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Dino Campana, “un viaggio chiamato pazzia”
La vicenda
emblematica di Dino Campana,
genio incompreso affetto da presunta pazzia
In una calda
giornata dell’agosto 1916 fra il Mugello e Firenzuola ha inizio un “viaggio”
particolare che comincia coll’incontro fra il poeta Dino Campana e la scrittrice
Sibilla Aleramo, in un paese della montagna, il Barco, formato da un pugno di
case lungo la strada che dopo Scarperia, scende dal passo del Giogo.
Fra i due, dopo che Sibilla ha letto i Canti
Orfici e ne è rimasta affascinata, vi è stato un primo scambio di lettere ed
è stato deciso l’incontro. Dopo i giorni felici di Casetta di Tiara, un paese
sospeso fra i monti dell’Appennino sopra il mare verde dei boschi, seguono i
giorni del dolore e della sofferenza, del lungo periodo dell’abbandono.
“Come sapete ho la testa vuota” scrive Dino a
Sibilla lontana, mentre fuori della casa soffia un cattivo vento, “il vento
iemale che empie questa valle d’Inferno”, infossata fra il buio dei boschi.
Il viaggio volge verso il suo compimento, come
ricorda Dino con questi versi
…Erano le sue
rose erano le mie rose
Questo viaggio
chiamavamo amore
Col nostro
sangue e con le nostre lagrime facevamo le rose…
Di questo “viaggio chiamato amore” si sono
occupati, com’è noto, il cinema, la letteratura, il teatro. Parliamo in queste
pagine di un altro viaggio: quello che porta il poeta dal paese natale, Marradi,
alla morte nel manicomio di Castel Pulci attraverso le dolorose tappe che
scandiscono la sua follia.
Il villaggio del
poeta
Marradi è il villaggio di Dino Campana, la terra
delle sue radici, al quale tutti oggi ritornano per cercare di scoprire i segni
della sua vicenda straordinaria.
Il poeta traccia nei Canti Orfici alcuni
tratti di questo paese disteso, lungo la valle del Lamone che dall’Appennino si
distende verso la Romagna
“Il
mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo
desolato si illumina il castello, più alto e lontano. Venere passa in barroccio
accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e
ruggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce
trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i
campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga
veranda che ha messo un commento variopinto di archi !”.
In questa prosa poetica, piena di
immagini, colori, accenti musicali lo spirito dell’uomo sembra essere in piena
sintonia con quello del luogo. Marradi è un paese antico con uno storico
castello ma è anche un paese che vede, alla fine dell’Ottocento, i primi
sviluppi dell’industria. La “lunga veranda” che si alza dal fiume, è la filanda
da poco aperta nella quale lavorano molte operaie. Da poco è stata inaugurata la
ferrovia fra Firenze e Faenza.
Al censimento del 1911 Marradi conta
una popolazione di novemila abitanti, superiore di quasi tre volte a quella
attuale, distribuita fra le varie frazioni circondate di case sparse, nelle
quali abitava la grande maggioranza dei residenti, in prevalenza mezzadri
duramente impegnati a strappare ad una terra avara quel poco che poteva dare.
Gli operai, oltre ai dipendenti di
poche unità industriali e artigianali, erano sterratori impegnati per lo più nei
lavori a grandi opere nella zona e nei paesi di emigrazione, braccianti
agricoli, boscaioli, carbonai.
Anche il paesaggio era diverso da
quello attuale: interi fianchi di colline oggi verdi di macchia selvatica, erano
allora spogli perché il terreno era coltivato senza lasciare un palmo di terra
incolto. La ferrovia, ultimata sulla fine del secolo, costituiva allora un
collegamento fondamentale ed al suo seguito si erano sviluppate nuove attività
economiche: una fornace di laterizi e la “Filanda”, presso la quale fu creato
nel 1908 l’Asilo infantile. Il paese si era dotato di una banca locale, la
“Banca di deposito e sconto” e nel 1898 era stata costruita, fra i primi casi in
Italia, una centrale elettrica. La scuola era presente con strutture permanenti
nel capoluogo e nelle sei principali frazioni.
Le differenze sociali erano notevoli:
la parte agiata della popolazione, i “signori”, vivevano di rendita, avevano uno
dei punti di incontro presso l’Accademia degli Animosi, costituita nel
lontano 1792, conducevano una vita separata dalla grande massa dei contadini e
dal più esiguo numero di operai. Al Circolo Unione s’incontravano gli
operai.
Il paese aveva la sua classe emergente
formata dalle persone che svolgevano le professioni più qualificate: i medici,
il farmacista, i maestri, il segretario comunale, l’arciprete, gli artigiani e i
commercianti. Questi gruppi di persone erano certamente in relazione con la
realtà fiorentina, leggevano i giornali e, alcuni, le riviste dell’epoca, erano
informati di quello che accadeva nel mondo, discutevano dei temi vivi della
società italiana, come l’acceso dibattito sull’intervento dell’Italia nella
Grande Guerra.
Anche Dino Campana apparteneva a questa “Marradi emergente” e partecipava alla
vita comune con i figli delle migliori famiglie. Faceva parte di una famiglia
prestigiosa che contava un magistrato del tribunale di Firenze e due fra i più
noti maestri di Marradi, il padre Giovanni e lo zio Torquato.
La famiglia
Dino Campana nasce il 20 agosto del
1885: la madre, Francesca Luti, detta Fanny, è di origine fiorentina, il padre
proviene dalla Sicilia. I primi anni sono come quelli di tutti i bambini.
Frequenta le scuole elementari a Marradi: nel manifesto affisso a Marradi al
termine dell’anno scolastico 1894-1895, è indicato fra gli alunni che hanno
ottenuto il primo premio per il profitto.
Dino dice sempre di aver avuto un’infanzia felice. Sua madre, donna più che
energica, lo ricorda come un bimbo bello e buono che a due anni recitava l’Ave
Maria in francese. In un momento nel quale non ha da tempo notizie del figliolo
ormai più che trentenne, scrive una struggente lettera alla scrittrice Sibilla
Aleramo, da tempo legata da una relazione con il poeta, per cercare sue notizie:
“…E’ un benedetto figliolo che bene
non può stare, ai nostri occhi, fa il possibile per stare male e fare stare male
i suoi.
L’infanzia e l’adolescenza di quel
figliolo è stata meravigliosa: Pacifico bello grasso ricciuto, intelligente di
due anni diceva l’Ave Maria in francese, ero da tutti invidiata. Di
un’ubbidienza e bontà eccezionale, i suoi professori di ginnasio e liceo lo
dicevano di un ingegno non comune, a noi genitori dicevano, sarà la loro
consolazione. –Ora sono stata costretta a dire: per compatirti grande, bisogna
mi richiami alla mente i suoi primi anni, e non basta. Lo crede che spero in
un'altra trasformazione. ….”
Il padre Giovanni dice di Dino che era
chiuso di carattere, obbediente e alquanto disordinato, ma intelligente e senza
problemi scolastici. Dopo le scuole elementari viene iscritto al collegio dei
Salesiani di Faenza
,
dove studia al ginnasio. Nel 1900 è iscritto alla prima classe del liceo
classico di Faenza , e fa il pendolare tra casa e scuola. Quell’anno si
manifestano i primi segni di disturbi nei comportamenti del ragazzo. Ha
frequenti scoppi d’ira ed è molto violento, specie con la madre; si chiude in
ostinati silenzi, astraendosi dalla realtà. A scuola lo prendono in giro per le
sue stramberie e inevitabilmente alla fine dell’anno viene bocciato. La carriera
scolastica di Dino procede ugualmente, alla meno peggio, e arriva alla licenza
liceale nel 1903. Con una scelta strana, quanto mai distante dai suoi interessi,
si iscrive poi alla facoltà di Chimica all’Università di Bologna.
Osserviamo da vicino la famiglia del
poeta con l’aiuto della ricerca sull’argomento di uno scrittore, Sebastiano
Vassalli. “La vita di Campana è una vita breve e per molti versi atroce, segnata
fin dall’inizio dalla disgrazia della nascita in una famiglia normalissima,
quasi una famiglia modello se vista dall’esterno, in realtà piena di veleni e di
ombre.”
Il ragazzo è in pratica rifiutato dalla madre dopo la nascita di un secondo
figlio, sottovaluta l’effetto prodotto su Dino dal suo autoritarismo e
soprattutto dalla sua sfacciata predilezione per il figlio minore, Manlio.
D’altra parte questa donna ha contrasti con il marito, dopo qualche anno di
convivenza il rapporto si incrina, ma con il perbenismo dell’epoca la
separazione è inconcepibile: si convive, allora, e si convive male, e a farne le
spese è il primogenito Dino. La madre non lo sopporta, qualunque piccola cosa è
pretesto per una scenata.
Il padre non sembra adatto ad alcuna
operazione di mediazione per rassicurarlo, né in famiglia né fuori. Come maestro
devono essergli sembrate un’onta la goffaggine di Dino. Ne soffre profondamente,
e un giorno, di sua iniziativa, va all’ospedale psichiatrico di Imola e parla
con il direttore dell’ospedale, il quale gli prescrive delle misteriose
polverine che gli restituirono “la serenità e la felicità.”
La malattia psichica di un parente, lo
zio paterno Mario, rappresenta poi, in questo quadro, un marchio di vergogna da
nascondere e rimuovere, che segna nel paese la famiglia. Il regista toscano
Roberto Riviero, nel film realizzato nel 1999
,
pone attenzione a questa figura e al rapporto con il piccolo Dino, sulla base
delle sue ricerche ci presenta dati interessanti per la ricostruzione della
storia della famiglia. Sembra di poter cogliere una forte simpatia per lo zio
Mario da parte di Dino, che lo faceva divertire molto con il suo atteggiamento
da eterno bambino. Dopo l’ultima fuga da casa dello zio, in famiglia decidono di
mandarlo in manicomio, lontano dai mille sguardi del paese. E lo sguardo dei
familiari, si posa spesso ora, con ansia, sui comportamenti di Dino. In una
scena del film, mentre la famiglia si ritrova per la cena, la mano di Dino
trema, facendo vibrare le posate sulla tavola e il ragazzo sembra assente; lo
stesso gesto era stato fatto in precedenza anche dallo zio, nello stesso
contesto. Lo zio morirà in manicomio e la nonna rimprovererà i familiari che
hanno deciso di rinchiuderlo.
Assistiamo ai dolorosi passaggi di
questa storia e alle liti frequenti dei genitori di Dino: la madre afferma che
se fosse stata a conoscenza dei casi di pazzia verificatesi nella famiglia del
marito, non avrebbe voluto avere neanche un figlio; ma il fatto più drammatico è
che queste parole sono dette davanti al figlio maggiore, Dino.
I contrasti fra i due coniugi si
inaspriscono con gli anni, quando Dino ormai adolescente comincia a reagire:
volano i piatti, si sente spesso gridare in questa casa di persone benestanti:
uno scandalo che agli occhi del paese viene ricondotto alla stravaganza, se non
proprio alla pazzia, di questo figlio ribelle.
Lo scemo del
villaggio
“Divenni nevrastenico”, riconosce
Dino. Tradotto nei fatti, ciò vuol dire che diventò aggressivo e imparò a
scappare, a nascondersi, a far sempre più a meno degli altri. Il rapporto con la
famiglia e con la madre, in particolare, divenne un groviglio d’odio e d’amore
insieme e il bimbo bello, di cui andavano orgogliosi, era diventato “el mat” del
villaggio, con il quale divertirsi, fare scherzi atroci, aizzarlo nelle sue ire,
farlo bere, motivo continuo di divertimento nelle lunghe serate al caffè del
paese.
“A me
pare di vederlo – dirà negli anni Cinquanta l’anziano parroco Pietro Poggiolini
– segnato a dito come uno squilibrato! Come uno che non avesse compreso niente
di quello che è il vivere comune. Andava sul Lamone, sul fiume dove aveva
giocato da bambino, e chissà quante idee gli venivano in quel momento ! Di certo
desiderava poter parlare con qualcuno, ma a lui non si avvicinava nessuno. I
bambini, che ordinariamente sono sull’argine o sul letto del fiume, lo
osservavano; lui li chiamava, ma i ragazzi anziché avvicinarsi, fuggivano come
lepri. E lui rimaneva a guardarli, poi scuoteva la testa e s’incamminava lungo
l’argine calciando i sassi !”
E’ una fase iniziale di un’ostilità
che col passare del tempo assumerà il carattere di persecuzione vera e propria.
I ragazzi anziché scappare cominceranno a schernirlo, a tirargli pietre, “a
infilargli gli zolfanelli tra le dita quando è ubriaco, per poi accenderli:”
Poiché veniva considerato lo scemo del
paese, le sue fughe possono sembrare motivate, ma il suo andirivieni si tramutò
presto in un esasperato bisogno di vagabondaggio.
Del suo viaggio nel cono d’ombra della
pazzia, Campana, a tratti, sembra averne consapevolezza. Si crea un profonda
incomprensione fra lui e gli altri, che determina una frattura incolmabile con
un certo tipo di società borghese: “tutti” dice “mi hanno sputato addosso
dall’età di quattordici anni”; “io sono” ripete “colui che del dolore ha fatto
sangue”.
In anni più tardi abbiamo questa
testimonianza di Soffici riferita ai motivi per i quali il poeta dedica I
Canti Orfici all’imperatore Guglielmo II:
“Ma sì –
egli mi disse è stato il dottore, il farmacista, l’ufficiale della posta, tutti
quegli idioti di Marradi, che ogni sera al caffè facevano quei discorsi da
ignoranti e da scemi. Tedescofobi, francofili, massoni e gesuiti, dicevan tutti
e sempre le stesse cose: e il Kaiser assassino, e le mani dei bimbi tagliate, e
la sorella latina, e la guerra antimilitarista. Nessuno capiva nulla. Mi fecero
andare in bestia; e dopo averli trattati di cretini e vigliacchi, stampai la
dedica e il resto per finirli di esasperare.”
La scoperta di
altri mondi
Il poeta cerca sollievo alle sofferenze nei
minuscoli borghi che circondano Marradi, dove vivono persone “buone”:
“Son
capitato in mezzo a bona gente.…..e il vento che batte all’orizzonte annuvolato
i monti lontani ed alti, il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve …
La padrona zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza
della vita patriarcale.”
In questi luoghi prende come respiro,
appare lontano il tormento del vivere nel paese. I borghi sono immersi in un
paesaggio antico, dai lontani orizzonti, reso ricco di forme e di suggestioni da
una natura avvertita come amica, fonte costante di ispirazione per il poeta.
“Campigno: paese barbarico, fuggente,
paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte
dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento
grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in
corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele:
paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.”
Da questi borghi iniziano sentieri che
portano lontano, verso Camaldoli o La Verna, a sud, o in direzione di Casetta di
Tiara, a nord, per le valli e i monti dell’Appennino dai colori e dai suoni
cangianti secondo le ore del giorno e l’alternarsi delle stagioni:
“La Falterona è ancora avvolta di
nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo
di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. … Le nebbie sono
scomparse: esco. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi
della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa.”
“Un usignolo canta tra i rami del
noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la
sua cantilena. E’ un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa
del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi.”
Questo ambiente rappresenta il suo
buon ritiro, con la compagnia costante dei libri che più ama, ai quali dedica la
maggior parte del suo tempo; vi è nel suo animo un atteggiamento di profonda
moralità che coincide con l’assoluta dedizione alla poesia e alla letteratura.
Si allontana frequentemente anche da
questi rifugi per viaggi che lo portano a scoprire prima le regioni dell’Italia
del nord, poi i paesi dell’Europa fino alla Russia e infine le terre più
lontane: le Americhe e l’Australia. Svolge i lavori più umili, scopre nelle
terre visitate i diversi mondi dell’esclusione e della miseria . Nella sua
ricerca Genova rappresenta con il suo porto il passaggio verso l’intero mondo e,
al contrario di Firenze, è immagine di gioia, di colore, di vita
“…….
La grande luce mediterranea
S’è fusa in
pietra di cenere:
Pei vichi antichi
e profondi
Fragore di vita,
gioia intensa e fugace
……”
Le sue conoscenze e la cultura che
riesce a sviluppare presentano una dimensione, si potrebbe dire, planetaria;
basti ricordare lo stupore di Soffici, che pure aveva consuetudine con molti
ambienti europei:
“Io e Papini si sapeva, per esempio,
perché ce l’aveva detto, che egli era di Marradi, figliuolo di un maestro
elementare e che aveva studiato chimica all’Università di Bologna; ma dalla sua
conversazione trapelavano ogni momento conoscenze di paesi, di linguaggi, di usi
e costumi alieni e remoti, che nessuno di noi sapeva spiegarsi e che ci
disorientavano. Si parlava di letteratura? e Campana citava nomi di poeti
tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere nella lingua
originale.”
La rivincita
del poeta
La critica letteraria ha dato al poeta
un giusto risalto nel quadro della letteratura del Novecento, superando giudizi
sbrigativi – come quello di Umberto Saba, “non è altro che un pazzo” – che
tendevano a porlo ai margini del mondo della poesia e a cogliere solo elementi
di colore legati ai caratteri esteriori del personaggio. Ci sembra interessante
cogliere l’originalità e , per certi versi, la complessità della sua ricerca, la
particolare capacità di accedere ad una pluralità di sistemi linguistici. La sua
lingua, si sostiene, è immersa nelle letterature: nell’esperienza di letterature
assimilate nelle loro lingue originali, lingue di cui Campana poi ridistribuisce
gli elementi secondo una sintassi personale, che crea rapporti semantici nuovi e
plurimi.
Nei suoi viaggi, che sono stati
descritti solo come una perpetua mania di vagabondaggio e frequentazione di
suburbi, possiamo scoprire le manifestazioni di un costume culturale che era una
forma di vita. Ricorda, ad esempio del suo viaggio in Argentina le visite alla
biblioteca di Bahia Blanca per cercarvi letteratura (“…Su da le pagine
risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche …”). In una lettera del
1916 Sibilla Aleramo raccomanda a Cecchi di inviare a Campana che si trova nello
sperduto paese di Casetta di Tiara, presso Firenzuola, “un Eschilo nell’edizione
di Oxford ( non può sopportare le traduzioni francesi). E’ il solo libro che
desidera avere.”
Oggi si parla in maniera diffusa del
“mito Campana”, è un poeta “popolare”, amato da molti giovani. Fra i vivaci
graffiti che rallegrano i muri delle nostre città può capitare di leggere alcuni
dei suoi versi ( “ Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose…”,
si legge nel sottopassaggio di una piazza fiorentina).
E’ facile affermare che Dino ha avuto
come la rivincita sul villaggio da cui è partita la sua avventura di uomo e di
poeta, su tutte le sofferenze che ha dovuto patire dall’adolescenza in poi.
Il villaggio negli ultimi decenni è
stata la meta di più autori, alla ricerca delle tracce lasciate da questa
avventura.
Sergio Zavoli nel capitolo dedicato a
Dino Campana del suo libro I giorni della meraviglia
, sostiene dopo una visita a Marradi, compiuta oltre trent’anni fa, che il
poeta non ha lasciato molti ricordi e i pochi che hanno resistito all’usura del
tempo “si appuntano soprattutto a quel lato della sua personalità che la
rovinosa malattia aveva reso singolare, grottesco e pauroso insieme, tale
comunque da poter colpire l’onesta, semplice fantasia della gente.” Zavoli
ricorda nel suo libro il muro di diffidenza che si è trovato ad affrontare e la
difficoltà di ricercare una risposta alle domande che gli stavano a cuore. La
sua visita a Marradi aveva suscitato, secondo il suo giudizio, “lo stupore di
ricevere conferma del pubblico interesse per Dino Campana; la difficoltà di
conciliare l’estimazione di oggi con il ricordo del passato discredito; la
paura, infine, di non sapere degnamente ricordare il concittadino se non
scusandosi d’averlo creduto niente più di un pazzoide. E tanto si scusarono che
fecero a gara nel dar prove di quella, adesso, onorevole pazzia.”
Particolare rilievo presenta il
“romanzo-verità”
che Sebastiano Vassalli dedica al poeta dopo un percorso di ricerca di
quattordici anni, terminato nel 1983 con la visita al paese. L’indagine sulla
sua storia recente del paese è svolta con passione per impossessarsi, si
potrebbe dire, dello spirito del luogo cercando di ritrovare lo “sguardo” di
Dino sulle persone e sul paesaggio dell’epoca. Ne emergono giudizi netti, in più
casi avvertiti come ingiusti dai cittadini di Marradi, che dettero luogo ad una
serie di accese polemiche.
A merito di questo paese però una cosa
deve essere ricordata: se I Canti Orfici furono pubblicati nel 1915, lo
si deve soprattutto a un gruppo di suoi abitanti. Come è noto, il manoscritto
era stato consegnato da Campana a Papini e Soffici ma fu smarrito. Salterà fuori
solo nel 1971, nella soffitta di casa Soffici. Per Dino è una tragedia, si
ritrova solo a Marradi, a cercare di ricostruire con tenacia ossessiva la sua
opera. Per la stampa del libro il tipografo chiede seicentocinquanta lire: fra i
membri della Società operaia si apre una sottoscrizione e vengono prenotate, e
pagate in anticipo, quaranta copie dai lavoratori del paese. Dino confidava,
d’altra parte, molto negli artisti fiorentini ma riesce ad ottenere solo quattro
lire sopportando mortificazioni di ogni genere.
Oggi una serie di scelte da parte del
Comune sembrano segnare la riconciliazione con la memoria del figlio illustre:
riguardano, fra l’altro il Premio Letterario Campana, il Progetto per il Parco
dedicato al poeta, la realizzazione di un percorso che tocca i luoghi che
evocano alcune delle immagini dei Canti Orfici, dove sono posti semplici
leggii con i versi delle poesie. Ai piedi del ponte sul Lamone, la celebre
poesia L’invetriata:
“La
sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori
nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello
ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si
accende una lampada) chi ha
A
la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada ? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa
languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e
la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la
sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è
Sempre una piaga rossa languente.”
L’ultimo viaggio
Più volte
Campana è costretto a lasciare il villaggio che si innalza intorno a la
Madonnina del Ponte, lungo il fiume Lamone. Non si tratta di una delle sue
scelte improvvise di intraprendere un viaggio lontano dal paese. Sono le
autorità dell’epoca che lo privano in maniera assoluta della libertà, con la
reclusione in manicomio dove le condizioni di vita sono, per più aspetti
impossibili, ed accade ai pazienti di essere sottoposti, come è il caso di
Campana, a “stimoli elettrici” o al getto di secchi di acqua gelida.
La prima volta è condotto nel
manicomio di Imola, nel settembre del 1906, dieci giorni dopo che, a ventuno
anni, ha raggiunto la maggiore età. Due carabinieri lo portano alla stazione del
paese per prendere il treno verso la cittadina romagnola. Nella “nota
informativa” che lo accompagnava si legge: “Dedito al caffè del quale è
avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo” e: “Esaltazione psichica.
Impulsività e vita errabonda”. Questa decisione è stata preparata dal padre che
aveva reso davanti al sindaco una dichiarazione giurata, insieme ad alcuni
notabili di Marradi, tra cui il medico e il farmacista, nella quale si legge che
Dino è matto, ha comportamenti violenti specie nei confronti della madre e deve
quindi essere sottoposto a cure psichiatriche.
Rimarrà nell’istituto di Imola per due mesi.
Conosce successivamente il manicomio
di San Salvi dove è condotto, sempre con la scorta dei carabinieri, nell’aprile
del 1909. Nella “nota informativa” questa volta pone in risalto: “Il malato è
molto studioso; conosce varie lingue. Ha ingegno pronto e vivace”; “Cause
fisiche e morali della malattia: Eredità – Alcolismo”. Alla voce della “nota”
sui motivi del ricovero, appare questa dichiarazione di grande interesse: “Il
malato è oltremodo trascurato in famiglia ed in società, tanto da attirare
l’attenzione dei ragazzi che l’incontrano per le strade. Ha un odio speciale
colla sua mamma, che è dovuta andare via di casa. E’ pericoloso specialmente
dopo eccessive libagioni.” Si chiudono dunque alle sue spalle le porte del
manicomio fiorentino, “il villaggio della pazzia”, grande come un intero
quartiere cittadino. Costruito per 700 malati, ne ospitava all’epoca 1300. Gli
infermieri erano 180 e l’amministrazione provinciale, riportano le cronache di
quel periodo, ne licenziò 12 per rispettare vecchie disposizioni che stabilivano
un rapporto di 1 a 10 fra infermieri e malati.
Poco dopo però lascia l’istituto: i medici ritengono che le sue condizioni non
siano tali da associarlo al manicomio e il Tribunale di Firenze accoglie la
richiesta.
Nove anni più tardi, dopo un ultimo
episodio di furiose minacce, per Campana si aprono in maniera definitiva le
porte dell’istituto psichiatrico. Compie il suo ultimo viaggio all’età di
trentatré anni.
Dopo un primo periodo di osservazione
presso l’ospedale di San Salvi, è trasferito nel cronicario di Castel Pulci,
dove rimarrà per quattordici anni, fino alla morte. Castel Pulci è in alto sulle
colline, a dieci chilometri da Firenze, dove la strada che porta a Pisa si
avvicina all’Arno e ai colli che scendono verso il fiume. Era una volta l’antico
maniero della famiglia Pulci, trasformato dai Riccardi, al principio del
Seicento, in una splendida villa dall’ampia facciata, ben visibile dalla strada.
Negli alti saloni rinascimentali della villa, adattata dalla Provincia in
manicomio, la poesia di Dino diventa, a poco a poco, una lontana eco; sono,
invece, in primo piano le sofferenze dell’uomo e il suo lungo, infinito percorso
nel mondo del dolore.
I suoi biografi ci offrono molti
elementi di questa sua permanenza fra le mura dell’istituto. Ci preme ricordare
che dopo un primo periodo di furie e di allucinazioni, diventa un malato
modello, appare lucido, legge con accanimento libri e giornali; fra i malati sta
in disparte, per conto suo. Passa i giorni in solitudine, interrotti da rare
visite: Sibilla Aleramo non salirà mai alla villa di Castel Pulci. Sono invece
frequenti le visite della madre che ora abita nel vicino paese di Lastra a
Signa; alla sua domanda: “Come stai”, Dino risponde regolarmente: “Come vuoi che
stia. Come uno che sta in manicomio”. Dopo il 1920 subisce le applicazioni di
elettroshoc, ritenute decisive per combattere le nevrosi. Afferma di essere
pieno di correnti magnetiche sostiene di chiamarsi “ Dino come Edison”.
Gli occhi della città sono su di lui
come dimostra il lavoro che svolge Carlo Pariani, uno psichiatra fiorentino, che
si è messo in testa di preparare un libro biografico e di studiare il rapporto
tra genio e follia. Lo tormenterà per anni con le sue domande, fra le reticenze
e i sospetti del poeta, fino alla pubblicazione del libro presso un importante
editore di Firenze, Vallecchi, il quale crede di rispondere così all’interesse
che ancora suscitava il “personaggio” Campana.
Sorprende poi la maniera in cui “Dino Edison” reagisce alla pubblicazione nel
1928, a sua insaputa, dei Canti Orfici da parte dell’editore Vallecchi.
Ha modo di leggere, qualche tempo dopo, il libro e nota gli errori, le censure,
le manomissioni e scrive al fratello perché ricerchi l’edizione originale a
Marradi per evitare che il testo autentico vada perduto per sempre.
Muore di setticemia a quarantasette
anni; alcuni dicono che si sia ferito cercando di scavalcare la rete di
recinzione del manicomio.
La versione non è certa,
ma ci piace pensare a questo tentativo di fuga, per riprendere ancora una volta
il suo volo libero nel mondo della poesia, sopra le nubi della follia, come il
falco che si alza in alto con un battito maestoso di ali, per i fianchi nebbiosi
della Falterona.
Note
Il paese darà un alto tributo alla guerra: dei 1551
uomini partiti per il fronte, i caduti sono 329, la metà dei quali ha meno
di 25 anni, l’età più frequente è 20 anni, i più giovani sono 5 diciottenni,
il più anziano ha 42 anni.
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