| |
Strano il destino della lingua italiana,
nel suo evolversi durante la seconda metà del ‘900 non è riuscita a secernere un
canone che si sia imposto per autorevolezza, sopratutto in poesia, ed allo
stesso tempo è sembrata mal sopportare sia i ritorni al passato sia le fughe in
avanti. Questo a me pare porti ad una non accettazione del senso drammatico né
di quello tragico tanto nei tentativi di versificazione in metro e rima che in
quelli derivanti dalle scompaginazioni del futurismo, ed un loro conseguente
confino nell’area dell’ironia, e spesso non della migliore. Potrebbe sorgere il
sospetto che siano stati i tempi, con lo svilupparsi delle vicende loro legate,
a non permettere, o non ammettere altro linguaggio se non quello dell’ironia (o
addirittura solo della comicità, ma non voglio avvalorare quest’ipotesi),
proiettando sugli altri linguaggi l'ombra scura di una retorica, percepita nel
senso deteriore che a questo termine ha saputo imporre il fascismo.
Quello che spicca in questa raccolta, a
mio parere, è proprio l’ironia come scelta di fondo, e quindi non destinata a
caratterizzare l'oggetto dal punto di vista esteriore. Un’ironia all’apparenza
giocosa, leggiera, ma in realtà pesante e profonda. Leggerezza, estrema
leggerezza, viene usata nel codice attraverso il quale viene rappresentato il
testo ma se, individuato tale codice, esso viene messo in pratica nella lettura
ci si avvede della corpulenza del risultato. La tossicità, che risulterebbe
palese alla vista quanto all’olfatto, viene mascherata con una gelatina di
fragola che ne permette l’esposizione in pubblico senza correre troppi rischi.
In Lolita (p. 19), fra le piccole confidenze, la puntigliosa idiozia, le
false evidenze, e le ridicole sentenze, già di per sé ironizzanti (e si noti
come idiozia, nel susseguirsi battente delle rime in ‘enze, crei aspettativa nei
confronti del termine ironia, anche grazie allo sviluppo del testo a boomerang),
s’inseriscono, o meglio s’attorcigliano a cantilene antiche (un’oca un’uchina
un’uchèta: scomparsa la baia del Re) a completare l’opera avvilendone il
tema. Così in quel suo riprendere da capo, lentamente, quello che avrebbe dovuto
essere il dramma del povero scrittore ci appare come la tragicommedia di un uomo
dabbene.Tra le dannazioni ventrali e le laude suburbane, la volontà sfibrata e
le scintille ventricolari, si insinua la battuta pseudodialettale. La ripresa
finale ha quindi un sapore ben diverso da quello che ci aveva indotto all’inizio
la reminescenza del romanzo o del film. Questo gioco mi pare ancor più evidente
in [dark lady]. Fra i: t’amula – mula – accula, t’ammalia – s’addomasica –
t’ammanta – s’abbozzola (si noti il salvifico “sinestesia rotonda delle
fluttuazioni” nonché il salvatico “alito gonfio di quella rosa negra”; p. 22), la
parte fra parentesi quadre, che costituisce lo schizzo, il ritratto della lady,
vola assottigliandosi fino alla spoglia, per quanto poco mesta, divisa
d’ordinanza delle pornostar: scarpe e tanga, fino al solo tanga nell’ombra che
rimane e chiude.
In molti frammenti mi pare di sentire la mancanza della musica, o forse è
solo la difficoltà (la mia) di individuare un metro e quindi un ritmo, poiché
questo accade anche col frammento per voce sola (p. 31). Non accade invece con
Schioccando le dita (p. 79) che mi pare un buon viatico dalla voce pronunciata
al ritmo scandito.
| |
 |
Recensione |
|