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La poesia di Saverio Vasta si coglie alla stregua
di una rappresentazione olistica ove si compenetrano i tratti di un umanesimo
mai esasperato con la compartecipazione ai più variegati destini del mondo,
coniugando, lieve di malinconia, il richiamo salvaguardante di tradizioni ormai
sfinite con la messa in guardia dal progressismo omologante.
Lontano dalle convenzioni di una qualsivoglia
religione rivelata «Il bacio degli ulivi | lo spergiuro del gallo | il grumoso
catino | Giuda Pietro Pilato | statemi al largo | sgusciatemi via» ("Tentazioni",
p.15) Vasta incide i suoi versi di una religiosità senza idoli «Interrogo
quest'anima | sul mistero celeste» ("La mia ombra", p.16), religiosità
che assume su di sè l'annuncio, ormai del tutto dispiegatosi nella sua
mortificante manifestazione, della "Morte di Dio". Vi si interroga, così, il
vuoto spalancatosi nelle sembianze di "mistero celeste", interrogazione fremente
che re-clama una risposta che è sempre da venire, traducendosi in un domandare
perpetuo che riafferma costantemente se stesso nella sottrazione di una risposta
impossibile.
Si coglie, così, a fasi, l'annichilente richiamo
del baratro, sferzato dal vento gelido della ragione, ancorandosi, pur tuttavia,
al limite dello svanimento, ad un senso da rinvenire in una scala valoriale da
re-inventare su fondamenta ad oggi assenti: «Di tanto in tanto assaggio | la
vertigine del baratro | la mediana del piede | ben al di là del margine. | E'
allora che m'aggrappo | alla ferrosa àncora del senso» ("In bilico",
p.18). Qual è il senso, laddove i valori supremi si sono del tutto svalutati,
spalancandosi un onnicomprensivo vuoto valoriale, se non l'assunzione
re-clamante del nulla su cui provare a costruire, proprio in bilico, consci
della fugacità connaturata all'esistenza, l'impossibile senso? Vasta non ha
facile risposte, rinviene nel proprio versificare i tratti di un domandare
sempre reale, mai pleonastico di senso, indicativo di direzioni variegate, ma
pur sempre lucido nel suo re-clamare-analizzando, come quando, a suggellare
l'essere transeunte dell'esser-ci, coniuga l'eracliteo "panta rei" del divenire
con l'oraziano "carpe diem" caricato d'ansia d'intervento a raccogliere
brandelli di senso: «Stanca aspettare | se mentre si aspetta | passano le cose
senza ritorno» ("Il giorno è fuori", p.25).
Sente, così, Vasta il "senso" unico delle
stigmate della temporalità sull'universo, ma in primis su di sè, strappo
ultimo da realizzare già inscritto all'inizio del proprio andare: «Me ne sto
ultima pagina | d'un quaderno squadernato» ("Sfida", p.38), inserendo il
proprio "progetto" difficoltoso di giovane uomo, specchio di un innumerevole
difficoltoso progettare generazionale, entro lo spazio angusto ed angosciante
dei propri tempi malati: «E' un respiro affannoso questo tempo | scorbutica
attesa | vertiginoso stallo» ("Stallo", p.47).
Vane allora tutte le "illusioni" «E si pianse
sui propri sogni | senza lagrime» ("Guerra", p.52), laddove anche
l'amore, l'illusione fra tutte senza pari, si ripropone costantemente come
dolore da consolare, contraltare alla fugacissima gioia della costruzione dello
stesso «Eppure copiosa e fervida | altra materia si dispone | a nuovi
indelebili graffi» ("Musa", p.31), ci si può abbandonare all'afasia di
quel dire che tra-duce tradendolo ogni possibile senso, come lascia chiaramente
intuire il testo-sigillo della silloge "Lo spergiuro del gallo" di
Saverio Vasta: «E venne la stagione del silenzio | l'inverno volò via come un
baleno | inchiodando in levare l'avambraccio | svuotando d'inchiostro la penna»
("La stagione del silenzio", p.63)?
Il braccio
s'alzi in pugno ancora contro le ingiustizie del mondo e la penna traduca in
segni latori di senso ricercato il sentire-di-sè-nel-mondo, salvaguardando di
certo il sacro spazio del silenzio, oasi rara d'armonia possibile nel disastro
assordante dell'esistenza, ma urlando di sè-nel mondo laddove l'omologa
guittezza s'impone sempre più come sigillo dei tempi. Anche le parole di Saverio
Vasta con penna carica di novello inchiostro costituiranno ancora argine al
declino imperante.
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Recensione |
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