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Non ha bisogno di grandi spazi questo autore, che non è di quelli che ti fanno correre il rischio di pensare ad altro tra un verso e l'altro o di perdere il filo fra le strofe, tuttavia non credo venga premiato dalle misure eccessivamente corte, nelle quali rischia, in questo momento in cui molti, troppi, subiscono il fascino dell'aforisma spesso sedicente, poiché il confine fra aforisma e frase d'effetto è molto sottile. Non ne viene premiato anche perché nella misura più distesa non perde incisività, si pone in modo per nulla sequenziale ed i punti che fissa sono lontani, almeno apparentemente, e non concorrono a formare un quadretto pedissequo.

Voglio prendere l'esempio estremo, nel senso della misura (p. 26), una delle poesie più lunghe. Il quesito posto nei primi quattro versi è inquietate, veloce nella sua concentrazione al primo verso chiuso dalla virgola, e circostanziato dai successivi tre senza esaurire l'aspettativa del lettore, quindi la citazione in inglese in due versi che spezza decisamente in senso anche visivo e costituisce una considerazione che si oppone con i punti esclamativi all'interrogativo dei quattro precedenti. Nella strofe successiva il ritmo rallenta nonostante la forza agghiacciante e la spaventosa ambiguità dell'enunciato, o forse proprio per questo, ma questo appare funzionale allo scossone cui il lettore è introdotto dal primo verso dell'ultima strofe: "Mi spezzo il polso sulla carta bianca,", secondo me il verso più geniale della raccolta fra i tanti molto belli, dopodiché attraverso la figura del "cadavere parlante" non vi è più spazio che paia sufficiente al finale, unico limite quello della fantasia del lettore. Una cosa simile avviene nella poesia XVIII (p. 34), quando la nominazione del soggetto è completamente lasciata al lettore.

Anche in quella che secondo me è la poesia d'amore più dolce e tenera, sì perché in amore anche la sofferenza può essere dolce e tenera, accade lo stesso quando l'autore rinuncia ai termini forti che lo contraddistinguono eppure non appare slavato né sdolcinato ma ... dolce e tenero. Vorrei tanto citarne i versi ma le imposizioni dell'editore sono tassative e non voglio rischiare di offrirmi volontario ad una eventuale punizione esemplare per tutti.

Nella Milano certamente cambiata riconosco quella che ricordo, la riconosco nel suo sospiro, a volte sul collo a volta sul cuore, questi versi me la riportano insieme alla nebbia dell'Idroscalo. Chi sa leggere la poesia in questi versi può trovare la fotografia di una città né bella né falsa, né brutta né cruda, una Milano vera che non è da bere né da mangiare ma semplicemente da vivere, sommessamente ed a bassa voce ma senza ciurlare nel manico, come si dovrebbe vivere la vita.

Nella parte finale, "Il perché che non trovammo", la lunga sequenza di brevi frammenti costituisce quasi una sola poesia che descrive un processo temporale, e mostra come gli orizzonti di Menotti Lerro (spero tanto che non sia uno pseudonimo) siano compresi in questa piccola e bella raccolta. In questa ultima parte l'autore si fa perdonare per tutti gli alberi che si sono dovuti abbattere per concedergli lo spazio bianco delle pagine precedenti.

Recensione
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