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“Grano e loglio in unica zolla”. La chiara predisposizione al verso (quello davvero) non serve a dissimulare le reminescenze cattedratiche, la capacità, il mestiere, di scindere l’endecasillabo sulla cesura dandogli spazio, facendolo respirare (si fa così anche coi vini migliori) non salva da certi accenti bucolici, la precisione con cui i temi vengono scelti e svolti, senza ricorrere a titoli eclatanti, e per questo riduttivi, né a motti o sentenze, sempre irrispettosi, non evitano piccole cadute d’ingenuità, comunque mai del tipo di quelle minacciate dalla quarta di copertina.

Belle alcune soluzioni nel loro incastro ma, come raramente, anche estrapolate: “se in presagio d’eclissi s’impiglia | in curva d’ascia alla controra”, a dimostrare quanto il racconto, in poesia, sia poco importante.

Dove invece la spontaneità (non spontaneismo) si veste di un’ingenuità solo apparente, aiutando così ad avvicinare, a rendere quotidiano (anche attraverso l’impostazione dialogica: “E’ vero, Mariapia, noi siamo schegge”) un tema che per sua natura tende all’infinito, oltre al mestiere ed alla maestria si deve registrare la passione, elemento indispensabile per la poesia. E il ritmo cambia negli ultimi due versi, quando il piede s’appoggia per terra.

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