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Due passi dall’inferno, con un occhio al paradiso

L’inferno è spesso associato al mondo delle ombre. L’ombra è un’assenza di luce. E’ la luce nascosta, impedita da un ostacolo e, questo ostacolo, spesso, è la nostra coscienza, la consapevolezza di essere finiti. L’inferno di Raskolnikov in “Delitto e castigo” di Dostoevskij sta proprio nella consapevolezza della propria colpa, nel non essere in pace con la propria coscienza.

In questo senso, vivere l’inferno è anche un atto di conoscenza, la consapevolezza di aver commesso il male e, questo porta ad uno stato di prostrazione, come dice Rondi in un passaggio del suo romanzo: “allora volevo sparire, dissolvermi nel nulla, come se non fossi mai esistito, eliminare ogni traccia della mia vita, stendere una mano di bianco sul passato” (p.76). E’ quella del personaggio di “Due passi all’inferno, con un occhio al paradiso”, una condizione come quella degli uomini filiformi di Giacometti, che camminano senza meta scarnificati, dolenti, una condizione esistenziale spesso scandagliata nella letteratura del Novecento.

Ma questo sentirsi indegni, questa discesa agli inferi, questa condizione dell’essere inappropriati, può portare al bisogno di rinascita, di espiazione. Ancora Rondi: “non sa ancora che ho infinite risorse, che sono morto e risorto più volte, attraverso la morte che s’è insinuata nel profondo: la mia morte è eterna, ma genera continue rinascite, rigurgita infiniti pensieri” (p.108). L’artista protagonista è come nella poesia di Baudelaire un albatro, che quando è in volo è bellissimo e, quando a terra goffo e pesante e schernito da tutti.

Solo che in questo romanzo l’artista albatro, nella prima parte del romanzo, è come se non potesse volare, come se si fosse rotto un’ala, come se fosse condannato a zampettare goffo e ingombrante con il solo ricordo del volo. L’albatro in terra, continuamente umiliato dalla propria inadeguatezza, trova nelle donne, nel tentativo disperato di trovare amore e conforto, amore che nel romanzo è sempre un poco ambiguo, fatto di tradimenti e di seduzioni che si ripetono con più donne, rapporti di gelosie continue, rapporti che sembrano sognati, sublimati dal reale, trova un conforto che tuttavia non scalda, ma lascia il protagonista costantemente di fronte al vuoto della sua esistenza, che lascia l’albatro zoppicante di fronte allo specchio, quello del fallito che non trova conforto, che desolato dice: “poter sempre dire che una volta eravamo qualcuno, o forse ci illudevamo di essere qualcosa” (p.126).

La colpa del protagonista è puramente esistenziale. Non ha ucciso nessuno o commesso alcun reato, è una condizione dell’anima e, forse proprio per questo riesce a ritrarre una condizione umana propria della modernità, che accanto alle glorie del progresso, e in sintonia con molti autori che sottolineano come spesso la vita sia dolore, da Leopardi a Schopenhauer fino a Cioran. Il peccato originale è essere nati. Come si esce da questa condizione? Rondi tra le righe di questo romanzo trova una soluzione: l’ironia e la compagnia allegra con persone nella stessa condizione di derelitti. Così dice di incontrare una formica che ride di lui, o una vespa che sghignazza della sua miseria, o della bertuccia che gli fa le moine in fondo alla strada. Così, sempre con ironia, descrive il nonno Cèco, con il naso allungato e la sua indole di gran bevitore, o “il Grinta”, già alticcio di primo mattino, un ometto mingherlino che sembrava stare in piedi per miracolo, o il Girolamo, l’addetto alle pompe funebri, che aveva il difetto di balbettare.

Il percorso ironico lo porta infine in un viaggio all’inferno dove si scopre che l’hanno mandato per sbaglio, ma intanto lui è intento a pentirsi: “in questo mio generale pentimento rientrava anche il dispiacere di aver fatto razzia di melanzane e pompelmi nel momento meno opportuno” (p.181). Se fosse un pittore Rondi sarebbe un ritrattista seicentesco di pitocchi, di miserabili in abiti sgualciti che diventano improvvisamente i soggetti privilegiati della rappresentazione, al posto dei Re, dei generali, dei nobili. I pitocchi, povera gente ai margini, ma nobili nel condividere con tutti gli umani, ricchi o poveri, l’esistenza tribolata su questa terra, in questo percorso di colpa e di pentimento, di inferno, purgatorio, paradiso, se possibile, dove: “in certi momenti di abbandono in questa storia di felicità surrogata, pensavo al completo distacco da tutte le mie miserie: stare sospeso a mezz’aria, senza più grattacapi, con la trepida carezza del vento che mi faceva venire in mente un luogo defilato, dove la malvagità non sarebbe riuscita ad arrivare” (p.189), e ancora: “il paradiso avrebbe comunque i suoi vantaggi, come mantenere sempre pensieri positivi, lontani dalla malvagità dei soliti opportunisti” (p.198).

Recensione
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