| |
Il richiamo della Valle dei Re. Lo schiavo ebreo
Narrativa. Questo romanzo dimostra quanto fascino eserciti ancora ai nostri
giorni l’antico Egitto, e dopo migliaia di anni. L’epoca può sembrare
favolosa, ma non lo è poi tanto. Se i nomi ci riportano a quella remota
civiltà, i sentimenti e la psicologia dei vari personaggi rimangono
sostanzialmente inalterati, fatte ovviamente le debite differenze di tempi,
luoghi e costumi.
La ricostruzione di quel clima storico è
sostanzialmente autentica, accurata perfino nei dettagli: ritroveremo nomi che
sono effettivamente esistiti. La trama, a ben guardare, non è complicata, e
rimanda a una tradizione che almeno in parte è di ascendenza biblica. Si
continuerà dunque a produrre romanzi di questo tipo che già avevano conquistato
il pubblico con Sinuhe l’Egiziano, libro (1945) di Waltari da cui nove
anni dopo venne tratto un film. Figura centrale del romanzo della Pierfederici è
lo schiavo ebreo Natan che dovrà lavorare in un cantiere.
Se la vicenda nelle
sue linee generali è semplice, non vuol dire che sia scontata: vi giocano
infatti diversi elementi che la rendono interessante. Ma vi è una specie di
condizione morale cui sembra soggiacere lo stesso faraone. Siamo certi che in
quell’epoca, in cui la dominazione era un dato essenziale del potere, ci fossero
dei diritti per gli schiavi? In altri romanzi o opere cinematografiche pare di
no.
La realtà storica, a così grande distanza di tempo, fatica a venir definita
nei particolari, come invece è possibile per una narrazione romanzesca, che
privilegia per motivi dettati dall’autore i buoni sentimenti. L’imprevisto si
coglie proprio sul lato emotivo: l’amore di una principessa per lo schiavo. Il
lettore sarà curioso di sapere che fine farà un amore così diverso, ma
soltanto per estrazione sociale; l’unico consiglio che si può dare è di leggere
il romanzo: siamo certi che chi legge sarà attratto anche da una scrittura
vivacizzata dal dialogo, al punto che la vicenda si sente più vicina a noi,
superando quell’abisso di secoli dal quale lo divide il presente.
Peraltro
sapientemente costruita è la rete di rapporti che si vengono a creare tra i vari
personaggi, tanto più che vi subentrano non solo le relazioni personali, ma la
struttura gerarchica imposta dalle leggi, spesso davvero spietate. Interessante
risulta anche una certa dialettica che si instaura tra religioni diverse: quella
politeistica dell’Egitto e quella monoteistica di Natan. Quindi, più che un
contrasto fra confessioni, è la stessa concezione spirituale a essere
differente, se non opposta. Si sa, per esempio, che un singolare monoteismo
venne introdotto da Akhenaton, in seguito considerato come il criminale di Aton,
e ogni effigie o scritto si tentò di cancellare, avendo egli contravvenuto alla
struttura religiosa. In questa luce appariranno credibili anche taluni
aspetti sentimentali, ai quali neppure il faraone può sottrarsi. Ciò che
si chiede è di porre attenzione a certi elementi: un ciondolo in forma di
scarabeo finisce per diventare pegno d’amore.
È inevitabile che in un regno, tra l’altro esteso come l’Egitto, vi siano le
cosiddette congiure di palazzo, come puntualmente accade nel romanzo. Non è
questione di libertà, aspirazione che sarebbe legittima, ma di potere. Ai
margini della ricchezza vive sempre la povertà.
Qual era la condizione, mille e
cinquecento anni avanti Cristo, della popolazione che abitava fuori delle città
o addirittura in luoghi inaccessibili? Da questo si origina un dislivello tra
una storia romanzata e la Storia, ma non è detto che in certi punti non possano
combaciare. Del resto il romanzo è anche istruttivo, poiché la documentazione
riguardante usi e costumi è senza dubbio desunta da vicende vissute e lo
testimoniano le note poste a piè di pagina e i riporti nelle relative lingue, si
vedano le frasi tradotte in ebraico da Rivka Rachel Dayan di Tel Aviv: possiamo
quindi affrontare la lettura con fiducia, sapendo che in futuro altri romanzi
dell’autrice ci aspettano.
| |
 |
Recensione |
|