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Conobbi Rossano Onano a Modena, in un centro culturale di periferia, verso la fine degli anni ‘980; qualche mese dopo conobbi Veniero Scarselli, nello stesso luogo, dove egli era venuto per perfezionare la presentazione del suo Pavana. Scarselli mi parve serafico e perennemente rapito in un’aura di dolcezza, Onano mi apparve oscuro, come sprofondato in tramature ed orditure innominabili. Questo a riprova di come le prime impressioni siano spesso errate. Da allora fra loro è andato stabilendosi un rapporto difficilmente qualificabile, forse ambiguo ma duraturo, di durabile qualificativa ambiguale, come direbbe Onano.

Ricevo questo libro quando da tempo mi occupo di critica più raramente, per via di altri impegni per stanchezza ma forse soprattutto per gli scarsi riscontri che produce, ma vedere insieme i due personaggi, chiamiamoli così visto che non si tratta di un libro di poesia, sulle stesse pagine mi offre un’occasione che non posso perdere.

Io credo che sia qualcosa di sostanzialmente negato, o quanto meno dissimulato, ciò che lega solidamente ed in modo duraturo i due poeti: l’ironia.

Onano la usa come l’abete sul quale costruire l’Albero di Natale, addobbandolo qua e là apparentemente a caso con tante palline colorate, festoni luccicanti e neve artificiale, siano essi psicologici esistenziali o psichiatrici poco importa, così che alla fine l’abete non si vede più. Scarselli la usa come un pentagramma per dare una forma consequenziale ai suoi deliri di onnipotenza, si tratti del biologo del filosofo del sofista o del sacerdote è indifferente, e ne affastella così tanti che alla fine il costrutto pare reggersi da sé. In entrambi i casi essi agiscono in modo tale da lasciar credere che non vi sia ironia nel costrutto.

In questo libro il rigore intellettuale è la prassi; gli autori si affrontano e si scontrano senza esclusione di colpi, al limite di quelli più bassi, ma reciprocamente attenti a non ledere l‘armatura tanto da lasciar trasparire ciò che fa loro paura che si scopra: la dimostrazione che in realtà essi non sono ciò che dicono di essere. Aveva ragione Maometto (che Allah lo abbia in gloria) che disse: non fidatevi dei poeti, essi scrivono ciò che non fanno e fanno ciò che non scrivono. Anche Onano un giorno disse: se la poesia dovesse dire solo quello che abbiamo nella testa a cosa servirebbe?. E come potrebbe essere altrimenti, non cerca forse la poesia di dire ciò che non può essere detto? Il sentimento?

In realtà Onano, che sa chiudere tutto in due righe: “non è importante che il figlio trovi il padre, è importante che lo cerchi.” poi scrive un pomo come Cane Pazzo. Scarselli si scaglia contro “l’aspetto criptico della poesia di Onano”, e poi scrive un libro intitolato Priamosodomomachia.

Date retta a me, lettori, non badate a quello che dicono e se vi fanno sognare leggeteli, altrimenti lasciateli perdere. A loro non importa un gran che, credetemi, sono troppo vecchi per aspirare ancora alla fama e col tempo hanno mutuato una tale coscienza di sé che se per un uomo è molto per un poeta è tutto.

Entrambi gli autori fanno vivere la loro poesia di richiami e rimandi che molto spesso conducono altrove rispetto alla direzione dichiarata. I tiramenti di Elmichi, le false ritrosie delle Figlie ancor chiuse, le divagazioni sessuoalimentari, di volta in volta aprono scenari laterali che attraggono il lettore più attento, mentre gli altri proseguono spediti lungo la direzione data. Onano guarda ossessivamente il punto focale della questione ma nessuno sa che egli dispone di occhi da mosca, capaci di guardare a trecentosessanta gradi, quindi è in grado di vedere contemporaneamente ogni cosa che viene messa in moto dal procedere della scrittura. Il punto focale, che lascia credere di osservare, in realtà egli non lo vede nella sua esatta consistenza, nella riduttività del suo essere solo ciò che è. Lo vede sfocato e deformato, ne ha solo percezione come di oggetto stante. Di ogni cosa egli osserva più attentamente l’ambiente che la ospita e quelle caratteristiche introduce nella costruzione del presunto punto focale. L’attento lettore vede sì l’oggetto ma non vi si sofferma, è come condotto altrove, non è necessario che se ne renda pienamente conto, ne ha comunque percezione, lo intuisce. Scarselli, al contrario, avrebbe occhi da predatore che focalizzano il particolare, ma procede bendato, ha paura che la visione dell’oggetto susciti in lui digressioni sentimentali, proiezioni mnemoniche, allucinazioni fantastiche. Egli vuole scoprire l’oggetto al semplice tatto, lo vuole conoscere nella sua fredda essenza, io credo che si ottunda perfin l’udito per non essere influenzato da eventuali suoni o rumori. Alla scrittura egli offre la purezza delle forme scevre da qualsivoglia implicazione suggestiva e fantastica: egli propone il fantasma della realtà. Egli svolge una concatenazione di vocaboli citazioni ammonimenti sentenze compatte come la colata di lava lungo le pendici del vulcano, ma contemporaneamente lascia affiorare qua e là alcuni brevi periodi che invitano il lettore più attento a seguirlo ad un livello quasi sotterraneo dove ingaggia con lui una specie di scambio veloce di informazioni per giungere insieme alla conclusione che l’imbecillità umana, per come è sapientemente ed uniformemente spalmata, non può che essere un dono di Dio.

Forse è vero che nella poesia di Onano entrano le fredde conclusioni di colloqui professionali, ma egli le dissimula ricomponendole in modo che procedano come un racconto. Così come è probabile che dietro la virulenta accusa di rinchiudersi nella ristretta cerchia dell’ermetismo, rivolta al grande poeta, vi sia la riprovazione di Scarselli nei confronti dello stesso per come sfrutta(va) la sua posizione per circondarsi di donne giovani e belle. Entrambi attraggono l’attenzione su di una mano e con l’altra operano il trucco: sono prestidigitatori.

Il processo che seguono è identico pur se speculare, nella loro incompatibilità hanno un punto in comune: uno dice “lupa” e l’altro dice “vagina”, entrambi non sanno giungere a quel temine universitario dal sapore greco, eppur tanto diffuso, che è: phiga. Uno dice mazzuolo l’altro dice pene ma non sanno arrivare ad un termine certo più volgare ma molto più diffuso. E’ così che barricandosi ognuno sulla diva opposta restano legati allo stesso fiume.

Ricordo ancora i sentimenti esplorativi e le pulsioni amicali risvegliatemi dalla lettura di Viaggio a terranova, come ricordo i propositi rancorosi e biliosi insortimi alla lettura del Grande tritacarne. Eppure sono quasi certo che entrambi i poeti giurerebbero che questi sentimenti nulla hanno a che vedere coi rispettivi scritti. Ma in fondo è proprio questo loro essere come io li vedo che alimenta il nostro trentennale rapporto, e poi entrambi hanno mogli gentili e belle, molto più belle di loro, e questo me li rende anche simpatici.
Recensione
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