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Ritratto di Lucio Zinna nella lettura della critica:
dal "Gruppo 63" alla Porcellana più fine, una tessitura ininterrotta
in: Salvatore Mugno,
Novecento letterario trapanese.
Integrazioni e approfondimenti
Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici,
Palermo 2006, pp. 133-146.
Un primo,
essenziale profilo dell’autore mazarese può ritenersi quello tratteggiato, quasi
un trentennio addietro, da Rolando Certa: «Di Lucio Zinna, poeta, si è parlato
nel 1963 e giù di lì, come di uno che amoreggiasse con la neo-avanguardia. In
effetti, Zinna nel 1967 pubblicava Antimonium 14: più che poesia egli
tentò esercitazioni linguistiche, nuove strutture sintattiche. La parola
−
come l’uomo − invecchia, si disse. Rinnoviamo la parola e rinnoveremo
l’uomo. Illusioni di letterati (...) e l’ambizione a cambiare il sistema finì
con l’inserimento nel sistema di molti esponenti della neo-avanguardia. (...)
Zinna, ce lo ha confessato egli stesso, è stato sempre, come suol dirsi, con un
piede dentro ed uno fuori; certamente perché mai convinto della novità ed
esemplarità dell’operazione neo-avanguardistica. (...) Così Zinna è passato dal
gioco formalistico alla riflessione; dalla noia esorcizzata e divertita della
parola, all’introspezione (...). Trabocca così la vena civile di Zinna, con la
crescita del suo impegno etico, la sua ironia (certamente amara) si fa oggi
carica di significati, non è più un puro divertissement (...). Cosicché,
con estrema umiltà, il suo “rapido celiare” acquista significati e toni di
responsabilità accorata (...). Senza mai scadere nel facile retorico,
riscattando ogni tardo ermetismo e superstite neo-avanguardismo (...)»1.
La
prossimità di Zinna al “Gruppo 63”, in effetti, come correttamente sostiene
Certa, sarebbe stata temporalmente ed operativamente circoscritta.
Quanto,
poi, quell’adesione allo sperimentalismo sia stata autenticamente avvertita
sembrerebbe difficile dire allo stesso Zinna. Certo, gli anni Sessanta, per lui,
come per altri autori siciliani, rappresentarono una stagione di vera
inquietudine creativa e di turbinosa ricerca stilistica: il nostro scrittore
“simpatizzò” per il “Gruppo 63”, come testimonia anche la partecipazione al
“Gruppo Beta” (sorto nel 1965, sull’onda, appunto, delle istanze
neo-avanguardistiche), di cui fecero parte Miki Scuderi, Angelo Fazzino,
Giovanni Cappuzzo e altri letterati.
I
trascorsi “sperimentalistici” di Zinna oggi sono, comunque, consacrati nella
raccoltina Antimonium 14 (scritta nel 1965 e apparsa nel 1967); in taluni
“manifesti”, per lo più ciclostilati, prodotti dal “Gruppo Beta”; nei testi, di
vario genere, sparsi in riviste, degli anni 65-68.
Furono
una filiazione di quegli anni anche la collana I Quaderni del Cormorano
(diretta da Angelo Fazzino) e la nascita della rivista «PTR» (collegata alla
consorella «Linea Zero» che aveva sedi a Roma e Trieste)2.
Zinna non
fece parte organicamente del “Gruppo 63”, pur avendo partecipato attivamente a
pressoché a tutte le sue manifestazioni pubbliche siciliane degli anni Sessanta.
Quell’esperienza – ricorda lo scrittore – rappresentò, per lui e per altri
giovani, un’ottima “palestra”: «Si faceva più teoria che pratica della
letteratura. Condividevo l’opportunità di un sommovimento sul piano formale,
mentre rigettavo il puro formalismo, così come la teoria dell’identità tra
ideologia e linguaggio. Fu, dopotutto, una stagione utile, quella
neo-avanguardistica, sebbene oggi mi sembri soprattutto un fenomeno da
sociologia della letteratura: ritengo, insomma, che questa proceda per
evoluzione più che per rivoluzione».
In
un’intervista di molto successiva a quegli anni, Zinna, pur senza ripudiare quei
giovanili trasporti, ne ribadì i rischi e i limiti: «Dello sperimentalismo dico
oggi quel che dicevo già allora: che ogni ricerca sul piano formale non può
essere fine a se stessa: resta qualcosa di sterile se non si risolve,
globalmente, in una “operazione sull’uomo”. O, se si vuole, se l’experimentum
non approda a nulla. Il ripudio dei vecchi moduli espressivi, realizzato in
maniera esclusiva e volutamente criptica, è solo apparentemente ricerca del
nuovo e, in ogni caso, è il percorso meno accidentato. (...).
Vero è
che la poesia non ha il compito specifico di cambiare il mondo e che l’elemento
ludico è una delle sue componenti, ma non può neanche essere un “gioco” ad
infinitum»3.
Per
certificare che il percorso poetico di Zinna si è gradualmente e sensibilmente
allontanato dalle iniziali performance avanguardistiche, sia pure
conservandone il bagaglio migliore, occorre seguirne gli svolgimenti. Malgrado
l’indole irrequieta dello scrittore mazarese, non è nella “esercitazione” del
1954 (Al chiarore dell'alba) né nella successiva silloge del 1964 (Il
filobus dei giorni) che si manifesta il suo “furore” sperimentalistico.
Questa
seconda raccolta del poeta, appena ventiseienne, ne attesta, in modo piuttosto
maturo, la rara delicatezza e il candore a tratti assai toccante. Improntata a
toni crepuscolari, intimistici, memoriali e intessuta di autobiografia, tra i
suoi pezzi più belli presenta Processione, Porto di Mazara,
Pianto di Carnevale, Mio padre, Catacombe dei Cappuccini,
Capolinea del venti rosso.
«L’uomo
capisce improvvisamente −
scrive Francesco Favata nella prefazione al volume
− di essere già salito sul “Filobus dei giorni” ed è uno
dei tanti, sconosciuto tra sconosciuti, e con esasperante lentezza il cuore gli
si va facendo sempre più “nero” e pesante di lugubri dimensioni».
La
lettura di Miki Scuderi evidenzia che in quella silloge: «Anche le poesie
sociali sono amare. Ma non giudicanti: filosofia pacata (...). Versi esplosi
dall’anima, un po’ amari un po’ dolci, “falsamente” moderni»4.
Tali
aspetti dell’opera di Zinna vengono approfonditi da Piero Riggio
− che ne coglie talune analogie con l’“angoscia” di
Heidegger, il “naufrago” di Jaspers, il “muro” di Sartre – e rileva che essa:
«Si sostanzia anche di motivi filosofici e sociali (...). Vediamo affrontati i
problemi essenziali della società contemporanea (...), il problema dell’uomo
“alienato” (...)»5.
D’altra
parte, come precisa Pierre Thomas: «L’autore somiglia ad un Meursault pienamente
cosciente dell’assurdità dell’esistenza e che, a poco a poco, trova, attraverso
le delusioni cocenti e le mille sofferenze quotidiane, “una bizzarra sfiduciata
fiducia”»6.
Ma il
“debutto” sperimentalistico di Zinna incontrò anche ferme avversioni.
Emblematico, a
questo proposito, potrebbe essere un breve saggio di Franco Di Marco
−
incluso nel volume Una possibile poetica per un Antigruppo – in cui, con
la tipica verve mordace dell’autore, si sottopone alla sferza, a un
tempo, il gattopardismo e l’avanguardia palermitana (Gaetano Testa, Michele
Perriera, Roberto Di Marco e Lucio Zinna appunto). Del nostro poeta, egli prende
in esame un brano di Antimonium 14 (precisamente, quello che nella
plaquette è contraddistinto dal n. 6), dileggiandone l’«enciclopedica,
ciclopica onniscienza vuoi glottologica vuoi matematica (...)», mettendone alla
berlina la: «(...)dissacrazione. Ma a furia di dissacrare sorge spontanea la
domanda che potrebbe diventare angosciosa. Perché oggi questi dissacratori sono
uomini d’onore e siamo a posto. Ma se domani ci trovassimo di fronte alla
necessità... se la situazione precipitasse e i figli di codesti uomini d’onore
risultassero dei debosciati e insomma ci trovassimo costretti... nella
sconsiderata ipotesi del bisogno impellente, chi dissacrerebbe i dissacratori?»7.
Rincarando il sarcasmo, il medico-scrittore trapanese poi aggiunge: «Ahimè (...)
la critica, quella obiettiva, fuori dalla mischia, rinunzia al lavoro di
delucidazione e di chiarimento (...) attribuendo al gruppo dei nostri una da
loro stessi dichiarata illeggibilità e “in fruibilità”. Per cui bisogna
rivolgersi ai saggi critici elaborati dagli stessi “scriventi” (...). Ecco la
grande tentazione... se per caso non fosse soltanto per ignoranza personale che
uno di queste sublimità... non vede... non capisce... non ne capisce il resto di
niente»8.
Di
Antimonium 14, se volutamente vago sembra restare il riferimento del titolo
all’elemento chimico, il numero cardinale indicherebbe la quantità di
composizioni incluse nel libretto.
Qualche
brano della prefazione di Salvatore Di Marco potrebbe servire a rischiarare
l’operetta.
In un
contesto di dura e dichiarata conflittualità tra arte e comunicazione, di
“intraducibilità” della realizzazione artistica e di scardinamento della
falsa “pacificazione” del lettore, la neo-avanguardia
chiede «qualcosa di più alla funzione dei testi(...). Per tali motivi –
puntualizza accortamente il prefatore − (...) non intendo, nel caso dell’Antimonium 14
di Lucio Zinna, indicare valori determinati al di là di certi limiti, al di là
cioè della traducibilità del testo, poiché, contrariamente facendo, applicherei
meccanicamente alle zone intraducibili determinate categorie di valore comunque
esterne e perciò “impertinenti”»9.
Salvatore
Di Marco si limita, perciò, a proporre quella silloge: «(...) come testo
indicativo dell’attuale processo critico dell’intera avanguardia. L’operazione
di Zinna, che nella ricerca del “possibile accrescimento di vitalità” a tutti i
livelli del testo (linguaggio, struttura, metodo), è “fedele” alla migliore
lezione dell’avanguardia, non sfugge tuttavia al rischio che tale “lezione”
implica: cioè non soltanto è implicita la rottura del tradizionale rapporto
comunicativo e quindi il conflitto con il lettore: ma più in generale la
necessità della “mistificazione” come consapevole distruzione della dimensione
privata. L’io personale si mimetizza perciò in un gioco di distruzione semantica
(...)»10.
Di Marco,
infine, lascia il lettore «libero di pensarla come vuole» circa l’avanguardia, e
dopo aver fatto alcune precisazioni intorno ai fenomeni della “mistificazione”,
della mercificazione e della museificazione dell’arte, prendendo spunto da un
saggio di Sanguineti (Ideologia e linguaggio, Milano, 1965), conclude
riconoscendo ad Antimonium 14 di porsi nel pieno del conflitto tra
“eroismo” e “cinismo”: «(...) Lucio Zinna (...) certo non ci offre un prodotto
incontaminato (l’avanguardia è la sua prima contaminazione) ma “virtuosismo
cinico” sì, tendente però a nuove forme di in contaminazione»11.
Vorremmo appena aggiungere che, malgrado certa “in fruibilità”, diverse
composizioni della plaquette in questione appaiono, a nostro avviso,
pienamente godibili, quali ad esempio quelle contraddistinte dai numeri 5, 6 ed
8.
Paolo
Messina, nella prefazione di Un rapido celiare (1974), si cimenta in una
serrata analisi dell’esperienza poetica di Zinna, rimarcando, intanto, la
confusione critica del decennio precedente intorno alla neo-avanguardia
(«nonostante le ampie tessiture isagogiche spesso accluse ai testi») e poi
sostenendo che quella silloge potrebbe «costituire il capitolo quattordicesimo
di Antimonium, sia pure per le soluzioni formali che l’Autore in quella
ricerca non raggiunse, essendosi allontanato dalle sue proprie inferenze
linguistiche (...)»12.
La
raccolta, che comprende liriche composte dal 1964 al 1974, a dire di Messina è,
comunque, non solo testimonianza di una poetica, ma anche del suo fallimento.
Lo stile
del poeta siciliano si muoverebbe lungo due direttrici principali: «Dagli
ardimenti sintattici del “testo letterario”: i giuochi lessicali e numerici, le
citazioni, l’alchimia idiomatica (ivi compresa l’intrusione latina o straniera),
cioè da tutto un repertorio sperimentale di provenienza anodina, alle più chiuse
assonometrie empiriche in equilibrio tra i fasti della memoria (la narrazione di
eventi significativi) e l’interrogazione del presente come coscienza e come
atto»13.
L’ampio
arco temporale coperto dalla silloge «rivela
− aggiunge Messina nella sua premessa – un’intenzione
probatoria della sconfitta subita dalla poesia nonostante o addirittura in
contrasto con le sue premesse teoriche, se “tutti in qualche modo ancora
attendiamo giustizia”. E la domanda se quella poesia abbia effettivamente dato
la parola all’uomo contemporaneo trova un’eloquente risposta nella crisi odierna
(...): l’accrescimento di vitalità, infatti, poteva poi venire dai trastulli
eruditi, dagli epicherèmi teatrali, dalle “scelte permanenti” (teorizzazione
dell’opportunismo)?»14.
Individuata così la débâcle, la raccolta avanza lungo la via di una
«scarna discorsività» ma anche del «collage ideografico e analogico», si
allontana dalla crisi culturale europea per rivolgersi alla propria casba
e «radicarsi nel terreno d’origine».
La poesia
di Zinna, insomma, sa conquistarsi un’incisività che non resta impigliata negli
sperimentalismi tout court, ma persegue propri criteri “sovvertitori”.
Questo
dato è confermato anche da Melo Freni che a Zinna riconosce la «costante
inclinazione a spezzare i soliti moduli di una letteratura intelaiata sui canoni
di una insularità facile a condizionare e talvolta ad appesantire», indicando il
nostro autore «quale il più serio continuatore di un rinnovamento che altri
avevano ampiamente predicato, ma che avevano inequivocabilmente fallito»15.
Resistendo alle lusinghe postermetiche, populistiche e retoriche, il suo «fine
sperimentalismo −
sostiene Giovanni Cappuzzo −
(...) non voleva costituire un espediente semplicemente tecnico o un modo
verbale di far cose nuove, ma una maniera di misurarsi con una realtà con cui
bisogna pure fare i conti (...)»16.
La
raccolta poetica intitolata Sàgana (una zona collinare del Palermitano,
tra Giacalone e Montelepre), uscita nel 1976, propone un cammino a ritroso nella
lirica del poeta, antologizzando, con delle composizioni inedite, una selezione
da Un rapido celiare e da Il filobus dei giorni. La struttura del
volume sembra proprio voler rimarcare la continuità del percorso letterario di
Zinna.
«È, in
effetti, questa, in fatto di (...) “efficacia lirica”
− annota Elio Giunta
− una lezione di urto in questa contemporaneità, dove i
poeti scrivono versi per centinaia e centinaia di pagine, usualità pericolosa se
fra qualche anno occorrerà guardarsi in faccia per concordare su ciò che è stato
incisivo e ciò che no»17.
Zinna
resta fedele a un suo aureo motto: «(...) leggere molto, scrivere molto,
pubblicare poco»18.
Giunta,
nel suo saggio, si rammarica che il poeta mazarese da quell’opera antologica
escluda Antimonium 14, lavoro che egli colloca alle fondamenta della
successiva poesia di Zinna, anche ai fini di un riscontro dei suoi elementi
costanti: «la carica ironica», «il rimanere in bilico tra protesta e richiamo di
affetti» e la «rinnovata tipologia del visivo».
Il saggista
individua, poi, in Sàgana il ribaltamento di taluni presupposti
dell’Ermetismo: le nozioni di attesa, di assenza, di memoria: «(...) In Zinna la
“memoria” cede il posto ad una pratica “convivenza” con la realtà estremamente
oggettivata; più che l’assenza prevale l’io (...); all’attesa si sostituisce la
nozione caratterizzante dell’improvviso, che è appunto negazione di qualsiasi
spazio contemplativo o sognante, verbo-tensione più conforme alla norma
dell’esistenza, che è la “disorganicità”. (...). Perciò realismo sì, ma secondo
una nuova personale accezione: la dicotomia che affiora tra realtà e verità qui
non offre più sbocchi metafisici, ma riporta tra gli oggetti (...). Da qui le
ragioni del linguaggio effettivamente smaliziato e diverso. Zinna di Sàgana
è facile e difficile nello stesso tempo. (...) I sottintesi aprono o determinano
distanze vertiginose, il rapporto delle cose con la condizione umana è
realizzato con sintesi stringatissima: Zinna si è espresso nella maniera meno
verbosa che si sia mai vista in questi ultimi anni»19.
Del
drappello di liriche inedite apparse in Sàgana, di rilevante fattura e
interesse ci sono sembrate: Elide, Arcaica sera, L’estate del
bucaniere, Ballata del Kirsch (o dell’acqua tonica), Se vivere
e Disorganico improvviso: queste ultime tre potrebbero perfino
esemplificare uno stile e una maniera di sentire la vita.
Tralasciando talune cartelle d’arte (Tabes, Dalle rotaie ed
Equoreo), volumetti contenenti una o due liriche e impreziositi da incisioni
e litografie, occorre arrivare al 1986 per un nuovo incontro con la poesia del
nostro autore.
Dopo
dieci anni esatti da Sàgana, Lucio Zinna propone un denso volume di
liriche, Abbandonare Troia.
È,
probabilmente, l’opera della maturità del poeta, il picco di una trentennale
attività lirica ed artistica, se è vero che in essa ricorrono e confluiscono, in
maniera consapevole e armonica, le principali componenti della produzione
letteraria e del sofferto itinerario umano dell’autore mazarese.
Raffaele
Pellecchia, presentando la silloge, indugia nell’indagine dell’ubi consistam
della lirica di Zinna, procedendo per esclusioni, come a volerne scoprire la
cifra fondamentale in chiave di definizione negativa. Essa non sarebbe:
«sfiorata (...) da alcuna seduzione glossolalica (...)», né da un «ludismo vuoto
e tautologico; né, per converso, sopporta la vicinanza dei laboratori
crittografici (...), né i rigurgiti di uno zdanovismo duro a morire; né (...)
alcuna parentela con i restauratori dell’aura evocativa e “rapinosa” degli
innamorati della parola o, al contrario, con chi (...) annulla ogni distinzione
tra il verso e la prosa»20.
Il
prefatore, quindi, ne indica alcuni caratteri peculiari nella «frequenza di atti
e di presenze che appartengono ad una dimensione ordinaria e consueta del
vivere»; nella configurabilità dell’opera «come un misurato “romanzo
psicologico”» per via dell’emersione degli aspetti psichici, temperamentali ed
ideologici dell’autore; nella singolarità della «cifra stilistica sua e soltanto
sua»; nell’«ironia, come atteggiamento spirituale (...)», nella «preziosa e
letteratissima perizia tecnica» che, tuttavia, «si sostanzia di una valenza
etica ovunque presente (...)»; nel «ricorso alla memoria che esclude, per lo
più, ogni intenzione elegiaca (...)»; nel rifiuto, «per istinto, della pausa
contemplativa, della rinuncia alla speranza, dell’autocommiserazione» e,
soprattutto, nella «tonalità energica e combattiva», sia pure nei confini di una
«décence e di una medietà tipiche di un gentiluomo della penna (...)»;
nel timbro «palesemente colloquiale», pur esprimendo «una sottile disperazione,
spesso risolta nel segno contrario del divertimento (...)»21.
Ma il dato
di fondo dell’espressione poetica di Zinna, Pellecchia lo ravvisa nel pluralismo
lessicale e sintattico: «(...) un abito di preziosa e ironica curialità. Una
sorta di aura domestica si diffonde tra elementi sontuosi e raffinati, senza
provocare stridori kitsch né tendere ad esiti dirompenti e corrosivi
(...). Mi pare che sia assente (...) qualsivoglia intento polemico vuoi verso il
registro sublime vuoi verso quello umile (...). (...) La compresenza di stilemi,
ora mutuati dal parlato ora derivati da una cultissima fonte, risultano così
bene amalgamati, secondo un consapevole e misurato assemblage, da
costituire un corpo organico e tipizzato (...)»22.
Se si
tiene presente che la silloge in questione contiene appena ventinove liriche,
composte in un decennio (dal 1977 al 1986), se ne arguisce anche la gestazione
laboriosa.
Mariella
Sclafani evidenzia la “maturazione” dell’opera dello scrittore siciliano: «Dopo
i primi esperimenti de Il filobus dei giorni e Un rapido celiare,
gravati ancora da eccessivo autobiografismo e da influenze letterarie non
adeguatamente assimilate e decantate, Zinna ha ampliato e approfondito la sua
tematica e affinato gli strumenti tecnici, riuscendo ad utilizzare al meglio le
conquiste formali dei “novissimi”»23. Con riferimento ad
Abbandonare Troia, il critico aggiunge: «Quel che colpisce al primo impatto
con il testo è il verso lungo, ampio, che supera di molto la misura tradizionale
e pure non risulta prosastico o dimesso (...). Le espressioni colloquiali,
inserite in un amalgama nel quale sono chiaramente riconoscibili prestiti
letterari e versi della più antica tradizione o addirittura stralci di testi
canonici della linguistica, sembrano nobilitarsi e acquistare nuove risonanze,
come se fossero pronunciate per la prima volta. Il plurilinguismo è, dunque, la
seconda caratteristica dello stile di Zinna. È forse questo il filo sottile che
lo lega alla lezione dell’Avanguardia (...). La mescolanza non solo di registri,
ma anche di lingue diverse (inglese, latino, spagnolo), non è dirompente come in
Gadda, né sottilmente polemica, ma è quasi dissimulata, come se l’autore volesse
realizzare una medietas stilistica non priva di raffinatezza e di
artifici»24.
Sclafani
sottolinea, inoltre, l’ironia come trait d‘union di questa lirica,
segnalando l’efficace mélange di privato e pubblico da essa realizzato, e
individua nel trittico «memoria, difesa, resistenza (...), le parole-chiave di
uno dei nuclei tematici più significativi della raccolta di Zinna»25.
Rimarchevole sarebbe anche il dato della sicilianità, dell’insularità nell’opera
del nostro autore: «La “sudità” di Zinna − precisa Sclafani
−
esce dai tradizionali canoni della rappresentazione
geografica ed interiore del meridione. Non c’è l’oleografia del paesaggio, né il
lamento per un mondo dimenticato e abbandonato; né la Sicilia è, come in
Quasimodo, una sorta di Eden desiderato e rimpianto da contrapporre alle brume
del nord. Al contrario, Zinna si sente uomo del nord (...). Egli rifiuta
“l’oltranzosa sudità”, che altro non è se non “irremovibile sudditanza”, marchio
da scrollarsi di dosso con l’azione, e non con inutili lamenti (...)»26.
Lucio
Zinna emerge, insomma, come uno dei pochi poeti siciliani degli ultimi decenni
che abbiano saputo sottrarsi al pessimismo comodo e di maniera e allo speculare
attendismo inetto e immobile.
È ciò che
nota anche Vincenzo Leotta: «(...) nonostante la scoperta e ferma censura della
storia, presente e passata, non viene mai meno la speranza nel futuro (...).
Abbandonare Troia, sembra non offrire adito a nessuna illusione, ma per Enea
e i troiani fuggiaschi vuol dire anche andare in cerca di una nuova Troia, da
ricostruire come la prima o migliore della prima (...)»27.
Sul piano
più strettamente tecnico, altre peculiarità della poesia dell’autore mazarese
vengono individuate da Giancarlo Pandini: «(...) nella musicalità continua,
ottenuta attraverso la spezzatura dei versi con stacchi grammaticali imperiosi
(...); e nello stesso tempo usufruendo degli enjambements ricchi di
pathos là dove il poeta incastra le principali con le succedanee in una
miscela dolcissima (...)»28.
È un dato
costante il riconoscimento a Zinna di sicura e matura padronanza degli strumenti
tecnici della scrittura e, specialmente, della poesia, insieme a una singolare
vocazione analitica e all’abile, vertiginoso equilibrio tra architetture
testuali e pensiero.
Maria Grazia
Lenisa fa, d’altra parte, notare come nella lirica del nostro autore: «Il mito
viene rifiutato, se pure nominato, perché ormai irriconoscibile (...). Oltre
alle premesse ideologiche che prendono il posto del mito, rileviamo un originale
e soavissimo, vivo e scanzonato “dolce stile” (...)»29. Il critico
annota, inoltre, che un: «Altro elemento fondamentale, legato al realismo, è
l’interpretazione sui generis zinniana della cronaca, sino a dare al
realismo connotati quasi arcani, allontanando il presente (ed avvicinando il
remoto) (...). (...)C’è la ricerca di altre vie meno limitative in un'ampia
diffusività dell’io che non è soggetto né oggetto di poesia, ma teso a rivelare
con la parola la complessità della vita, dell’ideologia, della storia, quella
personale e quella cosmica. Dietro una facciata pseudo-romantica, Lucio Zinna
scopre ben altre ragioni alla poesia»30.
Anche con
le opere più recenti lo scrittore siciliano conferma di non aver aggirato le
muraglie della storia e dell’ideologia, ma di aver meditato a lungo su di esse e
di averne metabolizzato le verità fondamentali.
Fausti,
invece, pur apprezzando l’opera del poeta mazarese, manifesta delle perplessità
su taluni suoi aspetti compositivi: «Essendo lo studio di Zinna profondamente
volto alla ricerca della struttura sintagmatica più idonea, le scelte
paradigmatiche, pur in un ambito di raffinatezza e di assoluta originalità, con
lessemi tratti dal parlato e dal vernacolo, non sempre sembrano sufficientemente
compenetrate alla struttura in cui vanno a collocarsi»31.
Un
attento saggio, centrato su l‘ironia nell'opera poetica e letteraria di Lucio
Zinna, è anche quello di Antonino Contiliano che avverte: «Troia è una
metafora dell’essere-dato-città-Elena, dal quale il poeta si allontana con un
lucido distacco. Il distacco a sua volta si articola per sinèddoche, metonìmia e
anche attraverso la chiave poetica dell’ironia-interrogazione, che è sottesa e
regge tutta l’architettura dell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna»32.
Si chiede
Contiliano, a proposito di tale ironia, se essa sia: «(...)socratica,
kierkegaardiana, romantica? Un’ironia soprattutto conoscitiva, provocatoria,
pro-gettata in avanti, comunicativo-progettante, indagatrice, che altrove nel
parlare del suo Il ponte dell'ammiraglio e altre narrazioni, ho definito
euristica ed ermeneutica, creativa di nuovi sensi, valori (...). Da dire, qui,
che l’ironia (...) giocando sull’asse sintagmatico della contrarietà della
combinazione delle parole, coglie il senso della relazione lingua-mondo-essere
nel con-testo, e in esso si fa discorso di verità e di informazione»33.
Quest’ironia, precisa il critico, ha la «capacità di modificare la referenza
logica e cosale univoca e lo statuto ontico dato» rafforzando l’opera letteraria
«attraverso la torsione della parola discorsiva e delle consequenziali
associazioni significanti di sensi che si vengono a produrre»34.
Tutto ciò
indurrebbe a concludere che l’impiego dell’ironia-interrogazione non chiuda la
poesia di Zinna «entro i confini positivisti dell’“espressivo”»35.
Contiliano sottolinea, inoltre, che la logica del discorso poetico non è da
ritenere inferiore o meno valida di quella scientifica e, poi, propone,
un’analisi dotta e stringente intorno alle figure e agli strumenti tecnici
adottati da Zinna, ponendone in luce le connessioni, le insidie e i traguardi,
sostenendo che la complessità della sua opera resta, comunque, lontana dal
confliggere coi valori della comunicazione, malgrado le trasgressioni di vario
genere.
«Il verso
e le strofe che costituiscono il testo poetico di Zinna scorrono
sull’endecasillabo “libero” dell’enjàmbement ricco di ipotiposi,
antanàclasi e di anastrofi e di altri artifici poetici, i quali, oltre a
sostenere la forza espressiva dell’andamento poematico, rinforzano anche il
ritmo e la sua musicalità, legata, prevalentemente, alle consonanze, alle
assonanze e alle allitterazioni»36. Tutto ciò, riconosce il critico,
determina «una certa positiva ambiguità, che destruttura i significati e i sensi
dei lessemi e dei sintagmi cristallizzati, senza per questo ostacolare la
rappresentazione delle nuove informazioni e la trasmissione della loro
comunicazione oggettiva. Questa infatti (...) nel suo momento perlocutivo viene
salvaguardata dalla presenza di costanti logiche, semiotico-grammaticali e
tipografiche e di precisanti di referenza tematico-contestuali (...). Le altre
costanti, quali, per esempio, parentesi, incisi, ricordi, annotazioni di
particolari, scandite dall’interpunzione, dalla segnaletica grafica e
tipografica d’uopo, non solo vigilano sulla comunicazione e la comprensione del
testo ma non ne appesantiscono, quello che più conta, gli esiti poetici»37.
Abbandonare Troia,
insomma, ha consentito alla critica di calarsi a fondo nel mondo poetico di
Zinna.
Del 1989
è la smilza (appena 24 liriche) ma notevole silloge Bonsai.
Rino
Giacone vi riscontra: «(...) tutti i caratteri peculiari della poesia di Zinna,
varia, libera da condizionamenti stilistici, lontana da scuole e mode (...)»,
sottolineando come il poeta, tra l’altro, tiri «fuori dal suo cilindro magico
rime interne, calembour, doppi sensi, equivoci, allusioni, paronomàsie
(...)»38.
Sul piano
della misura stilistica si pone anche un intervento di Giuseppe Amoroso,
rimarcando «(...) la straordinaria capacità dell’autore di dire senza diluire,
di informare senza troppo concedere agli eventi, alle variopinte provocazioni
delle tracce prolungate ed estenuate»39.
«È
l’accadere hic et nunc che si fa iperbole e matrice, volta a volta
nutrendo e maturando fino alla compiuta espressione la falcata narrante
− scrive Pasquale Maffeo
−.
Siamo alla sottigliezza del dosaggio, dello stiramento dei lemmi, della caratura
semantica. Sarebbe bastato poco a incrinare la pronuncia. Zinna si muove su
affilato limite. La sua scrittura alchemicamente impastata di antica e nuova
materia verbale, d’aureo e vile conio, segnata di cesure, armata di parentesi,
non ha bave, non accoglie ornamento, non coniuga sovrappeso»40.
Pietro
Civitareale evidenzia di Bonsai la: «(...) singolare e suggestiva
illusività (complicata da una scelta stilistica che oscilla tra partecipazione
dolente e rappresentazione disincantata), nascente da un gusto carico ed
eccitato dagli oggetti, dai colori, dalla descrizione, dall’escursione
paesaggistica, ma subito intimizzata, piegata ad una dolcezza mite, colloquiale,
ad una ironia cordiale che ha il potere di addomesticare ogni retorica
sentimentale (...)»41.
Bonsai
denuncia anche
l’avidità e il deficit di riconoscenza degli esseri umani, che non
esitano ad appropriarsi di ogni cosa – lamenta Lucio Zinna – come se recassero
con sé dei nonnulla, dei bonsai appunto.
È,
soprattutto, nella prima sezione del libro (Prossimo), di taglio
scopertamente gnomico-parenetico, sia pure ammantato di pudore, che l’autore
espone la sua visione sofferta delle relazioni umane e sociali.
«L’intera
raccolta − peraltro, come scrive Augusta Mazzella Di Bosco
−
sembra porsi come dialogo sull’Invidia, quella degli
uomini contro l’Uomo, quella delle potenze arcane contro l’Uomo, quella del
tempo, alfine, contro l’Uomo»42.
Maria
Teresa Lajolo rileva, d’altra parte, come Zinna sistemi «nei suoi poemi tutti i
generi letterari, dall’epigramma all’epica, per evidenziarne
−
da ottimo
direttore delle luci qual è −
l’uomo nel suo
odierno quanto antico sfaccettarsi (...)», aggiungendo che l’impeto religioso,
cristiano, emergente dalla silloge «È la speranza, non ancora la fede (...)»43
per il poeta.
Puntuale
e delicato è, ancora, il saggio di Nicola Di Girolamo, sul tema della solitudine
nella poesia di Zinna: «(...) non si è lasciato coinvolgere, condizionare da
vani “teorizzamenti”, non ha avuto nessuna romantica voglia di evadere
dall’inferno moderno, nel quale trova con visibili risultati un pantagruelico
cocktail della nostra ricca e incoerente vita»44.
In
Bonsai, Di Girolamo individua anche le orme di una “poesia religiosa” e
“filosofici colori”: «La componente filosofica è presente nella cultura di
Zinna, ma egli non cede al dottrinario (...)»45.
«Un altro
aspetto della raccolta – ad avviso dello studioso
−
è quello
intimistico; senza ritorni a deprecabili, lontane confessions di
enfants du siècle (...). Zinna non parla di sé, di fatti, di oggetti, di
“cose” per trarne suggestioni, metafore. Nella dilagante letteratura della
memoria egli trova una nuova maniera per la sua memoria oggettiva, magari con
qualche iniziale concessione a modelli classici
−
con deliberata euritmia
− che subito dopo danno luogo ad icastiche
rappresentazioni (...)»46.
Di
Girolamo ritiene, inoltre, che «(...) con questa poesia viene segnata una
svolta. (...). Nelle famose querelles des anciens et des modernes, che
hanno caratterizzato la letteratura francese, che ne hanno promosso l’evoluzione
e la continuità, Zinna sarebbe stato fra i modernes ma senza rinnegare
gli anciens»47.
Con
Bonsai, insomma, sorretto da un rinascente impeto cristiano, oltre che dalla
costante, disperata necessità di stringere la mano al genere umano, Zinna non
rinuncia al sogno dell’isola felice, dell’atollo Inconnu e alza, intanto,
ancora una volta, la flûte alla vita.
Tra le
liriche di questo volume −
dedicato alla moglie Elide, al gatto Raffaele e a Teresa
di Lisieux – ci sembrano di particolare impatto: Preghiera per i liberatori,
Casablanca, Ballata atipica del poeta paladino, San Silvestro,
Del tendere la mano e La Tartana.
Non ci
soffermiamo sulla raccolta Sàgana e dopo (1991), che si limita ad
antologizzare una scelta di liriche tratte da opere precedenti: Sàgana,
Abbandonare Troia e Bonsai.
Del 1992
è la silloge La Casarca, in cui Zinna, rifacendosi al mito dell’arca e al
simbolo della casa, suggerisce due luoghi deputati alla tutela e al riscatto
della confusa, smarrita umanità, nell’operosa attesa di una renaissance.
Il poeta richiama anche la metafora del ! “coprifuoco”, come allarme in difesa
della propria interiorità ma anche dei valori comunitari.
Stretto
tra la sirena (un tempo campana) del coprifuoco e il rifugio della “casarca”,
ovvero tra la forsennata corsa ai ripari e la ricerca dell’hemingwayiano «posto
pulito, illuminato bene», il poeta con la sua polaroid prova ad afferrare
l’oggi che, come un lampo, possa accendere di significato il grigiore
dell’esistenza.
La
silloge racchiude composizioni del periodo 1989-1992 e ci offre uno Zinna
curioso di ogni aspetto della vita e commosso cantore della quotidianità e della
contemporaneità.
Tra le
liriche più interessanti della raccolta andrebbero a nostro avviso ritenute
Scilla e Cariddi, Gioco di fuoco alla Marina, N'abucco,
Fiaccolate-contro, Aceto divino, Savonarola, Il tuo nome,
donna, No Smoking, I popoli e le rive dei fiumi, Il leone e
il giglio, Vaso da fiori con daggherotipi, Le tessitrici,
Mani.
Nel 1994
Zinna ha antologizzato la sua intera produzione nel volume Il verso di vivere,
testo accompagnato da un approfondito saggio introduttivo di Francesco De
Nicola, in cui si ripercorre l’esperienza poetica dell’autore siciliano48.
Da
ultimo, il poeta mazarese ha dato alle stampe una plaquette di liriche
(datate 1993-2001) che ci pare ribadiscano e consolidino l’andamento
raziocinante e lucido del suo poetare e che si caratterizzino, principalmente,
per il conferimento di solennità al “quotidiano”, sino quasi a dimostrare che,
in fondo, per gli umani non esista che esso, sostanziato di eventi minuti,
spesso irrilevanti, talvolta banali. Molto bella e, crediamo, emblematica, a tal
riguardo, è Tableau del temporale inatteso. Con qualche ossimoro, si
potrebbe forse dire che la raccoltina sapori di distillato “diaristico”, di
sorvegliato stream, naturalmente nella costante celebrazione della parola
e della frase levigate e precise49.
Il
prefatore, Rodolfo Di Biasio, fa opportunamente rilevare che con questo libretto
«Zinna consegna con chiarezza al lettore il suo tremore d’uomo di fronte alla
morte. E si affida alla speranza, la porcellana più fine che un niente, un fiato
può incrinare: “...la porcellana più fine / è la speranza (‘la fede avresti
detto’) / che qualcosa si muova oltre l’alpacca / del dubbio che qualcuno ci
attenda / oltre quel filo...”»50.
Questa
sommaria e rapida rivisitazione della poesia di Zinna attraverso i contributi
della critica, non deve naturalmente oscurare il côté narrativo
dell’autore mazarese51, né la sua intensa attività di spigolatore di
sicilianerie, di sagace investigatore di letteratura sommersa (si pensi, ad
esempio, ai suoi contributi a proposito de Il Mondo giovine di Salvatore
Spinelli)52 e di intriganti “enigmi” storico-letterari (ne è esempio
il suo appassionato interesse per la tragica storia di Ippolito Nievo), né il
suo apporto di attivissimo operatore culturale.
Note
1.
R. Certa, Un rapido
celiare, «Impegno 70», Mazara del Vallo, a. IV e V, n. 12/18, gennaio 1974 -
settembre 1975, pp. 157-158.
2.
Notizie più dettagliate sull’attività e sulle posizioni letterarie del “Gruppo
Beta”, sono nell’antologia di poeti siciliani Gli eredi del sole, a cura
di A. Barbera e C. Pirrera, Palermo, Il Vertice, 1987, pp. 466-468.
Sugli esordi letterari del
nostro autore, si veda anche il suo saggio: L. Zinna, Antigruppo tra poetica
populista e ricerca neosperimentale, «Colapesce. Almanacco di scrittura
mediterranea», Palermo, n. 8, 2003, pp.17-27.
Per un quadro biobibliografico
e critico complessivo su Lucio Zinna, si cfr. S. Mugno, Novecento letterario
trapanese. Repertorio biobibliografico degli scrittori della provincia di
Trapani del ‘900, presentazione di M. Perriera, Palermo, Regione Siciliana,
1996, pp. 174-181.
3.
A. Nesci, Incontro con Lucio Zinna, «Images, Art & Life», Modena, 1990.
4.
M. Scuderi, Un libro di Lucio Zinna, «Trapani Nuova», 8 dicembre 1964.
5.
P. Riggio, La poesia di Lucio Zinna e la società contemporanea,
«L’Agitazione del Sud», Palermo, dicembre 1964.
6.
P. Thomas, Un Meursault pienamente cosciente dell’assurdo, «Il Gazzettino
dello Ionio», Siderno, 6 marzo 1965.
7.
Da Lampedusa a Palermo...’63 (Noterelle di “uno” dell’Antigruppo),
in Una possibile poetica per un Antigruppo, Trapani, Celebes, 1970, pp.
95-102.
8.
Ibidem.
9.
Cfr. L. Zinna, Antimonium 14, prefazione di S. Di Marco, Palermo,
Quaderni del Cormorano, 1967.
10.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
11.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
12.
Cfr. L. Zinna, Un rapido celiare, introduzione di P. Messina, Palermo,
Tip. APE, 1974.
13.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
14.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
15.
M. Freni, Cronache siciliane, «La Fiera Letteraria», Roma, a. II, n. 8,
23 febbraio 1975.
16.
G. Cappuzzo, Il recupero dell’umano nella poesia di Lucio Zinna, «Il
Punto», Crotone, a. II, n. 4, aprile 1975.
17.
E. Giunta, Lucio Zinna e la lezione esemplare di “Sàgana”, Palermo,
Centro Pitrè, 1977, pp. 8-9.
18.
A. Nesci, Incontro con Lucio Zinna cit..
19.
E. Giunta, op. cit., pp. 13-15.
20.
Cfr. L. Zinna, Abbandonare Troia, presentazione di R. Pellecchia, Forlì,
Forum, 1986.
21.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
22.
Cfr. L. Zinna, op. cit..
23.
M. Sclafani, Abbandonare Troia: prima che entrino falsi cavalli,
«Revisione», Firenze, a. XV, nn. 63-68, 1986-87, pp. 102-108.
24.
M. Sclafani, cit., p. 104.
25.
M. Sclafani, cit., pp. 105-106.
26.
M. Sclafani, cit., p. 107.
27.
V. Leotta, Da Troia una parola di speranza, «Arenaria», Palermo, n. 7,
gennaio-aprile 1987, pp. 21-26.
28.
G. Pandini, “Abbandonare Troia”, «Oggi e domani», Pescara, maggio 1987.
29.
Cfr. M.G. Lenisa, A dieci anni da “Sàgana” ecco “Abbandonare Troia” di Lucio
Zinna, «Quinta Generazione», Forlì, 1987.
30.
Cfr. M.G. Lenisa, op. cit..
31.
N. Fausti, “Abbandonare Troia” di Lucio Zinna, «Il nuovo giornale dei
poeti», Roma, marzo 1989.
32.
A. Contiliano, l‘ironia nell’opera poetica e letteraria di Lucio Zinna,
novembre 1989, Libera Università Trapani, a. VIII, n. 23, p. 145.
33.
A. Contiliano, cit., p. 146.
34.
Ibidem.
35.
A. Contiliano, cit., p. 147.
36.
Ibidem.
37.
A. Contiliano, cit., p. 150.
38.
R. Giacone, I “Bonsai” di Zinna, «Catania Sera», Catania, 27 maggio 1989.
39.
G. Amoroso, Due voci dalla Sicilia: Giovanni Occhipinti e Lucio Zinna,
«Gazzetta del Sud», Messina, 8 luglio 1989.
40.
P. Maffeo, Lucio Zinna, scacco matto al compromesso delle ideologie,
«Avvenire», Milano, 14 ottobre 1989.
41.
P. Civitareale, “Bonsai”, «Oggi e domani», Pescara, novembre 1989.
42.
A. Mazzella Di Bosco, Zinna/Bonsai, «Fermenti», Roma, a. XX, n. 200,
gennaio 1990, p. 23.
43.
M.T. Lajolo, Solitudine a più voci di Lucio Zinna, «Controcampo», Torino,
gennaio-febbraio 1990.
44.
N. Di Girolamo, Il tema della solitudine nella poesia di Lucio Zinna, «Pietraserena»,
Firenze, n. 2, 1990, p. 16.
45.
N. Di Girolamo, cit., p. 18.
46.
N. Di Girolamo, cit., p. 19.
47.
N. Di Girolamo, cit., p. 20.
48.
Cfr. L. Zinna, Il verso di vivere, introduzione critica di F. De Nicola,
Latina, Caramanica Editore, 1994.
49.
L. Zinna, La porcellana più fine, prefazione di Rodolfo Di Biasio,
Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 2002.
50.
Cfr. L. Zinna, op. cit., p. 6.
51.
Si vedano, ad esempio, dal volume Il ponte dell’ammiraglio (Palermo,
Romano, 1986) gli ottimi racconti: Il cacio, il cavallo, Scartabello
dei pupi siciliani, La partenza, e le narrazioni de Il trittico
clandestino (Siracusa, Ediprint, 1990).
52.
Al riguardo, si cfr., tra l’altro, S. Spinelli, Il mondo giovine, a cura
di A. Pane, prefazione di S. Zarcone, introduzione di L. Zinna, Palermo, Nuova
Ipsa, 2003.
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