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Alessia
Di Raffaele Piazza è
già
stata rilevata
sia
la vivace immaginazione
stilistica, veicolata da una lingua onirica e trasfigurante, sia,
dal punto
di vista tematico,
la centralità
dell’esperienza
amorosa. In Alessia,
la sua
quinta raccolta poetica,
questi due aspetti si fondono ad una temperatura lirica
tale da rendere attraente (almeno
per il
sottoscritto) un
approccio
psicoanalitico.
Vorrei proporre che il poeta realizza,
in questa nuova raccolta, una sistematica,
radicale immersione nella
fantasia
febbricitante del
soggetto innamorato.
Alessia è
qui vera e propria
ipostasi dell’innamoramento,
una condizione,
come si sa, almeno
moderatamente psicotica,
contraddistinta dalla percezione della realtà
esterna
come sensibilissimo
controcanto
dell’esaltazione
psichica del soggetto.
La
personificazione della natura è un sintomo cospicuo di questo fenomeno e qui
infatti alberi, fiori,
uccelli,
aria e corpi celesti
(ma anche, in un’incursione allucinata del soprannaturale, schiere di “angeli”),
tutti trasfigurati dalla
frenesia amorosa di Alessia,
diventano fedeli comprimari nello spettacolo fantasmagorico della
sua passione.
Cogliamo l’occasione
per sottolineare la sensibilità
figurativa di Piazza,
i cui “scenari”, “campiture” e “panneggi” denotano un’ispirazione e un
vocabolario esplicitamente pittorici: e Alessia, carnale e divina (“nel
differenziarsi dai / limiti del tempo, entra in galassie e ne esce /
rinnovata…”), appare come un incrocio tra l’orgasmica Santa Teresa del Bernini e
la Venere botticelliana, istigatrice della fertilità
universale. Ma forse
il DNA di questa scrittura gioiosamente panico-erotica va più opportunamente
cercato nel naturalismo mistico di San Francesco (il
ritmo sacramentale
del cui
cantico è
pure
richiamato dalle
incessanti
ripetizioni:
“amniotica pioggia”, “anni contati come semi”, “sta infinitamente”…).
E del resto, l’immersione
radicale nella fantasia
amorosa esige
proprio il
mantenimento di
un atteggiamento di mistica positività per cui il sentimento della
“gioia”,
parente stretto del thauma francescano di fronte alla natura delle cose,
domina l’intera
raccolta.
È uno
stato che
necessariamente esclude
l’elemento traumatico, la cui dimensione spettrale è relegata a brevissime e
ripetute allusioni (“gridano i gabbiani: ‘attenzione!’”,
:”tanto non mi lascia”
“non ho finito gli esami / e Giovanni non ha lavoro / né
casa né
culla”). L’estasi
dell’innamorato non concepisce il trauma. Ma il costo di questa esclusione è la
necessita di ribadire l’estasi ad ogni nuovo testo, in un tessuto martellante di
ridondanze in cui, come già
accennato, intere
frasi, stilemi, parole chiave (la più
notevole,
“interanimarsi”) si ripetono, identici o
sottilmente
variati, alla stregua
di formule incantatorie. Ogni
poesia,
in altre parole, è costretta
a ridire quella
che la
precede,
non tanto perché,
banalmente, un testo non riesca
mai a dire tutto, ma perché
l’integrità
della fantasia va
costantemente riaffermata, difesa ad ogni costo e il più al lungo possibile dal
sempre imminente assalto della grigia realtà:
in questo consiste,
appunto,
la proverbiale
“pazzia”
o “cecità” della
condizione amorosa.
A lungo
andare, però, il
regime assolutistico del gaudio finisce per caricare la cesura (il silenzio, lo
spazio bianco) tra ogni testo e il successivo di una sospensione di inusitata
pregnanza, nella misura in cui vi si accumula
– non detto perché
indicibile
– lo sconfessato lato
oscuro della fantasia
amorosa: come si
gestiranno,
finita
l’ebbrezza, le miserie
della quotidiana vita di coppia?
Come
si negozierà
l’ontologica
incompatibilità
di genere,
l’impossibilità
che Lacan
dimostra essere costitutiva
del
(non-)
rapporto sessuale?
Se si intende
la negatività
hegelianamente,
ossia
come funzione del divenire e
motore di sviluppo, risulta chiaro come proprio questa dimensione debba rimanere
assente dall’universo fantasmatico di
questa raccolta (che
si potrebbe legittimamente intitolare l’Alessia
innamorata).
In questa
estrosa eppure formalmente
rigorosissima
(sacra?)
rappresentazione della
psicopatologia dell’innamoramento
non può esistere sviluppo, ma soltanto l’euforica
riproposizione dello stesso scenario psichico,
un universo atemporale
in cui è sempre il “1984”,
e tutto sobbolle gloriosamente nel
fuoco del rapimento
erotico.
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Recensione |
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