il mistero/ di capire perché/ basta uno sguardo buono/ a darmi la felicità” (p.203).

La parola, in cui uno sguardo è tolto, è la stessa che schiude l’occhio alla visione.

 

[1] Charles Baudelaire, Les Épaves, À une malabaraise (v.17).

[2] Anna Andreevna Achmatova, Vse my bražniki zdes’, bludnicy (Qua siamo tutti ubriachi, meretrici), v.14.

[3] Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien (IV, v.3-4).

Recensione
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