| |
C'è un proverbio latino che associa al nome, nomem, un presagio,
omen, per chi lo porta. Più che il nome qui è il cognome dell'autore a
metterla tra midollo e medulla, fra "midia" e mezzo.
Acuto, il prefatore dice che sicuramente l'autore sfugge al rischio del
giovane scrittore: "... quello di abbandonarsi ad un incontrollato ...
desiderio di parlare di sé, ... nella convinzione che il proprio Io, essendo al
centro dell'universo, lo si debba raccontare con lirico trasporto e marcato
compiacimento.", e invece registra "... mosaico delle difficoltà ...
della precarietà del vivere quotidiano. ... una particolare attenzione ...
all'universo femminile." (omen di chi ha avuto in sorte di nascere
l'8 marzo del 1958), poi conclude: "Altro che ricordi adolescenziali risolti
in chiave lirica"". Non fa una grinza.
Tuttavia anche la tragedia più oscura ha il diritto di sollevarsi dalla
sua stessa miseria attraverso la scrittura, come ci insegna Sheakespeare, che
l'autore conosce tanto da citare a nostro vantaggio un passo dell'Amleto che
nessuno, degli odierni lombrichi veggenti o cicale soprano, ha la capacità
professionale e la volontà morale di regalarci. Invece a ma pare che l'autore
(suo tragico destino?) resti in mezzo al guado, inchiodata da una cronaca dei
fatti che non riesce ad imboccare una strada precisa e originale. Se qualche
sprazzo di cielo a volte s'intravede nella scrittura: "Guardò il cielo
turchino dove grossi cumuli si addensavano nascondendo a tratti il sole
accecante.", è questione di un attimo, e subito si rifugia in una scrittura
che riporta allo psicanalista appena lasciato nella storia (Geografia interiore
p. 122). In una situazione che dovrebbe vedere in un attimo tutto quanto è stato
compresso dalla preistoria fino ad oggi nel cuore,sbattuto come dalla risacca
sul ciglio di una donna, si legge un elenco di situazioni come contatti di
relais in un circuito a caduta, e alla fine: "Quell'uomo mi piace. Tutto
qui.", ce lo dice proprio l'autore. Spesso ho avuto l'impressione che quasi
volesse sacrificare tutto alla proposizione dei fatti per porvi un accento a
rischio di affogare nelle storie gli stessi loro personaggi. Tutto questo
potrebbe avere un senso se lo sguardo dell'autore fosse distaccato da una
superiorità autoreferente condita con un pizzico di cinismo verso quelle vite
infime da indicare come esempi negativi, invece no: timido, ma si sente come un
sentimento di complicità che, pure questo, pare autocensurato.
Forse la mia è una visione troppo spostata verso il versante della poesia
ma anche la parola letteraria io credo non debba essere solo cronaca di fatti ma
anche di sentimenti.
Sul fronte opposto bisogna rilevare un'attenzione molto acuta alle varie
sfaccettature dei drammi e dei personaggi, come a dire che tutto quanto espresso
in precedenza mai si traduce in un tirare là, per proporre una storia con
l'esigenza di arrivare in fondo in fretta. Capisco che questo possa apparire un
po' contraddittorio ma non credo che sia in queste cose che si debba vantare la
coerenza. La conseguenza di quell'attenzione di cui dicevo non è mai
un'assoluzione o una condanna, anche se in qualche caso io ne ho sentito il
bisogno e forse è proprio quello che l'autore voleva, e non solo manca questo ma
non c'è neppure una conseguenza, e quel "Tutto qui" di cui ho detto
diventa un ad libitum per tutta la pubblicazione.
Forse Fulvia Midulla non è abbastanza giovane per correre i rischi del
giovane scrittore, probabilmente non è abbastanza vecchia (rincoglionita?) per
abbandonarsi ai ricordi adolescenziali e risolverli in chiave lirica, certo non
è abbastanza "giovane" per saper esprimere cinismo nei confronti di drammi che
certamente fanno parte di lei, non necessariamente in senso autobiografico, sono
una parte di lei perché Fulvia Midulla non si è persa in una nuvola di fard, è
una cosa sola col suo tempo.
| |
 |
Recensione |
|