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L'eredità di CalvinoLa congruenza di Italo Calvino con il postmoderno, che soprattutto gli studiosi americani tendono ad accreditare, è questione aperta e complessa, da considerare con le dovute cautele. È ovvio che Calvino non nasce postmoderno, ha un percorso molto più ricco, inizia un bel po’ prima dentro la temperie neorealista, impara dal razionalismo strutturalista, valuta spassionatamente lo sperimentalismo delle neoavanguardie, prova il fantastico e l’allegoria, tanto per citare solo i principali passaggi. Indubbiamente, certi aspetti, come l’ironia e la parodia già sviluppate nei Nostri antenati coincidono con alcune direzioni che prenderà la letteratura mondiale più o meno attorno agli anni Settanta del Novecento (ma come si sa del postmoderno pure la cronologia è oggetto di discussione). Tuttavia Calvino non pare mai assorbito del tutto nella nuova logica che prevede il rientro nel mercato e la scioltezza piacevole della scrittura: tant’è che quando, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, mette al centro proprio il lettore, lo fa giocando a mettere in crisi l’obiettivo primario dell’approccio più comune (il “come va a finire”), imponendogli una serie di delusioni e di smacchi, insomma un disturbo che sarebbe prodotto specifico della linea narrativa moderna.
Nella prima parte dello studio, a proposito di Se una notte d’inverno un viaggiatore, Antonella Calzolari mette subito in evidenza il meccanismo inventato da Calvino, cioè la serie dei contrattempi che impediscono la prosecuzione della lettura del romanzo e quindi la ripresa continua di incipit nuovi e fuorvianti. Il meccanismo, dunque, si basa sul procedimento dell’interruzione, che viene giustamente interpretato come uno strumento straniante, una tecnica della sorpresa che ha come obiettivo di tener desta l’attenzione e rendere disponibile chi legge a fare a meno dell’abitudine e del prevedibile: «uno degli effetti principali di un meccanismo di interruzione, o meglio di sospensione, è quello di provocare nel soggetto che lo subisce un istantaneo spostamento di attenzione, la quale viene in questo modo riattivata» (p. 21). Tra l’altro il lettore reale viene incluso fin dall’inizio nel testo attraverso l’uso del “tu”, per essere spinto poi a immedesimarsi nel Lettore personaggio e nella sua ricerca delle continuazioni in compagnia della Lettrice. Dunque i livelli di coinvolgimento sono multipli, come del resto disparati sono gli stili degli inizi di romanzo inseriti nella cornice. Sembra proprio che qui Calvino ottemperi alla sua passione per le “possibilità”: «Calvino ‒ scrive Antonella Calzolari ‒ è attratto dal fascino di sperimentare anche quelle eventualità che vengono scartate e quindi solitamente non si vivono». Proprio per questo, il meccanismo della lettura deviata e di continuo rinviata sembra consentire il massimo di inclusione di “romanzi possibili”. Resta da vedere se questi monconi non siano in realtà dei perfetti racconti dal finale aperto, ma probabilmente a Calvino non interessa dirimere la questione:
Ma per rimanere in tale mondo Calvino deve in un certo qual modo raggirare il lettore e continuare per tutta la durata del testo a far crescere in lui le più diverse curiosità nei confronti del romanzo, in maniera che in fin dei conti sia il lettore il mittente delle molteplici domande cui il testo pone risposta. (pp. 26-27) Esercitandosi su atmosfere letterarie di volta in volta diverse, Calvino si dimostra un abilissimo autore di «piccoli saggi attraverso i quali scorrere velocemente il panorama delle tipologie letterarie» (p. 35). Più che con parodie ‒ perché non vi è di sicuro un intento polemico nei confronti dei modelli imitati ‒ ci troviamo ad avere a che fare con il regime della riscrittura “neutra” o del pastiche (la “parodia bianca” di Jameson) di marca prettamente postmoderna: senonché, se non vi è intento polemico, vi è però un preciso intento ironico, nella misura in cui il troncamento dell’immedesimazione ad ogni passo vorrebbe implicitamente alludere al fatto che non è la conclusione ciò che deve interessa,re anche perché la conclusione non è altro che una convenzione, ma ogni storia non finisce mai. Il punto dove Calvino rimane essenzialmente moderno è la trascendenza metaletteraria, l’autore che spunta dietro la scena rappresentata, anche se il procedimento è svolto non ‒ come in Jacques il fatalista di Diderot ‒ mostrando il racconto che si va facendo, bensì mostrando la lettura che si va facendo. Antonella Calzolari sottolinea in più punti la metaletterarietà calviniana, giunta qui a uno dei massimi sviluppi: il testo nel testo («è la rappresentazione del LIBRO che mette in scena se stesso, si interroga, svela i suoi meccanismi eppure rimane all’interno del mondo romanzesco», p. 7), che contiene le sue istruzioni per l’uso (i passi dove si trovano «riferimenti alla formula compositiva del testo», p. 19) con il procedimento della mise en abyme; in particolare viene segnalato il capitolo del diario dello scrittore, che ha Flannery come alter ego tormentato dell’autore: In Flannery ci si rivela non tanto Calvino in quanto scrittore di romanzi ma Calvino in quanto scrittore di questo determinato romanzo, rispetto al quale egli non rimane autore esterno ma partecipa ad esso come rappresentante delle idee che il testo esprime. Per questo motivo egli è quasi costretto a confrontarsi con il personaggio femminile emblema del “libro vero”, nel senso di un approccio artistico alieno da condizionamenti di sovrastrutture. (pp. 62-63) Ma è un po’ dappertutto, anche negli inizi di romanzo, che, con meticolosa precisione, Antonella Calzolari individua le tracce della autoriflessione calviniana. Questa costellazione di riferimenti alla consapevolezza è decisamente più moderna che non postmoderna, in quanto il postmoderno contempla sì la astuzia di chi scrive, la quale però deve essere abilmente nascosta a chi legge: in questo caso, invece, il lettore si trova sotto gli occhi segnalato ed evidenziato ad ogni passo il ruolo che Eco avrebbe chiamato di Lector in fabula. Quando si passa all’altro testo e conclusivo, cioè Palomar, la consapevolezza viene trasferita nel tentativo del personaggio di comprendere e analizzare la propria esperienza vitale. Questo lavorìo non è condotto in prima persona, ma alla terza e proiettato in un personaggio cui l’autore presta alcune caratteristiche, ma con il quale non si identifica interamente. Il personaggio assume il nome di un osservatorio astronomico e, soggiunge Antonella Calzolari, «sembra proprio che il protagonista viva arroccato su questa base di osservazione della quale sperimenti tutte le capacità investigative di precisione, compiendo però un cammino inverso al solito, indagando sul mondo e sull’uomo invece che sugli astri e sul cielo» (p. 74). Palomar pratica l’esattezza, ma soprattutto pratica il dubbio e costruisce se stesso in “forma interrogativa”. In particolare il saggio indica la particolarità della scrittura al presente, in presa diretta, e presta la dovuta attenzione a quello che viene definito il “tempo di Palomar”: In un sistema regolato in questo modo il tempo perde il senso originario del trascorrere e viene a consistere o meglio a coesistere nelle e con le forme e gli avvenimenti dello spirito. D’altra parte la stessa tendenza di Palomar a rapportare gli accadimenti della Terra all’infinità degli spazi celesti introduce un concetto di relatività che distoglie da una considerazione consueta del tempo. La concatenazione passato ‒ presente ‒ futuro perde consistenza, viene meno la coscienza del momento che divide il presente da ciò che è stato e da ciò che sarà e il tempo si estende come un continuum. (p. 101) Interessanti notazioni riguardano anche il finale, dove Calvino ci comunica la decisione di Palomar di «descrivere ogni istante della sua vita» e però aggiunge subito dopo che «In quel momento muore». Dove si determina una situazione curiosa: a pensarci bene, il libro è proprio la descrizione che intende intraprendere Palomar, ma come avrebbe fatto a scriverlo se il testo ci dice che è morto subito dopo averne ideato il progetto? In realtà il finale, al contrario di quanto è scritto alla lettera, sembra riferirsi a qualcosa che dovrebbe ancora cominciare. «L’espressione dell’intento narrativo di Palomar ‒ spiega Antonella Calzolari ‒ potrebbe benissimo collocarsi all’inizio del libro»; perciò, paradossalmente, «Palomar sembra suggerirci, come estremo messaggio, che il libro non finisce» (p. 107). Si possono riportare questa e altre contraddizioni dialettiche alla dicotomia calviniana tra progetto conoscitivo e disordine del mondo; insomma una dialettica di materia e ragione che, per altro, mi sembra molto più moderna che postmoderna. Quello di Calvino appare, alla fine dei conti, un attraversamento critico della “condizione postmoderna”. L’eredità di Calvino, enunciata nel titolo di Antonella Calzolari, si potrebbe proprio identificare in questa resistenza della critica e della dialettica. Calvino è autore di una narrazione intelligente, oggi piuttosto in disuso. Ed è interessante che Antonella Calzolari sottolinei, riguardo a Se una notte d’inverno un viaggiatore, l’assenza di trama nei frammenti di romanzo (mettendo in luce come «i racconti senza trama di Calvino giustifichino la loro incompletezza con la tenacia dell’autore di resistere alla definizione dell’arte narrativa», p. 32). Ora, è al contrario oggi proprio la trama ad essere assurta a ruolo principale nel romanzo di consumo: Calvino invece, al posto della trama, predilige la struttura e il montaggio di frammenti, e non solo nella sua ultima fase, ma già nelle Città invisibili o nel Castello dei destini incrociati. In questa nostra attuale temperie che, al di là ormai dello stesso postmodernismo, esalta l’immedesimazione nelle storie, l’eredità di Calvino ‒ che questa monografia ci insegna a riconoscere ‒ resta in attesa di scrittori non omologati. |
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