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Prefazione a
Come un bruco assetato di cielo
di Marco Baiotto
(Courtesy of Campanotto Editore)
la Scheda
del libro

Ivano Mugnaini
Al di là della forza espressiva ed evocativa, il
titolo del libro racchiude in sé numerosi spunti di riflessione, o, per meglio
dire, contiene in nuce alcuni degli aspetti di maggiore rilievo del percorso
poetico di Marco Baiotto.
L’autore sembra aver scelto di accoglierci
all’interno dell’edificio complesso e variegato della sua poetica e dei suoi
pensieri con parole che, assieme alla presa estetica, racchiudessero una sorta
di cartina, una mappa geografica ma anche geologica, per identificare
gradualmente le varie stratificazioni accumulatesi nel tempo, il suo approccio
con la vita e con la filosofia, del tutto autonoma, che ha generato, quella su
cui anche i suoi versi appoggiano le fondamenta assorbendone l’humus.
La parola humus appare più adatta,
naturale, è il caso di utilizzare questo aggettivo che di per sé assume
carattere polisemico e onnicomprensivo. Nella scrittura poetica di Marco Baiotto
tutto ha origine dal suolo, dalla materia pulsante di cui il cosmo è costituito.
La sfida, la volontà tenace contenuta in ogni espressione, implicita ed
esplicita, nelle righe e tra le righe, è quella di aiutare il lettore a
comprendere che l’uomo è parte di un insieme complesso, una totalità.
Rifacendoci ancora a quella sorta di stella polare che è il titolo, felice, di
questa raccolta, potremmo dire che l’uomo è quello stesso bruco che è a contatto
costante con la terra ma sente, dentro di sé, la sete del cielo. La sfida è
capire che l’uomo non perde la sua nobiltà se ammette di essere costituito dalla
stessa materia di cui sono costituite le cellule del bruco. E con esse la
possibilità di diventare farfalla, senza tuttavia smettere di far parte di un
ciclo ampio, fascinoso e complesso. In tal modo il suolo e il cielo non saranno
più estremi contrapposti ma un tutt’uno, un immenso organismo che respira
all’unisono la lineare e misteriosa complessità e ricchezza dell’esistere.
“Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è
racchiusa la nostra breve vita”, ci ricorda la shakespeariana Tempesta. A questa
verità che non cessa di risuonare nel vento del tempo, Baiotto aggiunge, senza
porsi in contrasto, la genesi della consapevolezza, come lui stesso la
definisce nella sinossi del libro: la scoperta, ad ogni istante confermata e
rinnovata, che siamo “formiche sulle foglie, per lo più ignare del silenzioso
processo di crescita dell’albero su cui trascorriamo le nostre esistenze”. Le
formiche, ce lo insegnano gli etologi ma ce lo mostra, fin da bambini, anche
l’osservazione diretta, sono esseri sociali per eccellenza. In grado di
trasmettersi informazioni e di condividere all’istante le azioni da svolgere per
il bene collettivo, per la sopravvivenza della loro colonia. L’uomo, per molti
aspetti, ha molto in comune con la formica: sa comunicare e sa costruire e
ricostruire, edifica e riedifica dopo ogni frana, ogni uragano, ogni
smottamento. E anche l’uomo, Baiotto con lucida chiarezza lo indica a più
riprese, non di rado trascorre la sua esistenza senza essere conscio del
“processo di crescita dell’albero”, ossia, in termini più ampi, concreti e
simbolici simultaneamente, senza avere coscienza del perché del suo esistere,
del motivo del suo frenetico e breve percorso sui rami e sulle fronde del tempo,
dei secoli e dei millenni.
Il punto di svolta, e il
cardine stesso, di questo libro, è il passaggio da quella ignara frenesia alla
consapevolezza (torna, essenziale, questa parola, questo concetto). La sinossi,
con una chiarezza che assume di per sé anche una pregevolezza estetica oltre che
filosofica, propone un paragone semplice, immediato, e tuttavia rivelatore: il
gesto di utilizzare una vanga per scavare il terreno (si torna anche, in una
coerente ring composition, all’humus, al bruco, al suolo da cui tutto ha
origine). “Molti possono imbracciare una vanga e affondarla nella terra” –
osserva Baiotto – “ma solo alcuni potranno rendersi conto di come quel gesto
possa donarle respiro” ma possa
anche “ferire la terra”. Donare respiro e ferire
la terra. Questi effetti contrapposti di un gesto in apparenza banale
racchiudono in sé i punti cardinali del percorso di questo libro. Queste due
azioni-reazioni potrebbero forse svolgere anche il ruolo di sottotitolo
della raccolta, per la capacità di sintetizzare la complessità etico-filosofica
che si cela dietro l’osservazione e la riflessione delle attività umane, della
quotidianità e della volontà di cogliere dietro le azioni di routine un
significato più ampio, una prospettiva meno transeunte, più libera dalle
miserie, spesso ammantate di costose vacuità, del contingente, dell’immediato
reso merce, junk food, cibo spazzatura da consumare in fretta in un ciclo
frettolosamente inesorabile.
Al riciclo impoetico dei
giorni, dei gesti e delle parole, si sfugge, ci indica Baiotto senza prediche e
senza voler propinare panacee immediate ed elisir miracolosi, nel momento in
cui, con un attento lavoro su noi stessi ci si rende conto che si può, con un
gesto, “ferire la terra”. Ci si salva, nel frangente in cui ci si accorge che
tutto è “feribile”. Perché tutto respira, ha una pelle, degli organi, tutto è
organismo, un insieme, regolato da totalità e trasformazione. Tutto è feribile
perché tutto è vivo. Ed ha la stessa sostanza di cui anche noi siamo fatti. Noi,
le formiche, le farfalle che ci sono e che verranno, e il bruco che, proprio
come noi, ha il corpo e la mente tra il terreno e il cielo, tra carne e
pensiero, realtà e sogno, fatto anch’esso di materia pulsante, e quindi
feribile, anch’esso.
Queste sono alcune delle
impressioni che i versi di questo libro evocano. Si tratta di riflessioni
innestate nella realtà concreta di visioni e descrizioni, racconti e ricordi.
Leggendo il libro il lettore verrà a contatto, in modo graduale e molto più
ampio di quanto non sia possibile accennare in queste note sintetiche, con il
significato dell’Iperrelazionismo Sensibile, “un costrutto filosofico
[ideato dallo stesso Baiotto] e fondante di tutta una vita spesa nella ricerca
di un disegno, un progetto, un senso coerente con la fenomenologia
dell’universo, che renda moralmente giustizia a tutti gli esseri viventi che vi
si trovano […] evidenziando l’enormità delle visioni parziali entro cui l’essere
umano costringe […] il suo sguardo per giustificare ogni sorta di efferatezza”.
Questo libro ci impone
coraggio. Ci chiede di mutare pelle e prospettiva ai nostri pensieri. Vuole che
diventiamo bruchi in grado di guardare qualcosa che non sia più soltanto il
nostro stesso corpo e il baricentro che spostiamo di giorno in giorno, di anno
in anno, ma che rimane, alla fine, sempre lo stesso. Chiede una rivoluzione,
questo libro: dal punto di vista ottico, dinamico, ma anche e soprattutto
mentale.
La domanda che ci rivolge, la
richiesta, è quella di provare a guardare con occhi nuovi noi stessi e ciò che
abbiamo attorno e accanto. Comprendere che se tutto può sanguinare, ogni taglio,
ogni lacerazione si riflette anche su di noi. E nessuna giustificazione, nessuna
scusante, nessuna fiaba scritta da noi stessi che ci pone al centro
dell’Universo potrà fungere da sutura. La cicatrizzazione è a ben vedere un
processo di necrosi. Giustificare la violenza su altri esseri viventi e sul
pianeta che respiriamo e che respira in noi e con noi è una morte progressiva.
Un suicidio per gradi che si prolunga da molti secoli. È molto impegnativo il
salto che ci impone questo libro. Ci troviamo ad un certo punto di fronte alle
rapide e il solo modo di andare avanti è lasciarsi alle spalle il concetto di
superiorità su cui abbiamo costruito la nostra esistenza, le nostre convinzioni,
il nostro modo di rapportarci con il mondo e gli uni con gli altri. Per superare
le rapide è necessario chiudere gli occhi e ripartire. Diventando l’acqua che ci
accoglierà e il suolo, gli animali che ci troveremo a fianco, nel volo e nel
ritorno al contatto con il fango e con la polvere. Con il suolo da cui è
necessario ripartire. Con una nuova e più consapevole sete di cielo.
Adeguata e congrua alla
filosofia alla base della raccolta è anche la costruzione delle sezioni di cui è
composta e anche la strutturazione complessiva. Il libro contiene varie parti
unite a livello diacronico, in una progressione temporale che non genera
solamente il senso del progredire cronologico ma dà vita in modo spontaneo ad
una serie di rimandi interni, ritorni tematici, sottolineature di concetti e
variazioni sul tema che, come nella musica, generano un’atmosfera dominante, un
“sapore” che muta e tuttavia ribadisce frasi e accordi fondamentali, gli accordi
che ciascun lettore è chiamato a sentire, per analogia e per contrasto, evocando
in sé sin-fonie e sin-tonie.
Una delle caratteristiche di
maggior rilievo della poetica di Marco Baiotto (derivante forse anche dal suo
background culturale, dai suoi studi) è la convivenza, mai artificiosa o
forzata, tra scienza e visione, realtà e surrealtà, a tratti fiabesca, ma, con
un “eterno ritorno”, potremmo dire ad una capacità analitica, ad un’impostazione
razionale. Mai sterile, mai aliena ad una dimensione onirica che tuttavia è
fatta anch’essa di volontà di concretezza, quasi materica. Gli ossimori si
riconcorrono, e come sempre accade generano corti circuiti che illuminano la
parte in ombra, i misteri più essenziali. La corsa degli ossimori non ci riporta
al punto di partenza. Ci conduce piuttosto in luoghi dove non pensavamo di
andare, in un altrove che, come detto sopra, è spaesante, e proprio per questo
impegnativo, alieno a facili compromessi e a certezze a buon prezzo basate su
antiche credenze e facili abitudini.
Lo stesso autore è conscio di
questo salto, di questo volo. Sa anche quali componenti utilizza, come un
alchimista, per provare a mutare la natura del più duttile e del più ostinato
dei metalli: la mente umana. Nella parte conclusiva della sinossi Baiotto annota
che le “fiabe dai rimandi esoterici” e i mille altri spunti che adopera nelle
sue pagine sono “fari di segnalazione che delimitano la pista d’atterraggio per
i voli pindarici. Con l’unica e fondamentale differenza che Pindaro non fu così
avveduto nello studio e nell’analisi dei particolari”. Metodo scientifico
quindi, con alcune delle metodiche fondamentali, studio e analisi, trasposte nel
mondo dei versi, delle metafore, della creazione e rielaborazione della realtà.
La sinossi si conclude con “E
l’insolito di bellezza s’ammanta, trovando sostegno, in umbratili evasioni”.
Anche questi versi sono preziosi serbatoi di bussole con cui orientarci.
“L’insolito” era una delle parole care a Giambattista Marino e ai poeti che
inseguivano la meraviglia. Qui, in questa raccolta, siamo distanti dal barocco,
non solo cronologicamente. Qui, semmai, lo stupore è quello a cui si è fatto
cenno: scoprirsi a guardare le cose con occhi nuovi. E “il sostegno” è quello
con cui la ragione, la logica, la filosofia, vengono in soccorso della fantasia.
Le zone d’ombra possiedono un
fascino assoluto. Può diventare ancora più grande nell’attimo in cui la ragione
e l’immaginazione si accendono e ci mostrano ciò che veramente siamo, o, almeno,
per un istante, ciò che potremmo essere.
Il tono delle poesie, spesso
è classico, “arcaicizzante”, ma non per scimmiottare modelli o per abbellirsi
con le piume altrui. Piuttosto per la capacità insita nella parola di sapore
antico di accogliere in sé le diverse gradazioni di pensiero, ogni tono, ogni
sfumatura. Ciascuna sezione, o meglio ciascuna delle singole raccolte scritte
negli anni e confluite in questo libro, ha un titolo specifico e l’indicazione
degli anni in cui è stato scritto. Il Cercatore filosofo è la prima e
questo titolo quasi iterativo sembra ribadire il concetto della ricerca come
base di partenza, nonché di arrivo. Il filosofo è un cercatore di verità. Il
cercatore annota il suo percorso, ciò che ha visto con i suoi occhi ma anche ciò
che sente di potere e volere condividere con gli altri. Ciò che ha visto,
perfino la sua
rêverie,
la verità che vuole
offrire al mondo, il senso della sua ricerca e del suo cammino. Non è un caso
forse che nella poesia si pongano fianco a fianco “gocce di luce / e polvere di
sangue”. Il linguaggio è una costante che si innesta anche nel corpo di questa
lirica (“Anestesia”): “emicicli senza complemento, / ebbri del brivido
dell’impavido poetare”. Le cadenze classiche si rivestono di forza autonoma, in
grado di dare legge a se stessa, trovando una propria misura e dis-misura
creativa. La conclusione della lirica è densa di senso: mette in conto la
solitudine come prezzo da pagare per la scelta di raccontare la propria verità.
Ci conferma che ne vale la pena, anche “fossi l’unico al risveglio”. E il
risveglio è una parola quanto mai evocativa. Saldamente legata a quanto si è
detto sopra, a nuove probanti consapevolezze.
Nella lirica “Il pescatore
ferito” il salto a cui si è fatto cenno trova espressione diretta: “spiccai un
portentoso balzo / e giunsi oltre / l’equilibrio ferito”. Vengono in mente una
fiaba kafkiana e al contempo le metamorfosi epico-mitologiche di Ovidio. Il mito
è spesso utilizzato nel libro di Baiotto come punto di appoggio: “dalle sorgenti
sibilline fui ghermito: / volteggiavo diradando ali prestate dal vento”. Quasi un
trampolino sospeso nell’aria, o un ponte che collega il passato al presente, e
all’ipotesi, anelata, di un futuro nuovo, diverso. Convivono così, ad esempio,
nella poesia “Figli delle giostre di San Martino”, le unghie impaurite che
“scavano esoscheletri d’acciaio” e i laser “come bisturi tra sonagli / affettano
la notte in una danza sabbatica”. Immagini forti, evocative, in cui ogni
elemento, reale od onirico, è utilizzato per dare corpo all’urgenza
dell’emozione.
Pur “nelle salomoniche
intenzioni / l’offesa fu per prima alla Verità”, così prosegue l’autore nella
lirica “Eden in punte di spilli”. Ed è questa la vexata quaestio, la
Verità, quella con l’iniziale maiuscola, non quella a buon mercato. La sfida è
immensa, il muro altissimo. E non è un caso forse che proprio qui, in questa
tenzone filosofica aspra, l’autore faccia ricorso al più antico, folle ed
essenziale alleato: “Oh Amore, / dolce struggimento d’anime in pena, / sfolgora
imperioso!”. E la conclusione è un distico la cui bellezza estetica non è fine a
se stessa ma è la conclusione di un processo di “decantazione” lungo e accurato.
La Verità si scopre, e ci si rivela, nell’attimo in cui incontra la Bellezza:
“lievi sulle reti intessute a nostro danno, / sveleremo Eden / in punte di
spilli”.
L’amore sfocia, qualche
pagina oltre, in una sensualità accennata, mai volgare o eccessiva, eppure
vivissima, intensa: “so che tornerai, / non mente il golfino, / i marosi non
possono che placarsi, / stemperandosi sulle amanti rive”. L’espressione qui, a
tratti, è quasi catulliana; l’eleganza e la passione non si stemperano, semmai
si esaltano, si accendono a vicenda.
La raccolta Il Narratore cieco contiene poesie scritte tra il 2000 e il
2005. Viene in mente Omero, come prima istanza, il buio reso racconto e magia.
Ma l’omaggio è a Raymond Carver. La somma non è il semplice accostamento delle
parti, è un insieme più ampio, più sfumato. Il titolo della lirica d’esordio è
adeguatamente spiazzante, “Cattedrale”. Il senso si coglie anche in questo caso
passo dopo passo, addentrandoci all’interno, “in una camera per matti felici”,
mirabile verso e sintesi di un mondo e di una condizione di assoluto
coinvolgimento. Ma proprio qui, o meglio anche qui, Baiotto gioca a sovrapporre,
a stemperare, a controbilanciare. Subentra una densa ironia: “La vita è proprio
bella”, esclama, e poco dopo incalza: “Chissà perché però non riesco a
dimenticare / lo scoppio di quel lago di lampade alogene”. La conclusione è
perentoria: “Non mi resta neanche impresso / il volto del mio carnefice, / che già
scorrono / i titoli di coda”. L’uso delle maiuscole è un escamotage per variare
di scala, o per modificare lo zoom, per dirla in termini cinematografici. Nella
lirica presa in esame (“Ciak, si gira! La vita!”), ad esempio, campeggiano come
immensi chiodi acuminati le maiuscole della “Scena della Curva Distratta”. Forse
una curva reale di una strada qualsiasi. O forse la vita. Tour court.
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