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Memoria della memoria, ho definito altrove il lavoro critico, tener conto del quale è memoria della memoria della memoria. Ad essa mi rifaccio per decretare che, a mio avviso, di Lucio Zinna ha detto quasi tutto, sul piano formale, Raffaele Pellecchia nella presentazione alla raccolta “Abbandonare Troia”, 1986 – cui ha fatto seguito un ampio saggio dal titolo “La possibile resistenza nella poesia di L. Zinna”, ora inserito nel volume “Con le parole / Oltre le parole” (Metauro, Pesaro 2007). Di quella presentazione accolgo qui volentieri e in particolare i seguenti passaggi: “(...) mi pare di poter rilevare la presenza di un pluralismo come dato di fondo che investe tanto la sostanza lessicale quanto la strutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso poetico che, tuttavia, conserva come suo segno distintivo un abito di preziosa e ironica curialità. Una sorta di aura domestica si diffonde tra elementi sontuosi e raffinati (...) Mi pare che sia assente, nella organizzazione della frase poetica di Lucio Zinna, qualsivoglia intento polemico vuoi verso il registro sublime vuoi verso quello umile (...) la mobilità della gamma espressiva, la varietà dell’assetto lessicale, la compresenza di stilemi ora mutuati dal parlato ora derivati da una cultissima fonte risultano così bene amalgamati, secondo un consapevole e misurato assemblage, da costituire un corpo organico e tipizzato...”. Davvero dal côté formale c’è poco da aggiungere a queste osservazioni; d’altro canto esse hanno in seno involontarie anticipazioni del mio discorso, e specificamente il richiamo all’aura domestica e il concetto di corpo organico e tipizzato. Passo dunque a notare che quest’ultima silloge (21 testi) di Lucio Zinna, contiene una sezione tutta per la moglie: Trittico per l’una, sezione che custodisce, nella sua prima poesia, il sintagma da cui è scaturito il titolo del libro
Noto ancora la dedica in epigrafe, con esplicito grafo-simbolismo
A e titoli come Foto album, Legàmi, Vincoli e strappi, Tardetà, Canzone triste per un piccolo indifeso per non parlare di Stanze agiografiche – che richiamano una dimensione cogitativa e sempre più raccolta, casalinga. Tutti questi elementi, facilmente reperibili ad una prima, direi superficiale lettura di Poesie a mezz’aria (Lietocolle, 2009) fanno pensare a una raccolta di poesia larica. E lo è anche. Ma la scrittura di Zinna è assai più stratificata, plurilinguistica (Pellecchia direbbe “pluralista”) e complessa, e chiede che si legga e si rilegga con attenzione per scoprire il respiro più ampio e profondo di questa plaquette, e soprattutto il suo pedale “accorato” di umanità. Si può parlare anche di poesia da camera – si sente il violoncello –, sì, ma in questa camera il poeta è uso meditare sulle “molte cose che possono trovarsi tra cielo e terra”, come ci avvisa in limine egli stesso, citando Shakespeare. Vi si trovano testi commoventi, che sono tali non per via di un indugio sentimentalistico ma in virtù di un continuo esercizio musicale della temperanza della dissonanza (quasi un sottotitolo per questo mio lavoro critico): delle espressioni idiomatiche scarnificate e rimodulate (tipico processo del Nostro), delle emozioni, dell’ironia, dello sdegno, infine dello sgomento – non tanto per la consapevolezza, sofferta ma sottaciuta, che “svanire è dunque la ventura delle venture” (Montale), quanto per ciò che in Tardetà si dice:
Questa intensissima strofa è l’unica in corsivo di tutto il libro, il che non può esser casuale; in ogni caso, la distinzione grafica ne fa un onfalo tematico di questa piccola ma intensa opera – diciamo pure di questa minuta ma completa grammatica del senior. (Non del senex, concetto assai diverso).
Il “libriccino” (così nel frontespizio) ruota su quattro cardini tematici che ho così denominato: 1. Il movimento 2. Il gusto del tempo 3. Il tabernacolo dell’esperienza 4. Santi ignoti in corrispondenza delle quattro sezioni fondamentali della raccolta: Transiti, Legàmi, Trittico per l’una, Stanze agiografiche. (Ne esiste anche una quinta, costituita da un’unica poesia: Insolarità, quasi una pausa nell’architettura musicale del libro, a svolgere – solitaria, come un’isola – un tema assai caro al Nostro). Propongo un’ulteriore schematizzazione esegetica, da usare contestualmente e in modo non rigido, anzi fortemente intertestuale: immaginazione dell’anima – esperienza dell’anima – esperienza del cuore – immaginazione del cuore.
È ben misera cosa un vecchio, W. B. Yeats Colpisce l’attenzione al movimento come elemento fenomenico, esistenziale e spirituale – segnalato, direi cantato, dai titoli della prima sezione, Transiti: Wagon lit, Migrazioni, Per un transito alare. E il testo che parrebbe fuori luogo proprio per il titolo (Tre momenti sul tema “assaporare”, di seguito la Iª strofa), è farcito di verbi e termini di movimento:
assapora è sui generis e alimenta il tema ribadito al primo verso della seconda strofa:
L’attrito interno a quest’immagine rende plausibile il tema rimarcato nella terza strofa
e sviluppato più compiutamente nella IIª sezione del libro (v. prossimo paragrafo). Il movimento investe anche la poesia Lustrura, ché racconta la luce di una passeggiata e il suo verbo cruciale è procediamo. Movimento e immaginazione dell’anima. Si ascolti Wagon lit:
Questa prima sezione sviluppa gran parte della doppia e complessa climax del libro. 1. Verso il basso/dentro/a ritroso – Indietro mi volgo, etc. – che è poi il moto inerziale della riflessione/memoria dentro l’anima di cui non si sa il fondo eracliteo, e gravitazionale della stessa esperienza del vivere, incisa nel consapevole declinare (Tardetà), della parabola “discendente”, suol dirsi, dell’esistenza. 2. A contrastare, anzi a sospendere tutto ciò, un contro-movimento che stanzia, esita, dubita “a mezz’aria” ma tende a farsi ascensionale, volatile, addirittura angelico. Si spiega allora il desiderio di compiere un balzo e di migrare come gru (Migrazioni), il sentirsi lievi di baldanza (Tardetà), il ripensarsi fra nuvole e terra (Migrazioni) e addirittura in volo tra nuvole e foglie (nella poesia intitolata proprio Nuvole e foglie – dove nuvole allittera volo). Si muovono verso l’alto anche i ricordi:
Chagall e i suoi amanti volanti? In ogni caso le immagini mnestiche salgono, come l’immaginazione si esalta o quantomeno salta, balza, vola. Il volo come sollievo e levitazione, fino agli angeli – che però si siedono accanto a noi e ci guardano vivere – custodi indulgenti. E così il movimento si fa andirivieni, modulazione. Temperanza. Cioè poesia. Che è mediazione tra le bassure e gli angeli, uscita dalla coazione dei giorni, come dei salti tutti uguali del cavallo nella courbette. Senza troppo illudersi, tranne che per un attimo, o a meno che lo straccio d’anima “non batta le mani e canti”, ovvero si dia in immagini a sgravare il peso dell’esistere, il peso del mondo, il peso del tempo, dei decenni che sono non passando – volati (Quanto più).
Colpisce ancor più questa strana mania che pare abbia preso il poeta, appunto, di mangiarsi i fenomeni e i momenti dell’esistere. In realtà, in una poesia di Abbandonare Troia (Memoria di scirocco) c’era già:
La tensione dell’arco analogico è al suo estremo e scocca una scintilla: dal sentimento del tempo siamo al senso del tempo, al suo gusto. Il sapore del tempo è custodito nelle immagini. Misure e misture di tempo da assaporare, degustare, sorseggiare, centellinare. E’ ben spiegato in Come un antifaust:
Come si spiega questa cronimagofagìa? Una pulsione conservazionale o cos’altro? Senza scomodare troppo la psicologia, il poeta sembra voglia far lui, adesso, quello che il tempo fa di continuo portandosi via tutto: mangiarsi la vita stessa. E cosa si può opporre all’oblio? La memoria.
Di più. Nell’immaginario mitologico c’è sempre un divoratore atroce. Per noi europei è Cronos. La vicenda mitologica di suo figlio Zeus ci insegna che bisogna escogitare qualcosa per non essere fagocitati. Gli altri popoli hanno figure simili ed elaborazioni sorprendenti. Accidentalmente ne ho trovata una ad hoc navigando in Internet.
Mangiare immagini è, se vogliamo, la letteralizzazione della funzione nutritiva della poesia e del suo processo introiettivo. Le immagini sono il nutrimento del poeta, ma anche dei lettori. Ogni libro di poesia è un convivio. Le immagini: ostie, particole della realtà. Ma qui il Nostro suggerisce un passaggio: che solo la poesia può fermare il tempo, “accordare” il presente.
La parola cuore non mi pare sia stata pronunciata tante volte in un solo libro e con tanta... certezza da Zinna , prima d’ora. Addirittura in Foto album
la ripetizione sta a ribadire la volontà indicativa, esplicativa del nucleo-motore, l’organo che fa luce, che consente la realizzazione e la visione delle immagini. Tutt’altro, l’ho già detto, che un’involuzione sentimentalistica, magari dovuta alla senilità – bensì l’obiettivo raggiunto da quella tensione dubitativa mantenuta, temperata nel corso di tutto il precedente versare, dico nei vari libri precedenti. E se le immagini sono ostie, il cuore è il tabernacolo dell’esperienza. Mi conforta il dizionario a riguardo di una temuta forzatura semantica, dal “tabernacolo” alla “tenda” (v. pag. 1, circa la dedica in epigrafe), ignaro com’ero che per gli antichi Romani tabernāculum fosse la tenda da campo del comandante militare, mentre presso gli Ebrei la tenda nella quale si conservava l’Arca dell’alleanza. L’accezione cristiana mi conforta altresì per il sinonimo “ciborio”, che così tanto si adegua al contenuto del paragrafo precedente.
Se il cuore è tabernacolo, ciborio e tenda indiana, tutto riconduce alla figura di Elide, letteralmente la “gentile consorte” di Lucio, la gentilezza fatta persona e sua vera “metà”. Li ho visti con-dividersi la sorte come il pane, e muoversi per casa in una danza ritmata dalle abitudini e dalla memoria, in armonia laricoreutica con altre creature, tutelari e tutelate, gli amati gatti, amatissimi anzi, presenti o meno che essi siano – al confine, quasi dei medium, di un ordine superiore o limitrofo, certo incapaci, essi, dei comportamenti della barbarie sapiens. Tutte le cose restano a mezz’aria – l’esperienza è impossibile, impossibile cogliere il presente – se ci si crede abbandonati, sia pure per momenti, da chi abita ben più dentro che dentro la stessa casa.
Il non che tradisce il timore, il pericolo di una solitudine fine a sé stessa, che non dà fine all’io, confine al suo tormento. Di non riuscire a riconoscersi senza perdersi nell’altro, in questo caso nell’altra, nell’una, che vale più che l’unica con cui valga la pena di con-vivere, e che sciolga del vivere la pena, la rassegnata fatica, nella tras-fusione affettiva, nell’osmosi coniugale ovvero nel com-movimento, se osmosi in greco è “spinta” e non può che esser del cuore, e infine nella tacita consonanza Ormai nostri colloqui non sempre Ma la parola amore è tutt’altro che sottintesa, anzi è giunto il momento di pronunciarla apertamente (Quanto più):
Un miracolo, addirittura. Questa sì, è una parola che non ci si aspetterebbe da Zinna, eppure in questo libro è già nella poesia d’apertura, Tre momenti sul tema “assaporare”:
e ritornerà in Per madre Teresa dei Gatti:
* * * Poiché il segno non è un’opinione, va detto, prima di e per completare il discorso, che c’è nel textus di questa raccolta un’inquietudine residua, non interamente assorbita dalla temperanza – è il graffio del violoncello sulla corda – del resto impossibile a sparire del tutto, un po’ come i tratti negativi del carattere, dico in ogni persona. Il conosci te stesso è il vero infinito. La ricerca, e la coscienza che le risposte non sono mai chiare e definitive, genera l’inquietudine. Dubitare è abitare a mezz’aria. Ed ecco l’inversione dei sintagmi, il vertere/contorcere dei numerosissimi enjambements, gli anacoluti, i quasi sfregati ossimori ad avere scintille di senso, veri flashes della mente, e tutto un ricercato disordine a lasciare sospese – a mezz’aria – tutte le parti del discorso. Il discorso stesso. * * *
CHIUNQUE sappia dove sia finita (Wisława Szimborka, Piccoli annunci) La terza e l’ultima sezione sono legate, se non altro, dalla preposizione “per”. Trittico per l’una. Tutte le poesie delle Stanze agiografiche cominciano allo stesso modo: Per zio Turiddu, Per Vincenzina, Per quattro gatti, etc. La grammatica ha qui una spia dalla marcata propensione relazionale. L’acme della compassione sta in questo quinterno di umanità, cinque stupendi poemetti (che presto, sono certo, troveremo nelle antologie) a chiusura e sigillo della silloge, un canto “accorato” per le presenze familiari, umane o animali, lontani e forse mai conosciuti parenti o figure incontrate casualmente nei libri, si direbbe fragili e forti della loro generosità, silenziose e umili, rimaste volutamente nell’ombra, dedicandosi ai simili ancor più silenziosi, o a fare nobile felina compagnia, senza altro premio che, ora, la semplice memoria di un poeta, il quale a pieno titolo si arroga di colmare le lacune della riconoscenza e del riconoscimento:
La poesia rende anche giustizia e il titolo Stanze agiografiche amplia il perimetro della casa laddove l’agiografia contempla altre pagine della storia mai scritta da niuno, o da ben pochi, quella delle creature.
Certo non è facile pronunciare il cuore e proporne le ragioni, abituati come siamo a zittirlo, il cuore, alzando il volume della mente logorroica, abituati a tacere che si è perduto il punto, il nucleo, il cuore della questione. Dove, quando Dante è veramente grande? Dinanzi alla pietà d’i due cognati. Che cosa è straordinario ne I Promessi sposi? Che (lo ricorda anche Zinna nell’ultima poesia del libro) “la verità è rivelata agli umili”. E di Leopardi ci tocca il pessimismo cosmico o piuttosto la sua “dolcezza” estrema nel naufragare? Ho definito senza imbarazzo alcune di queste poesie “commoventi”. La poesia che possiamo ricordare, la poesia che resiste (“Solo l’emozione resiste”, diceva Pound) è quella che ci tocca, che tocca le corde autentiche della nostra umanità. Quella che non si crogiola nella verbosità, nel vezzo estetico, nel vuoto parlarsi addosso, tutto quel che abbiamo visto pubblicare negli ultimi decenni, incredibile spreco di cellulosa, sfregio sulla pelle del Novecento (il secolo della poesia, lo definì Bigongiari)! La capacità di toccare con la parola è data al poeta se e quando egli si fa canale e abbandona il suo piccolo ego per ritrovarsi nel Grande Ego. E tanto più andrà verso gli altri quanto più attenta e complessa sarà la lettura del reale, della foresta di simboli nella quale l’io si perde e si ritrova, e si perde al posto degli altri per farli ritrovare. “Perditi se vuoi ritrovarti” scrive Luzi. Questa esperienza, questa immersione ad occhi aperti e a cuore aperto nella vicissitudine propria ed altrui, fa di ogni vero libro di poesia, oltre che un convivio, una grammatica della vita. [1] Patriarca del buddismo cambogiano, attivista per la pace, più conosciuto come “il Ghandi di Cambogia”. Ho trovato questo brano in modo assai curioso. Un giorno, mentre formulavo le mie ipotesi di lettura della poesia zinniana, ho digitato sul motore di ricerca la frase “mangiare il tempo”. Sbalordito, mi sono ritrovato davanti una pagina dallo stesso titolo, unica di un sito non più aggiornato dal 2005. Il che mi ha fatto pensare a un dono del cosmo. Non sento pertanto di aver rubato nulla o, se così è, giro subito la refurtiva ai lettori. Il brano, tradotto da Sergio Orrao, è tratto da “Step by step: meditations on wisdom and compassion”. |
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