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Sono questi i `luoghi' per eccellenza della poesia, e non solo di quella novecentesca che tende la memoria dell'autore come un flauto magico; sono anche metaforicamente i luoghi della vita e il confine della mente. La loro trasparente contiguità di senso è però abisso quasi insondabile, «delirante uragano» o «sbigottita scia di rovine» per il soggetto/protagonista che nella metafora del viaggio esprime una negativa e disperata ricerca di senso. «Poichè il luogo e il tempo | ci nega l'amore | e dalla luce ostile braccati | abbiamo invano frugato | i luoghi oscuri le buche | ove nascondere | la nostra follia | e già di sole ebbre | le pelli hanno tremiti | e i corpi cercano i corpi | e il tuo abbraccio è artiglio... | nei singulti violenti | precedenti la morte | in questo luogo presto | lasciamoci cadere | ...» La vita è la dimensione del corpo, una dimensione instabile, di ragione, follia e volontà, da cui il desiderio parte alla ricerca dell'altro, corpo/anima, complice e vittima inerme di «questo antico sacrifizio» che l'essere compie, braccato ma «esultante | sempre più spesso | al gran lago del cuore | nel colmo della luce | ove nulla può la parola | ma solo dolcissimi | sottili come onde | sommovimenti dell'animo». Nell'economia lirica del viaggio, la soggettiva tensione, il ricercare per esserci, ha forgiato lo sguardo della ragione, lo ha reso eroico, dolorosamente abile a percepire la morte nella vita delle esistenze amate, fragile ma strenuamente determinato a cercare l'approdo attraverso un divenire che esprime in immagini la intuita e sofferta dialettica tra morte e vita. Accade così che «A me che all'alba ancora fuggivo | da mari insidiosi e temibili | portando meco la vita», quando l'approdo insperato acquistava dolce il sapore del ritorno, «anche sulla spiaggia | lontana e deserta | mostrò sbocciati da occulte radici | reali e carnosi | odorosi e sgranati | come fiori della notte del deserto | ancora quegli occhi che ormai | abitano assillanti la memoria». Nel tumulto della solitaria e tempestosa notte, a cui si consegna il cuore stremato dal tempo, come «umile crisalide vuota» o come corpo arreso al pullulare dei fantasmi dell'ansia, la dimensione labile della parola rinnova la volontà di celebrare l'antico rito dove l'essere si conosce «fragile creatura | prigioniera di quell'istante | ove nè vita nè morte | più si distinguono | e il pianto non è pianto | ma un urlo informe | una frana di vetri | infranti negli occhi». Non è difficile cogliere,.nel tessuto esistenziale della raccolta.il vigore intellettuale del dramma; con rimandi complessi, di intrigante finezza e abilità, il romanzo si snoda, come storia senza altro esito che il poetico e quasi mistico ricercare l'isola divina «ove ogni suono di materia è assente», l'«approdo sacro» di chi crede nella ragione «ardente nutrimento del corpo». «Quel giorno fausto | con un veliere e un libro | e le grida dei gabbiani | libero avrò vinto | la città paludosa | con alte vele d'uccello...» I modi della scrittura sottolineano il darsi disarmonico e discontinuo dell'esperienza, ma tendono ad un'umanissima e quasi misterica espansione dell'essere, oltre l'ansia del presente, la nostalgia dolcissima del passato, il desiderio di conoscersi e di conoscere. Non a caso ritornano frequenti le metafore dell'occhio e della luce, ad esprimere l'attitudine a cogliere la metamorfosi della materia, l'attesa dell'ultima metamorfosi. Anche per questo la raccolta Isole e vele trova il suo `luogo' nella tradizione lirica, nel desiderio di canto che dilata la parola fino a cogliere l'eco dell'anima e la misura del significato, per ex-stere in esso, al limite in cuì nell'«oasi di Abu Hassan», isola di morte, predestinata «fine giusta | del lungo viaggio | dolce sarà l'attesa | disperata | di una lettera. |
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