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Non
inganni l'assonanza del titolo. Benché s'intitoli Dell'amicizia l'ultimo
libro di poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin non ha nulla di ciceroniano se
non l'avvio. Anzi nulla è lontano dall'argomentare erudito e armonioso della
filosofia dello scrittore latino quanto questo minuscolo libro di poesia che si
modula, piyttosto, con la cadenza senza tempo delle fiabe. Al centro una
fugura di donna di cui ignoriamo il nome, ma che impariamo a riconoscere
attarverso le mille sfumature di una personalità che si va componendo, di lirica
in lirica, nella misura di un fresco, danzante poemetto teso tra l'alba di
un'amicizia e il crepuscolo di un requiem.
Domina nel lessico di questa poesia un refrain, o un ricorrente verbo
tematico che regala alla raccolta, pur composta all'indomani della morte della
protagonista, un tono lieve eppure intenso in cui avvertiamo radiosa la gioia di
vivere assai più che la tragedia della fine. Ripetuto con la cadenza di una
fiaba nell'Incipit di molte liriche o nel cuore di alcune, quasi una rima
al mezzo che scherza allusiva tra i versi, spicca il verbo "lavare". Coniugato
all'imperfetto intemporale delle fiabe o iterato in endiadi scherzose il verbo
si screzia di accezzioni ad ognuna delle quali corrisponde un gesto o un
movimento il cui significato ricompone, insieme, un mondo interiore ed una
civiltà. Riconosciamo, nei versi, i tratti di una gentilezza veneta e campagnola
che fu ed è una misura etica spontanea, inscritta in una tradizione di vita
radicata da sempre. La riconosciamo nei luoghi, filtrati dalla distanza del
ricordo eppur vivi di sensazioni; dalla scuola sui Colli Euganei dove, in un
settembre dorato d'uve e di sole, sbocciò il fiore di un'amicizia, all'atmosfera
"delle piazze sotto il salone" dove suoni, odori, rumori s'intrecciano alacri
nel segno di un "vivere" lieto in cui la letizia è una forma di innocenza.
A quell'innocenza mattinale s'intona, come la nota al quadro, il carattere
della protagonista: il suo sdegno irruente per tutto ciò che offenda l'"urbano
decoro di un tempo troppo arrogante", come il suo fervore d'insegnante che, nel
dovere di ogni giorno, traspone il fuoco di un imperativo interiore. Scorrone,
nel libro, limpidi giorni fragranti di vita, vissuti con la levità del vento e
l'intensità di chi non perde di vista l'essenziale: il risveglio è un "lavare i
pensieri", il viaggio per recarsi a scuola un andare ventoso, la lezione del
mattino "un bel suono sulle labbra del mai obliato inglese", l'imperativo
categorico che anima ogni parola un dire "l'urgenza | di un vivere insieme
cortese | alla voce di un'etica stella". Iterazioni o ripetute assonanze
traducono, nel tessuto dei versi, il ritmo alacre di opere e giorni. Avvertiamo,
di lirica in lirica, un'operosità tutta veneta che fluisce incessante come
l'acqua del fiume o l'"endemica sete del vero" che fa dell'anima una corda
sempre tesa, dello spirito una ricerca feconda.
Non si ignora il dolore, in questo libro, né l'ombra dell'inquietudine o
della sofferenza, ma appaiono il dolore e l'inquietudine, mitigate dalla
tempestosa dolcezza di un carattere che sa "smussare l'apro delle cose" con
l'energia affettuosa con cui sa "spianare la pasta" per i suoi cari. Tutto è
amore e le gerarchie sono abolite dove la vita è religiosamente vissuta: gli
umili fagioli spiccano come gemme se c'è luce nello sguardo di chi li osserva e
diventa un reame la natura "con fanciulli intorno, gli amici | i fringuelli in
solfeggi | le campane sciolte nel cielo". Forse è proprio in questa riposta
saggezza il messaggio di un libro che nella morte di una persona molto
intensamente amata non ha voluto vedere la disperata inanità di una fine ma ha
voluto, trasponendola in versi, ricordarne il delicato pudore che è,
innanzitutto, pudore del male subito per stringere "pur nell'ora più greve", un
"canto di confine" dove "i diletti spazi" di un "sentire di cristallo" siano
linfa di un oggi che non muore.
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Recensione |
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