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In una elegante edizione della
«Centona» di Palermo, come primo volume della collana «La
mansarda dell’Olivella», esce
una nuova raccolta di poesia di Lucio Zinna, La Casarca. I testi,
composti fra il 1989 e il 1992 sono stati divisi in tre parti: «La campana del
coprifuoco», «Polaroid» e «La Casarca», appunto.
Per ognuna delle tre parti
l’Autore premette una breve indicazione al titolo, che è poi una specie di
portolano dentro l’immaginario del poeta, della sua «reazione» alle
sollecitudini esterne, un modo di guardarsi dentro e di guardare la realtà nella
quale si trova immerso.
La poesia di Zinna, fin
dalle origini, ma soprattutto da «Sàgana» in poi passando per «Abbandonare
Troia», è la doppia metafora del viaggio all’interno della propria anima e del
mondo; la metafora di una «fuga» continua, ma anche di un continuo ritornare sui
luoghi della
memoria e del vivere
quotidiano, quasi che invisibili fili elastici imprimano alla palla di segatura
della vita un impulso e un moto senza scampo.
Il mito dell’isola, non
come presenza geografica, ma come condizione dalla quale ogni ten-tativo di fuga
è impossibile, ritorna ossessivo e lacerante, quasi a marcare l’inevitabilità
degli accadimenti. «Si vive | pure qui – in ogni angolo di mondo si distillano
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giorni – qui basta uno sguardo partecipe una pura | intenzione e non ti manca
cuore. E chi parte | è tiranno come chi sempre ha logorato il sud». Ecco che
allora la metafora della casa arca di salvezza (casarca appunto) è nello stesso
tempo mezzo di viaggio e conoscenza nonché agglomerato di possibili e infinite
esperienze, diventa uno dei tanti luoghi dove il vivere sia accettabile;
sollecitando, nelle proiezioni della memoria, quelle risposte definitive che
l’uomo sempre si aspetta dalla vita.
Le notazioni culte che
marcano i versi e ne determinano lo svolgimento e lo scopo, non sono mai
d’impaccio, anzi servono spesso a quel necessario rafforzamento, a quella presa
di posizione anche là dove, come nella parte più estemporanea «Polaroid»,
parrebbero meno appropriate. Anzi, è proprio in questa parte, dove lo spirito
caustico di Zinna, sposato a quel sottile humour di cui sono sempre conditi i
suoi versi, che riesce a produrre una delle miscele più deflagranti e
impertinenti, arrivando a dimostrare, con aria giocosa, quante orribili verità
si possono dire con raffinato virtuosismo.
L’itinerario dei giorni e
delle occasioni seguito dalla poesia di Lucio Zinna lo porta anche là dove non
dovrebbe (o non vorrebbe?) arrivare; all’emissione di quel giudizio morale, come
in «fìaccolate-contro» che balza vivo e pungente dalla sostanza delle cose più
che dai comportamenti degli uomini.
Al fondo resta però sempre
l’illimitata fiducia nell’uomo, che riesce a manifestarsi, anche
nell’apparente pessimismo, come
«ottimismo della volontà». L’isola, metafora di una gabbia
poetica, ora non è più una
prigione; ma la sterminata visione su orizzonti che ormai hanno rotto qualsiasi
barriera regionalistica.
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Recensione |
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