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La terra che snida ai perdoni
In questo lavoro che affascina
già dal titolo, "La terra che snida ai perdoni", che appartiene per valenza
scrittoria alle doti esegetiche non indifferenti del'l�estensore,
c'è
soprattutto il tentativo (riuscito) di Gian Piero Stefanoni di dare voce e
risalto a un mannello di
autori abruzzesi, alcuni vicini a noi nel
tempo, che scrivono in dialetto.
Il nostro Stefanoni, pur scrivendo che questa è
una "passeggiata" affettuosa in una terra "di mezzo", verrebbe da dire, alla
quale lo legano sentimenti e legami parentali, si ritaglia uno spazio carico di
suggestione vuoi per la validità degli autori antologizzati vuoi per le
aspirazioni anche fuori dei confini regionali , che alcuni di essi esprimono.
Da
quanto lui ci riferisce compaiono nomi ( non so Dommarco,
Marciani) che in testi di effettivo valore poetico riaprono la querelle del
prestigio o meno del dialetto messo a confronto con l'�uso
della lingua nazionale. E non solo per certi "ripieghi intimistici" o "la
preghiera di affondi tra corpo e terra" che si ricavano dalla lettura delle
opere, quando per la naturale capacità di invenzione che essi manifestano, per
la felice coincidenza di virtù spirituali che li obbliga quasi a una sorta di
pudore espressivo fondamentale nella pronuncia gergale.
Si calcoli, poi, il peso
delle parole di Stefanoni nel commentarli, quel peso che hanno contro l'�apparente
leggerezza dei loro versi, delle loro luci: Stefanoni utilizza un lessico
finissimo che non è veicolato dal gusto del colore o da una immediata
disposizione di sensi nei loro confronti, semmai dalla convinta consapevolezza
che i poeti di cui si occupa hanno superato lo scoglio del'occasione
per sfociare in aree di armonia naturale e di funzione vitale.
Elementi che si
ritrovano anche nella parte finale della "passeggiata", a sostegno di una
operazione critica che in definita indica la dolce fedeltà degli autori al verbo
poetico anche messi a confronto, mi pare di capire, con esempi illustri d'oltre
cortina.
5 maggio 2017
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Recensione |
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