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La poesia di Lucio Zinna possiede da sempre una sua personalissima cifra linguistica, dotata di una lucidità espressiva che traduce un condensato riflessivo – marcato da costanti guizzi ironici – in un verso colto ed elegante. Una schiva linearità di pensiero – mai adagiata comunque su rigide gabbie razionali – che nel contatto con la fragilità umana si corrobora di venature malinconiche. Anche questo suo recente, raffinato libretto – che raccoglie 24 poesie del periodo 1993-2001, alcune delle quali apparse su riviste e antologie – consegna al lettore un’ennesima prova di matura e disincantata attenzione vitale, su una tessitura poetica di solida compattezza formale.

E fa qualcosa di più: ci offre un distillato, un tracciato essenziale dell’intima pulsazione lirico-riflessiva dell’autore. Infatti, i 24 testi sono tutti perfetti nel loro taglio linguistico netto e fieramente sobrio, che nella sua precisa calibratura tuttavia concede a una vis affabulatoria la fluidità discorsiva di un colloquio interiore.

Il poeta percorre nella memoria luoghi, persone care (tra cui anche l’amatissimo gatto Raf, umanizzato nel privato universo domestico) con sguardo asciutto ma non distaccato, ben conscio nella dolorosa distinzione degli ingranaggi quotidiani. Il velo malinconico che si posa sui ricordi è comunque sempre terso, lascia trasparire una vigile pietà umana, riflesso di una generale tensione empatica dell’autore che non vuol però confondersi con l’attaccamento simbiotico (“E sei il ‘me’ non sovrapponibile | la perfetta similarità che non è | confondere – assimilare – ma perno | d’ogni possibile liberazione”). Questa polarità della prossimità-distanza ha il suo fulcro nell’alterità fondamentale di un assunto interiore che non vuole mescolarsi né snaturarsi nella superficiale continuità del reale. Nessuna “torre d’avorio”, semmai principio di diversificazione | che ti fa essere quel che sei”, e che dunque persegue un inconfondibile ritmo interiore, sbalzandolo dal piatto bassorilievo  del flusso temporale.

La riflessione sul tempo, sulla caducità umana diventa anche fatidica interrogazione sul mistero, sulla riserva di senso che può avere un limite così definitivo come è quello della morte. Il coraggio di affrontare questo inquietante orizzonte – che in più testi è orgogliosamente manifestato (“Guardarla | in faccia – quando che sia – la morte | non abbassare lo sguardo”; “Lentamente imbianco e non m’arrendo” ) – ha pure le sue rughe di cedimento (“sento | che me ne andrò coi miei assilli me ne andrò | inquieto alla mia quiete”), giusto sintomo di un’ambivalente progressione del cosciente divenire (“È germe o verme l’ora che ti scivola | sulla pelle sull’anima fino a farsi lenta | calvizie dell’essere?”). Lo snodo memoriale sosta su precise istantanee di pensiero, che elevano con uguale e affettuosa considerazione sia momenti di dimessa quotidianità (Ottobrata ‘panormita’) sia rari attimi di estasi intellettuale (E narrerai del ritmo dell’alba). Non manca la riflessione sulla stessa funzione della poesia e sugli artigiani della parola (Questi maledetti poeti), in cui il dardo ironico dell’autore si fa più acuminato e puntuale.

È però nella ricchezza fonico-semantica dei testi, nella loro freschezza di intuito, nella densità intellettuale – che sa intrecciare mistilinguismo “culto” con vivacità del parlato – che il nucleo sapienziale  di questa poesia si trasforma in nitida enunciazione di principio. Senza mai essere pedante, la fede interiore dell’autore – fede laica, salda nella coscienza del sé – traspare libera dai versi, così come da una partitura le note si librano per superiore armonia. Su questo territorio di salde radici anche la fragilità della speranza (“La porcellana più fine | è la speranza [la “fede” avresti detto] | che qualcosa si muova oltre l’alpacca | del dubbio che qualcuno ci attenda | oltre quel filo.”) può infine trovare un credibile asilo.

Recensione
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