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Alessia
Nel parlare di
Raffaele Piazza (poeta napoletano noto a livello nazionale per la sua copiosa
produzione letteraria e critica) e delle 69 poesie contenute in
“Alessia”
(ed. Associazione Salotto Culturale Rosso Veneziano, Napoli, 2014, Premio Tulliola 2016), sembra doveroso chiedersi: “chi è Alessia?”. È,
etimologicamente, “colei che difende” dal disadorno, che dunque adorna la vita e
la parola; è al contempo donna angelo e femmina desiderata con cruda sessualità;
è la forza vitale dell’amore e della gioventù. Come nel rito cattolico,
“Alessia” è memoria e ringraziamento per un trentennio, diaristicamente
scandito, di vita “duale”. Rito poetico che il “nerovestito” Giovanni
(etimologicamente: colui che Dio ha favorito? il profeta? o il dark salvato?
l’autore?) officia con un cantico che, ispirato da una sincera meraviglia
(meravigliato è l’autore nel rammentare, e tale meraviglia trasmette al lettore,
incantato da una poiesis che gli regala storie ascrivibili all’“epica del
quotidiano”) celebra Alessia “campita”, cioè pittoricamente trasfigurata come
“Madonna barocca” e fissata icasticamente sullo sfondo degli spazi dell’amorosa
vicenda predicabile (dal “Parco Virgiliano” della lirica d’apertura, alla più
volte citata “auto stretta”, ai luoghi domestici ed “en plein air”, fino all’
“Albergo degli angeli, /camera n.8” degli ultimi versi del libro).
Una
vicenda predicabile mediante temi e parole-tema ricorrenti, con le quali il
poeta crea e ricrea una rete di soggetti accortamente assemblati e riproposti
con sostanziali e mai vacue variazioni. Presenze che altri già hanno individuato
e interpretato: gli uccelli e il loro monito agli amanti (“Attenzione!”), la
mietitura che rinvia al raccolto poetico ed erotico (forsanche evangelico: con
la separazione dal poetabile grano della vita dal loglio del “disadorno”); le
“fragole” che hanno lo stesso sapore della bocca e del corpo, la “conchiglia”
che rimanda al mistero di Afrodite (ma anche al “fossile tempo / di una storia
bella, pari a conchiglia”:
ovvero al
fissarsi definitivo di una storia di per sé bella e resa ancor più esemplare in
grazia della parola poetica). Altri temi sono presentati quasi in sordina. Per
esempio, quello dei libri letti, con nomi di autori e di titoli (Sylvia Plath e
Alda Merini, il “Canzoniere” petrarchesco e i “Fiori del male”), che forse sono
sommesse dichiarazioni di poetica e caute ammissioni di affinità e di
ascendenze. Oppure i criptici accenni ai figli: “Aria azzurrocielo, scia candida
di jet / che passa (lì ci sono i figli)” – pag.58; “E in men che non si dica /
solcare l’azzurro una rondine / di platino come jet a contenere / i nostri
figli.” – pag.74.
Chi
conosce le precedenti opere di Raffaele Piazza ritrova in “Alessia” tante delle
succitate tematiche e parole-tema. Lo stesso nome di Alessia è rinvenibile in
una poesia, “Camere per internet”, apparsa in apertura della silloge “Del
sognato” (ed. La Vita Felice, Milano 2009). Ecco: “si chiama Alessia sta nel
file segreto il / suo nome nelle tasche a fotografie / di quanti saranno i suoi
figli / come le linee della sua mano portano ceste / di fortuna lineare lungo
presagi di camminate vegetali da cliccare…”. Bastano questi pochi versi per
comprendere come Piazza sappia passare da questi moduli espressivi modernisti
(si pensi al lessico: “file, cliccare”; si noti la decostruzione della sintassi
canonica in favore del libero accostamento analogico) ad altro compatto e
differente progetto poetico: “Alessia”, opera nella quale l’attento Antonio
Spagnuolo, nella sua densa ed esauriente “Prefazione”, ha ben intuito “una
originale vaghezza di post moderno”. Un progetto poetico che si avvale di altri
mezzi espressivi. Mi riferisco al lessico che comprende poetismi (“stellante,
“azzurrità”, lucore”, “sembiante”), arcaismi (“polito”,
“fabula”),
termini peregrini (“inalveare”, “interanimarsi”), parole composte ascrivibili a
una tradizione che va da Omero a Lucrezio a d’Annunzio (e che Raffaele Piazza
rinnova con originalità:
“cielovestito”, “oltresiepe”),
vocaboli usati in accezioni non comuni (“esatta gioia”, “esatto stelo”, “mani
affilate”). E ancora mi riferisco alla sintassi, caratterizzata da controllate e
parsimoniose licenze, come dimostrano due fenomeni ricorrenti: l’uno, il
disusato costrutto (del latino e dell’italiano neoclassico) del genitivo
inserito all’interno di un altro sintagma (un esempio tra i più significativi:
“nel giardino/ delle squadernate sul rettangolo di verde / rose profumate” –
pag.66), l’altro, l’allentamento sintattico ottenuto mediante l’assai frequente
uso della preposizione
“a” + infinito con
funzione polivalente (un caso limite: “Alessia nel futuro anteriore” – pag.63).
Le sopraindicate ricorrenze lessicali e sintattiche non sono ascrivibili, le une
a un’intenzione di classicheggiante panneggio, le altre a persistenza di maniere
moderniste. Si tratta invece di sostanziali mezzi espressivi, volti a creare un
tessuto fonico compatto e di non banale sonorità. Perché quelle parole, quei
costrutti, così come gli esasperati enjambement (“la / conquista”, “a /
imprimersi”, “per / fare l’amore”), le partizioni in gruppi di strofe divisi
dallo spazio bianco e dal progressivo numero arabo ma unite dalla congiunzione
copulativa “e” (come nei versi di “Alessia e l’albereto” – pag.56), la ben
rilevabile ridondanza metaforica (basti questo esempio: “piove amniotica /
pioggia sui campi dell’essere / in quel riseminato incantesimo // di gioia
perenne nella fragola”– pag.65), le sapienti figure di suono (allitterazioni,
rime, assonanze e consonanze), le iterazioni a distanza di parole o di
enunciati,
sono lì a produrre sovrabbondanza di senso, spessore di significato, ulteriori
connotazioni affettive o meditative.
Questi versi che
fingono una favola bella, politicamente corretta, dove non ci sono né lupi né
orchi né streghe, dimostrano la vittoriosa concordanza tra quel che Raffaele
Piazza ha voluto fare e quel che ha fatto. Ha vinto la scommessa di esprimere in
un testo polisemico e tutt’altro che frivolo un suo gioioso mondo privato, dove,
con buona pace di Eliot e di Montale, “aprile è il più bello dei mesi” (pag. 86)
e “accade sempre di trovare / del bosco l’uscita, il filo tiene e l’onda / non
sommerge” (pag.103).
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Recensione |
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