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Se vi è una certa propensione, nei poeti, a macerare il dolore nello
sciabordio delle acque lagunari, Danilo Mandolini sceglie di sfogliare la
caustica margherita delle amarezze nel vento irrequieto di Genova. Non è un caso
che lo spirito inquieto ed ambiguo di questa città aleggi sulla raccolta "Sul
viso umano" come il cielo autunnale di nubi compatte, indifferenti al vento a
terra, aleggia su quella città.
Questo libro è fatto di immagini che forse ambiscono a richiamare
considerazioni; certo da esso sono suscitate figure sufficientemente nitide ma
mai eclatanti, mostrate ma mai esibite; per questo non si trovano sulle
cartoline così come non entrano nel novero di quelle promosse dalla "civiltà
dell'immagine". Eppure Genova è lì, così come è lì l'autore, perennemente
insistentemente nascosto dietro la tenda la persiana, la rétina del personaggio
che egli evoca assente: getta lo sguardo, come il Balilla il sasso, e si rende
contumace. Per quanto inatteso, ciò che ci mostra sa sempre di stantio, di
annoiato deja vu, di cose già dette: "Rimarrà la porzione più discosta
| di un'incompiuta tranquillità | a guardia di vecchie finestre scrostate, | di
pezzi di vetro che a stento riflettono | e di parole già dette | che
sopravvivono ancora, | fredde." (p. 15); il compiuto pamphlet di
un'incompiuta tranquillità.
Tutto è incarcato nello spazio ristretto fra sensi e luce, fra corpo e
aria, spazio che l'autore ci mostra dilatato. E' la visuale ampia dei vecchi,
resi inossidabili da una patina di rassegnazione e dalla coscienza di non avere
più tempo sufficiente, ai giovani invece spetta la messa a fuoco precisa del
punto, la sensibilità che provoca la reazione; non è sufficiente vedere l'utopia
che vola verso il sole, serve volare con lei fino a bruciarsi le ali. "E'
stato | il perimetro non chiuso di un quadrato, | l'incarnazione delle altrui
tesi, | l'urlo acquisito
in natura... || l'attesa della paura | che fa guardare alla speranza | come
all'unica passione dell'uomo; | che ricorda l'utopia | volare nuda contro il
sole | e sciogliersi di colpo | al termine annunciato dell'infanzia." (p. 37). Saperlo già non serve ad esimere, è solo un assecondare quel
sapore di stantio che glassa le cose. Danilo Mandolini fa imboccare proprio
questa strada al suo personaggio. Gli ha lasciato una limitata capacità di
memoria ma pare avergli tolto la commozione del ricordo, e dove teme che possa
debordare gliel'ha chiusa fra parentesi: "(se la rincorsa forsennata delle
onde | fosse vera scheggia di corpo vivo... | allora sì, | si potrebbe pensare
ad un luogo inospitale | dove vivere gli avanzi delle gioie | e le stesse porre
in gran numero a custodia | dell'illusione dilatata dell'esistere | che altro
non vuole indossare | che sporchi bavagli di sorrisi)" (p. 56). A
stento si salva il poeta, come simulacro, oltre il limite perentoriamente
imposto al termine annunciato dell'infanzia. "Ha celebrato un giorno messa
|
essendo solo sacerdote | della chiesa del proprio corpo. | Ha affondato le
radici del desiderio | tra i lembi di una ferita ancora aperta | e per questo
mago è apparso, | stregone è diventato agli occhi | di chi l'argine della
desolazione alza | per sottrarsi all'incombente piena | della vita." (p. 43).
E' un gioco pericoloso quello che il personaggio assente fa: gettare il
pensiero oltre la barriera della realtà, "lungo lo scosceso divenire del
passo | e lo sguardo incalza, cade inerme | dentro una finissima pioggia | di
forme nude prossime al niente", oltre l'ostacolo presupponibile, "è già
fango: | la siepe che non si vede, | il limite che ancora non vive | nel
disincanto delle radure | e nelle asciutte viscere della terra" (p. 17). Un
gioco il cui costo si dovrà sostenere quando si vorrà far rientrare il pensiero
nella realtà; quando s'incontra la parola futura inevitabilmente si rischia di
usurare quella presente, di condannarsi da soli a dover osservare inerti quale
strada prenderà il tempo per raggiungere il domani intuito, senza poterne
cambiare la destinazione. Forse è proprio questa la condanna dei poeti: mostrare
inascoltati agli uomini un avvenire intuito e poi doverli seguire sulla strada
che lo raggiungerà inesorabilmente.
Prima ancora che nel senso, i versi appaiono disperati per la loro
fisionomia, sulla pagina come un letto insonne, nella ricerca di una posizione
per il proprio corpo, uno scomposto andare di torpore in veglia in una notte che
sempre si ripropone e non finisce mai. Ogni cosa aumenta la pesantezza del
vivere: i dialoghi improvvisi, i capannelli nell'ora di
punta, il fuggevole e schivo barlume
di rimpianto, la dolente iniziazione rito di una borghesia che vuole essere
dimenticata, scancellata dalla memoria, annegata nell'oblio per illudersi di
poter vestire una nuova immagine. E invece qui riaffiora, impolverata ma ancora
nel suo ordine antico, in decomposizione ma ancora riconoscibile; e il suo
sommesso divenire la trova già logora. Precocemente logora come l'immagine di
noi stessi quando, per effetto di un nonnulla minuziosamente studiato dai
professionisti delle debolezze umane, ci ritorna dai manifesti pubblicitari che
subito ci obliterano sovrapponendosi per indicarci la nuova immagine "Nulla
compete al rumore delle grida | se non il fondo più spesso dell'eco," (p.
57), e ci ritorna con l'ausilio di frasi d'effetto assurde o vuote che sembrano
composte da poeti prezzolati cui non è riuscito di fare fortuna come cantautori,
così assurde, se ci pensiamo, come i doveri di un soldato, le preghiere di un
vecchio, così vuote, se non ci pensiamo, come gli avvenimenti che fanno
audience dai teleschermi quando il problema da vedere è altrove.
Il giorno, come molti di noi del resto, anche i più illustri, si
accomiata orfano di una presenza minima, anche i più urlati, "sul respiro
sospeso dell'aria | che dal tetto rosso delle case | dona nuovo avvenire al
genetliaco.", e nonostante l'uso del termine "genetliaco", forse nel
tentativo di dare un tono ufficiale al dono di un nuovo avvenire, il finale non
sembra sufficiente ad indicare una concreta via alla speranza (se non sbaglio
questo termine appare una volta sola in tutta la raccolta, appannaggio del
poeta). "E' reliquia putrefatta dello specchio | l'infinita volta
dell'orizzonte | che attraverso il rettangolo della finestra | fa della sagoma
di un'ombra | grumo inestricabile di linee, | rintocco afono dell'ultimo tempo |
ed altro, progettato ricordo." (p.59).
Forse Danilo
Mandolini torna da Genova ma il personaggio rimane là, nelle immagini che così
bene evocano macaja e nausea, dalle quali, "Il fuoco serale ed alato del sole
| paralizza, fissa in un semicerchio | ... | la meta spudoratamente certa"
(p. 61), richiama "le chiare scie delle navi in partenza | tracciano la rotta
al tardo crepuscolo | che avvampa spossato e improvviso" (p. 18). E "il
ciclico frangersi del corteo di onde, | l'approdo sicuro e vicino della brezza |
che il rancore del silenzio costruisce" (p. 62) richiama "l'incessante
lamento delle onde | in faccia alle pareti | degli insormontabili moli del
porto" (p. 18); come "il viavai di ininterrotti arrivi | delinea
l'animato itinerario | che conduce il cuneo del giorno | oltre la bassa orlatura
dei tetti;" (p. 19) rispunta "dall'allontanarsi avvolgente delle nuvole
|
e dal disordinato accumulo di partenze | sopra l'incessante brusio delle piazze"
(p. 61). Ed è proprio qui, nell'ultima poesia della raccolta, che l'evocata
città assale il protagonista con particolare violenza, e lo fa dall'unico luogo
dove l'elemento ha ancora una forza maggiore dell'antropizzazione cui è
sottoposto: Boccadasse; dove non viene lasciato nessuno spiraglio tra la
compattezza del mare e la disgregazione dei sassi che lo accolgono:
"L'assenza solitaria della notte | rende un'incerta rotta al tempo | ed attende
sgomenta, quasi spaventata, | il ciclico frangersi del corteo di onde," (p.
62). E' qui che, forse sulla bocca socchiusa della brezza, l'impaziente alba sa
volare più di tutta la speranza delle parole già dette. La parola nuova, invece,
è forse nelle ultime righe del libro (p.65): l'angelo dei viali guarda l'otto
lungo e disteso della sua forma sinuosa, la sagoma formosa proiettata sulla
strada dai fari delle auto, "non è caduto, è giunto improvviso seguendo
l'intenzione o il freddo desiderio di pronunciare una parola (cosa pensi di
me) piuttosto che un numero (50.000 in macchina).
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Recensione |
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