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“Si ferma sul piego della notte con cenni di sorrisi per il tempo, non
sa che cosa sia, ma lui sorride tra i rami piegati geometrie fatali una stella
dal cielo più lontana muove come nei sogni grandi passi a dire del sempre dentro
noi.”
Dovevo aspettarmelo, forse me lo aspettavo fin dalla copertina, con
l’inconfondibile mano dell’autore, dove un marasma di forme che potrebbe
ricordare un misto di natura tropicale pezzi di groviera uccelli esotici resche
di pesce farfalle in volo carré di maiale, fa pensare ad uno sguardo alzato da
una fitta foresta verso uno spazio libero ed irregolare dal quale si intravvede
il cielo.
La scarsità di segni d’interpunzione non facilita il lettore nel seguire
la trama però in compenso lo agevola nel divagare, mentre la sequenza di
vocaboli sta ancora cercando una definizione d’insieme, sull’onda di quanto
viene arpionato nei suoi ricordi e riportato a galla. La trama ne soffre, certo,
ma l’autore è il primo a non curarsi di questa sofferenza, come a dirci della
banalità di ogni storia che appare eccezionale al suo protagonista e della
freschezza, invece, di ognuna delle emozioni, sensazioni, sentimenti che hanno
dato vita a quella storia. Come a dirci che è solo questo ciò che vale la pena
di comunicare, più che qualsiasi storia da raccontare. L’ho detto altre volte:
da Cent’anni di solitudine in poi è saltata la netta linea di demarcazione che
separava la poesia dalla prosa.
Ciò che mi sembra di sentir muoversi in queste pagine è come un’utopia
timida fin dall’inizio ma che ora ha perfin ritegno di mostrarsi, alla luce di
questi chiari di luna che annichiliscono, è come un animaletto che sgattaiola
qua e là sotto la tovaglia stesa per il pic-nic e non si decide a uscire.
Penso che ognuno dei lettori, i più attenti, nel difficile tentativo di
precisare una storia si possa trovare impigliato in un diverso frangente del
testo con un particolare momento della sua esperienza, momento preciso, come
quella sera sul treno del rientro a casa, come quella volta dell’incidente alla
macchina davanti, come quella volta in collina quando era parso che sarebbe
stato per sempre, e questo indicizza la serie di parole che hanno creato il
collegamento, le fanno sentire più ordinate nella loro sequenza, fanno sentire
quella storia, che fino ad un momento prima appariva confusa, come un’esperienza
simile alla sua, e quindi più vicina a lui.
Forse ci vuole
ben altro che un sognatore per spiegare i sogni ma io arrivo fin qui; studiavo
poco a scuola, perso dietro ai sogni com'ero. In ogni caso, sul fronte aperto
fra sogno ed utopia, anche Franco Piri Focardi non scherza: “il sogno
d’essere per sempre un po’ più in là o il suono ripetuto vibrato sulla corda.”
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Recensione |
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