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Il dolore della casa
“Come non
ricordare…la morte nel suo deposito di àncora / che chiama dal fondo un altro
mare” scrive Stefanoni a introdurre una manciata di poesie dedicate ad alcuni,
ma nell’intento, credo, a tutti i morti per covid 19: e l’atmosfera della
lettura subito si carica di vita interiore i cui dati e atteggiamenti cercano il
saldo di un alto milieu letterario non tanto per sintonizzare partiture
di rara cantabilità, quanto per erigere la comune dignità di esistenze private a
dimensione storica. Sì che l’ingrandimento della vita sentimentale di questi
caduti in trincea ai tempi del coronavirus sigilla i sentimenti di
un’epoca, espungendoli dalla riduzione a numeri e sbalzandoli a narrazione
immediata di lingua letteraria.
Il dato emergente,
il dolore della casa, diventa allora il non luogo di un
fotomontaggio che, per camere a più letti, avvolge l’immenso cronicario del
dominio del virus nella corrente lenta e insistente dello Stige, e, in essa
l’inarrestabile conseguenza di qualsiasi sacrificio. Pare ineluttabile che i
cieli a stento riescano a contenere i nomi scritti, stupiti del friabile di
esperienze vissute, dei respiri coltivati nella quotidiana ansia del vivere,
mentre una spatola di metallo cancella immagini inventate al risveglio dei primi
mattini. Come le impurità dell’aria, una dopo l’altra, una accanto all’altra, le
figure dei colpiti fluttuano immerse in teli evanescenti, forme umane intubate,
sudari cerati che avvolgono corpi i cui nomi galleggiano nei loro avanzi di
affetti.
Così di Chiara e la
fragilità della scienza, di Diego e il suo professare per bene di
una vita per bene, o di don Paolo che, caduto prima… si è
fidato ancora una volta/ mostrando la strada o ancora di quelli di Hart
Island a cui si affida la lettera per il futuro o del supremo
sacrificio di Daniela e il suo terrore esploso negli occhi di un dare infetto
e sù sù de la calata di padri e di madri dai piani…caricati e spostati nei
camion, le memorie dei padri e delle madri delle RSA, fino
all’atleta, al medico siriano, al neonato americano che non ricorderà
d’aver messo piede nella terra degli sentimenti, o degli altri, quelli
del trepido mondo di case , strade , lavoro, di tutti di ognuno cercheremo
l’estenuato sillabare di percezioni rare, l’apertura del respiro che viene meno
per configurare un paesaggio affettivo, un quotidiano che restituisca la dedica
di un abbraccio, la carezza degli occhi, la frase umana colma di significati.
Non si dica che la
poesia per statuto oppone alla disperazione la speranza perché coltiva l’invito
a unirsi per non morire: questo diverso racconto del fatto umano rende già
fertile l’erba cresciuta in fretta sulle lapide, pure se la sintesi suprema
della lamentazione del Nostro subisce il sortilegio della sottrazione.
Di questa narrazione suprema di Stefanoni, arresa all’ineluttabile frattura
vita-morte, ci basti il nitore della poetica in grado, da solo, di eludere il
rischio dell’angoscia dell’io-poetico che, nel mentre istituisce il rapporto
lingua-fatto umano, coagula la sintesi estrema, “la misura esatta e sola della
carne”, il “gran pianto” sull’esistenza che ha da reimparare il senso della
perdita oltre i resti e i rottami del naufragio
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Recensione |
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