| |
Tradisce il bisogno di una
alternativa quel “Comunque” che apre il messaggio iniziale di Mariella De
Santis. Ed è quanto mai comprensibile dato il tema che sottintende questa
raccolta di Rossano Onano. Si nota subito uno scarto
rispetto alle pubblicazioni precedenti, una differenza di ritmo e di tono, i
quali maggiormente si confanno ad una stesura che non è documentaristica né
epica, ma si potrebbe definire celebrativa, ritualmente mnemonica; dove la memorizzazione non riguarda solo il passato ma esprime la
necessità, più che il desiderio, di memorizzare anche il presente archiviandolo
come postumo.
Il tempo presente dei verbi
si insinua come presente storico. Di fronte a “...questa turchese / altezza che
non ci compete...” “tu losca che ancora infida proponi” una storia che pare
riproporsi. Cosa poteva aspettarsi il bambino deridendo la scrittura
evidentemente testamentaria del vecchio? Cosa poteva scegliere tra il caro
prezzo della vita eterna offerta dalla vampiressa e l’infinita liberazione
imposta dalla maga? Si tratta di una scrittura diversa dalle precedenti,
scandita ma non asciutta, che descrive atti estremi senza l’elencazione
dell’Inventario di Dakar; offre consigli ambigui senza l’ironia di Rosmunda
Elmichi; evoca soluzioni finali senza gli aspetti da cronaca di viaggio presenti
in Terranova. Una presa d’atto senza sentimenti di ribellione né di
sottomissione e tuttavia passionale. Forse per questo ci pare meno schifoso il
Malaparte che ci paventa: i nostri padri che offrono le sorelle, le mogli, i
figli ai conquistadores democratici, i quali, nel renderci orfani dell’inutile
follia eroica della X° MAS, ci rendono vedovi dell’aspetto filosofico della
democrazia e figli di quello finanziario; offrono loro stessi, i nostri padri,
ma non per una tavoletta di cioccolato bensì per un pacchetto di sigarette di
quelle buone, di questo sopratutto sente la mancanza il popolo di santi e di
fumatori dopo le privazioni imposte dalla tirannia dalla guerra dall’emergenza.
Anche questo si ripete nelle saghe televisive?, “...desunto l’uso calligrafico /
ma statico e quasi aulico della fotografia.”?.
“Homo non dice”, questa
breve poesia, che dà nome alla raccolta, costituisce un viatico fuorviante per
il lettore, cosi che non gli pesi troppo sul collo il giogo di quel tema
sottinteso di cui si è detto; ma forse ancor più tende ad alleggerirne l’autore,
che invece dice e sa perfettamente di dire. Più volte il verso giunge a
prospettare quell’indicibile che ogni lettore può, se vuole, assumersi la
responsabilità di recepire: ciò che è stato cercato e non trovato, ciò che ci ha
atteso, ci attende e pure ci manca ancora “ora che le donne collocano fiori”.
Penso che tutti saranno tentati di stemperare nella propria esperienza ciò che
giunge loro dalla parte centrale della raccolta e molti ne avranno la
possibilità; tranne chi, cattivo consorte e mancato padre, ha posto altrove le
sue illusioni di continuità. Perché questo è l’escamotage per aggirare il tema
non dichiarato.
Di fronte a questo tema
incombente, più che latente, poco ci soccorrono le immagini di Andrea Capucci,
nonostante adombri Inferni e Paradisi, Eden e Discariche e sopratutto il Tartaro
delle immani fatiche; e come avrebbe potuto essere altrimenti; egli sgambetta
ancora ai margini della pista e forse appena l’ha notata nella calca, al centro;
ma per noi che, pur se ancora staccati, già danziamo con lei, che studiamo il
passo per poter arrivare giusti all’abbraccio in cui si concluderà questa danza
impegnativa e snervante, per noi certamente, forse per lei; per noi è tutta
un’altra cosa.
Proseguendo nella lettura la
visione si fa più generalizzata, immagine che conosciamo, così breve che sembra
impossibile intervenire su di essa e appare passata già mentre la osserviamo:
distributori meccanici degli ipermercati distributrici fisiche dei raccordi
distributori manuali dei semafori; una realtà che non abbiamo saputo cambiare e
della quale non vedremo i possibili mutamenti. Ogni aspetto della vita si
confronta con una realtà che per certi versi pare la stessa; nel verso non c’è
epica né ironia tragedia commedia farsa... , c’e invece una musicalità nuova,
più dolce, meno sincopata; non il gusto né il dovere, c’è qualcos’altro, come il
bisogno di far giungere quello che sta sopra le cose attraverso ciò che sta
sopra le parole: “...assente come la voce della poesia...” “Tu mi racconti
favole inverosimili” “ è solo vera la voce del trovatore”.
Comunque non c’è solo il
grano in alternativa, c’è anche la verdura, in attesa che la scienza ci dica che
anche la pietra prova sensazioni; per ora essa è solo sede di memoria,
inconsapevole, pensiamo noi, delle forme che contiene. Ma tutto questo non
sposta i termini della questione, saremo anche noi seduti sul muro d’argine, come nel
momento più traumatico anche in quello più meditato.
Accanto ad un cubo
vetrato, macabra teca di una reliquia, questa raccolta si conclude con un’inno
ad una speranza vagamente cannibale: cos’altro avremmo da offrire per placare
una eventuale rivolta.
| |
 |
Recensione |
|