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«Il fondamento primo del potere politico è una vita assolutamente uccidibile, che si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità» (G. Agamben, Homo sacer, Bollati Boringhieri). L’istanza della uccidibilità della vita, in quanto “vita sacra” o “nuda vita”, nell’accezione che Agamben riprende da un’antica figura del diritto romano, che voleva l’homo sacer uccidibile, ma pur tuttavia “insacrificabile”, garantendo così l’impunità di chi lo avesse ucciso, sta alla base della biopolitica: la “vita sacra” si manifesta come elemento politico originario, baluardo fondativo di una sovranità altrimenti impossibile senza la “sacralità” di una vita che, in quanto tale, risulta già ab origine esposta alla morte. Riducendo lo spazio della biopolitica dall’orizzonte della statualità antecedente e della più moderna ultrastatualità attuale all’orizzonte angusto dell’universo concentrazionario del carcere si può rinvenire una simiglianza non indifferente tra il fondamento della biopolitica ed il suo concreto esercizio in uno spazio, quello carcerario, che funge qui da paradigma in minore al grande spazio della biopolitica applicata esercitantesi in maiore.
Come poeta sente qui la sofferenza dei derelitti del senso, rimanendo fedele «agli uomini nella disgrazia» e non occupandosi «più di loro quando tutto gli va bene» (Mori i Po, esergo a Le stanze del cielo). Anzi, Ruffilli, per non incappare nelle pregiudiziali critiche di chi vorrebbe risolvere il problema in atto legandolo a doppia mandata allo scarto tra “assoluzione” o “colpa”, dà per scontato da parte del reprobo parlante l’assunzione su di sé della colpa legata al misfatto commesso, «non c’è ragione / per tanto orrore» (“Perché”, p.30); dà per scontato il necessario attraversamento del dolore, non a sopperire al dolore altrui provocato, bensì come iter obbligatorio cui non potersi e doversi sottrarre, anche laddove il risultato possa essere la riproposizione acuta di un dolore che si nutre di sé fino alla perdita di quel sé che lo ha dapprima generato ed ora viene da questo dolore a fuoco marchiato, senza scampo, in una spirale che vuole solo continuare a richiamarsi a sé, nutrendosi di dolore: «devi scavare un tunnel / dentro la montagna / del dolore / che pesa qui dovunque, / ma poi la galleria / ti crolla addosso / e ti rifà sepolto / di nuovo sotto le macerie» (Ibidem). Dolore in spirale a rincorrere il dolore provocato, che non conosce ragione, subito all’istante ed ora dilaniante, macigno al senso residuo del proprio stare al mondo, da altri irrimediabilmente sconnesso, spezzato nel suo equilibrio instabile. Si genera così un legame irriducibile tra dolore e dolore, abissi esistenziali che si vanno a rincorrere nel reciproco dilaniarsi, dolore «di chi sconvolto, in sé / smarrito e dilaniato / dal suo stesso dilaniare» (“Centinaia”, p.23) si perde «su per le scale ripide / oltre la porta / […] / un’altra porta, poi, / e chiavi rigirate / aperte e chiuse in coda / davanti e dietro / a ogni singolo passaggio» (“Fortezze”, p.22), a ribadire perenne condanna, chiusura totale all’ascolto, reiterata sottomissione ad una eccezione fattasi regola. Non serve provare a riciclare una qualche giustificazione individuale al reato commesso, «può darsi mi sia / soltanto ribellato / all’idea di non avere / un mio futuro» (“Inferno”, p.33), estrapolando la giusta e giustificabile ricerca di un futuro adeguato e giustamente agognato da una critica, che vuol farsi novella ristrutturazione, allo stato di cose presenti. Ruffilli coglie così senza dubbio il legame tra struttura socio-economica, nutrita del più sfrenato individualismo e di un utilitarismo che non prevede né concede ostacoli al suo individuale realizzarsi, ed il perseguimento di azioni le cui re-azioni si traducono in misfatto, e dunque colpa, pena, sofferenza, morte, scagliata dalle proprie mani ed ora, di rimbalzo, subita: «morire senza morte» (“Supplizio”, p.59). Il poeta non ha però risposte né adeguate vie da indicare al sovvertimento: non è un profeta né un vate, ma un “ascoltatore” acuto di stati che si susseguono in perdita, reclamando voce, laddove di voce non ne è data ascoltare, coincidendo, ivi, benché così non dovrebbe di certo essere, colpa e uomo: «e una sola azione / non corrisponde all’uomo, / non può rappresentarlo / né tanto meno cancellarlo» (“Il patto”, p.39). Solitudine abissale, «l’orrido male lancinante / di stare soli e nudi / con se stessi» (“Soli”, p.37) di chi è recluso in fortezze concentrazionarie atte ad inglobare gli “scarti” del “regolamentare”, del quotidiano andare che non può né vuole prevedere deviazioni al suo senso. «Non sei più vivo, / eppure ti stupisci / che non muori» (“Parole”, p.34), legati come si è ai sensi che richiedono dolore e pena, presenza a-normale a scontare non più il semplice ed universale esser nato, bensì l’avere posto in essere devianza a partorire dolore. Ed è allora questa la pena più grande per ogni recluso di libertà, vale a dire dovere sentire su di sé il peso tanto dell’assenza (la libertà), quanto di una costante presenza (la colpa) agli occhi ed allo spirito. Senza cadere allora in inutile commiserazione, inadatta ed aliena al senso del dire poetico, Ruffilli coglie lo stato d’eccezione dell’essere al di fuori di quel tempo da costruire, inventare, stilare, plasmare con mani proprie da homo faber destini sui, per essere inchiodato al tempo subito del perfettamente regolamentato e scandito dell’universo carcerario: «è qui che, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, / un’attesa senza luce / e senza fine» (“È qui”, p.31). Svanimento temporale nello smarrimento di chi, compensazione da legge del contrappasso scontata in fieri, impossibilitato al “progetto”, «cadi in preda / all’orrore del non più, / del mai più / per quanto è stato» (“Colpa”, p. 60), porta su di sé le stigmate di una “spersonalizzazione” assoluta, de-individualizzazione marchiata da ogni respiro sulla propria carne, scandita dal costante scorrere di un tempo a-normale: «Lo scorrere del tempo / dentro è solo / la goccia che ti scava» (“Il tempo”, p.49). Normalità si traduce ivi nell’essere «privati del privato / espropriati / fatti numeri e oggetti» (“Letti”, p.28) in una omologante manifestazione di uno stare che non richiede più un sé da proporre al mondo, un individuum portatore di una individualità assolutamente irriducibile a qualsivoglia alterità, individualità in carcere per “regola” negata e de-fini-tivamente strappata. Nell’orizzonte di uno status esistenziale da universo concentrazionario riprodotto e costantemente reiterato l’omologo assurge a paradigma esistenziale, sostanziato da una “regola” che non ammette deroghe alla ripetitività da costruzione in serie: «sei un numero adesso / senza più persona: / tra te e il tuo dentro / qualcosa si è disciolto / ed è svanito» (“Un numero”, p.58). Il “senza più persona segna lo svanimento ultimo della individualità propria, dell’essere altro nell’alterità più assoluta da chi ci permette, con la sua sola presenza, di identificar-si in quanto sé irriducibile ad altri. Tanto la “riduzione”, in tal caso dell’individuo a semplice cifra, tanto la “spersonalizzazione” riconducibile all’omologo si esplicano come istanze di un nichilismo ormai totalmente dispiegatosi nelle sue innumerevoli manifestazioni da “ospite inquietante”. L’universo concentrazionario del carcere funge così da paradigma in specchio all’universo-mondo, laddove la stessa struttura detentiva, alla stregua della onnicomprensiva megamacchina-tecnica (Latouche) “riduce” tutto ad “ente”, a cifra controllata e controllabile, razionalizzandone il suo perfetto funzionamento, strutturato da omologa guittezza a produrre “scarti”. Nei versi di Ruffilli, ora in controluce, ora con più spietata vigoria, sembra trovare inveramento l’analisi del Foucault di “Sorvegliare e punire”, ove si legava indissolubilmente, l’uno immagine dell’altra, sistema carcerario e “società disciplinare”: il carcere si manifesta qui in quanto «nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto, tra il XVI e il XIX secolo, di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina. Il XVIII secolo ha senza dubbio inventato la libertà, ma ha dato loro una base profonda e solida, la società disciplinare, da cui dipendiamo ancora oggi» (M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi). Alla spersonalizzante perdita di libertà in collettivo dell’essere reclusi in carcere fa da contraltare, in Ruffilli, l’altrettanto spersonalizzante perdita di libertà , del tutto individuale, di chi si fa avvoltolare dalle spire della droga. Rimanendo fedele ad una mai distaccata “sospensione del giudizio”, giudizio che da poeta non può competergli, Ruffilli nella seconda parte de Le stanze del cielo poggia il suo sguardo com-passionevole tradotto in versi sullo status esistenziale di quei reprobi inchiodati ad un non-senso artificiale, che fa da pendant al non-senso cosmico, cui cor-rispondono, in maniera alquanto ingannevole, con una “fuga” da atto, presunto, di coscienza: «non fu curiosità / e non fu noia / la cosa che mi spinse / e mi ha smarrito… / fu anzi la coscienza / minuziosa / di me e del mondo / a muovere e guidare / i passi ignoti / del mio precipitare» (“Vita tagliata”, p.71). L’assoluta perdita di identità s’accompagna qui ad un sovvertimento dislocante di una qualsivoglia scala valoriale di riferimento, laddove è impossibile navigare nello spazio libero del senso agognato senza coordinate, magari minime, cui aggrapparsi nei momenti della tormenta grave e imperante. Con i sensi in preda a vertigini nutrite da fantasmi legati a sconnesse coordinate spazio-temporali, ormai del tutto inquinate da allucinazioni indotte, «pallido evanescente / come uno spettro, / il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente» (“Fuga”, p.74), residuo al proprio sopravviversi da morte artificiale, le cui stigmate altrettanto artificiali marchiano a fuoco le carni disperate d’angoscia, il “drogato” d’artificio abbandona lo spazio proprio del controllo identitario sempre in fieri, delegando ad altri, laddove esistono, la salvaguardia minima di quel che resta di un sé del tutto prostrato di dignità: «ti getta nelle mani / delle bugie e del niente / allontanandoti / per sempre / dalla tua regia» (“Artificiale”, p.82). Risposta in fuga, da fragilità o sconcerto d’esistere, in un mondo artificiale, da un mondo reale che di certo richiede lucidità estrema per sopravvivere alle istanze da razionalismo totale che lo governano. Alla dipendenza del controllo reale si sfugge così, o forse si crede di sfuggire, laddove la stessa “fuga” sembra tradursi in un’altra e più subdola forma di controllo del potere, con la dipendenza, da inferno, indotta in sé: «riconosco l’errore / e so nel vivo / per ogni grammo di piacere / quintali di dolore / di vomito e di noia / che è costato, / per tanto paradiso / quanto inferno di più / ho attraversato» (“Sogno”, p.79). Lieve sollievo ad un precipitare che non ammette limiti a sé. Riecheggia nei versi che Ruffilli dedica al tema l’atmosfera cupa, d’abbandono assoluto, da spaesamento valoriale che reclama com-passione per i protagonisti-reprobi, non certo giudizio, sgorgata in umore di sangue e fango dagli splendidi versi in musica che Fabrizio De Andrè, guidato da occhi sapienti e da un sentire del tutto prossimo al disastro evocato, compose a titolo “Cantico dei drogati” (“Tutti morimmo a stento”, 1968). Così come De Andrè, con un atteggiamento del tutto simile, da partecipata “sospensione del giudizio” com-passionevole, anche Ruffilli, in versi da “poesia civile” affatto affettata, ma nutrita da un sentire che si sa vivo, giammai artefatto a fini che non siano rinvenibili nel suo stesso sentire di passione, coglie il lato oscuro di una coscienza che si pretende sempre più controllabile, rinvenendo così lo spazio aperto delle umane fragilità, ove l’incapacità di adattarsi allo stato di cose presenti, o finanche di combatterlo e possibilmente annullarlo, si traduce spesso in dissoluzione di sé nel precipizio di un non-senso che non ammette più “illusioni” per andare nel mondo: «solo chi sta / nel cuore dell’inferno / sa cosa sia / l’eternità presente, / dannato nell’oscurità / più fonda» (“È qui”, p.31). Nessuna fuga artificiale per costruirsi un inferno di visioni, basta semplicemente volgere lo sguardo su sé e sul mondo per capire che l’inferno lo si sconta in ogni respiro, povero di libertà. |
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