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Un volume complesso, attraversato nella sua forma
apparentemente regolare e classica (nutrita però non da rime e assonanze ma da
una sorta di ritmo musicalissimo e avvolgente) da molte correnti emotive e
linguistiche. Diviso in due sezioni intitolate "Radici e rami" e "Versi del
commiato", raccoglie poesie e prose poetiche composte tra il 2004 e il 2006 che
ben si riconoscono nella epigrafe da Philiph Larkin: «Man hands on misery to
mani». Mandolini si inserisce in quella schiera di poeti che cerca un
corrispettivo della condizione umana nella natura, e lo trova nella immagine
della radice che passa la linfa, la vita ma anche se capita la malattia e la
morte. ai rami i quali restituiscono la vita ricevuta in dono (così come
l'uomo fa con la generazione) traendone vita ulteriore per la pianta e frutti
per chi la contempla.
Ecco perché l'autore decide di scrivere del padre, della luce
che il padre gli accende dentro nel buio che intanto lo divora lentamente,
riportando anche come pezza d'appoggio della sua autenticità stralci di lettere
indirizzate dal padre alla moglie. E anche, questo appello al padre come simbolo
del susseguirsi di semi e frutti, forse, il superamento di quella distanza (tra
parole e cose? tra mondo e desiderio?) esplicitata spesso nelle raccolte
precedenti di Mandolini. E infatti con il padre ora si identifica: «Guardo mio
padre guardarmi, | negli occhi parlarmi. | Guado mio, figlio guardarmi, | negli
occhi ascoltarmi».
Una distanza rimane palese: ad esempio l'autore osserva con
leggerezza dalla finestra di una clinica, ottenendone impressioni ed
osservazioni talvolta eteree, cose quali «l'accento metallico del freddo; come
un sorriso che il riso accenna e che poi cancella», o l'esistenza di uno
«spirito inumano» colpevole di rendere «fragili e selvagge» le vene degli
uomini, facendoli diventare uomini di vetro, o pupazzi. Egli non è molto
interessato al mondo sensoriale e immerso nella cronaca («Vorrei ospitarti nel
mio altrove»), ma il fuori, il mondo, per lui è la mondanità nel senso
peggiore, la vita svuotata di senso: in realtà egli fugge il mondo povero del
quotidiano (dove si sente «smarrito», termine ricorrente) non per volare in
universi trasparenti, ma per riconquistare il mondo concreto degli affetti.
Mentre il presente è per lui il tempo dell'inautenticità, della caducità.
Affetti nei quali egli si inabissa, li scandaglia con un percorso a ritroso e poi avanti, verso il basso e poi
verso l'alto, come chi cerca o esplora un fondale molto profondo: lo dicono
anche i titoli delle poesie, espressi in numeri che prima vanno decrescendo e
poi crescendo in un movimento appunto di discesa e risalita.
Ma se l'amara consapevolezza circa la difficoltà di esistere
rimane immutata e chiara, certo, adesso è anche un poco più serena: «gli sguardi
affondano e si dilatano nel dolore | come fossero, di un albero nel turbine | nelle stagioni che passano, radici e rami»; come l'albero continua a dare fiori
e frutti finché vive, l'autore sa che deve continuare a scrivere perché è come
chi «alla forza | del silenzio chiede aiuto, per non morire», ma sa anche che
«là, oltre il vetro, l'anima trasparente del tramonto avvampa». Finché
resteranno le radici: gli affetti, gli amori, le passioni.
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Recensione |
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