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Indie occidentaliDinanzi alla lettura di Indie occidentali di Giancarlo Micheli (edito da Campanotto nel 2008), il lettore meno avvertito, meno disposto a cercare una via d’intesa con la narrazione del viareggino, coglie il dato forse più sensibile, il momento empatico dello scrittore e la sua traduzione in pagina scritta: scrivendo, Micheli abita il mondo di cui scrive. E la scrittura narrativa testimonia a specchio l’esito letterario di una mimesi del vissuto romanzesco.
Secondo la terminologia di un’embrionale sottocultura di strada, che allora principiava a trovare accoglienza e ordinamento nelle pionieristiche ricerche sociologiche, erano hobos, lavoratori occasionali e nomadi, nascendo forse quel nome dall’appellazione “ho, boy”, che, tra quanti avevano trovato impiego nella costruzione delle ferrovie dell’ovest, si levava a sovrastare il metallico clangore dei convogli in transito; oppure nasceva dal lemma rurale “hoeboy”, ragazzo con la zappa. Fatto sta che l’anima di colui che meritava quell’epiteto era sospesa in un disagevole limbo tra la campagna e la città, in una terra di nessuno dalla quale era facile perdersi in un anonimo torpore o in una violenta dissolutezza. Questo degli hobos non è il solo mondo sottoproletario, Micheli menziona i tramps, i bums, forme cosiddette sub–sociali che identificano al contempo il primo piano e lo sfondo, il proscenio e la scena in prospettiva della parte newyorchese di Indie occidentali. Non è difficile immaginare l’esistenza – come potrebbe scriverne Antelme – di un vero e proprio universo concentrazionario popolato dalla ripetizione di un unico modello d’umanità: qualcosa di vicino al «musulmänner» hitleriano o al «dochodjaga» staliniano. L’elemento preliminare chiamato invece a distinguere la qualità dello sguardo gettato da Micheli sul mondo della sua creazione non è esornativo. Lo sguardo è appunto una qualità della visione. E tale determinazione, tradotta nella pagina letteraria, si rigenera in un effetto di profondità. Il mezzo attraverso cui la profondità definisce l’abisso aperto su ogni singola pagina di Indie occidentali è fornito dalla descrizione. Non si è però dinanzi alla descrizione intesa come sterile ed esangue disamina di personaggi–figure, ambienti bidimensionali (ad esempio, come non è la pullulante umanità del bar di Aurelio a New York) o dialoghi monocordi, né dinanzi a clichages. Il momento della differenza – perché Indie occidentali è un romanzo di differenza – per il narratore sta nella capacità di inabissarsi, di sprofondare, di cercare le vie prospettiche della realtà, in questo camminando lungo un sentiero di penetrazione dell’umano riflesso nella lingua quasi nella forma di un amplesso orgasmico. A tale riguardo, la coscienza sociologica del narratore per la bassavita non si traduce soltanto nella capacità di estrarre perfetti discorsi diretti dal mondo linguistico di un personaggio indimenticabile come Venanzio, la coscienza sociologica del narratore informa e determina soprattutto un universo – ad esempio, tra il Sor Clemente, la sociologa marxiana Sophonisba, il fidanzato economista Jack – che in maniera differente vive il mondo sottoproletario. Sono passioni, vocazioni umane, talenti e attitudini esercitate per una filantropia diretta e ambigua (sor Clemente), oppure mediate, secondo un registro indiretto, dallo studio delle cause sull’impoverimento sociale, ovvero rivolte all’analisi del consumismo attraverso le «formulazioni teoriche del valore» (Jack), o ancora mediante la pura passione scientifica per l’analisi sociologica (Sophonisba). Del sangue del povero – per utilizzare un celebre titolo di Léon Bloy – sono macchiati tutti i personaggi gravitanti intorno ad Aurelio. La narrazione di Indie occidentali è una germinazione a tempo, o meglio la sagace gestione del tempo narrativo pone il narratore nella condizione di dilatare l’attesa, in certa maniera metafisica, perché il romanzo giunga a compiersi in un evento–madre. La vita di Erminia e Aurelio, della loro piccola Eugenia, il lavoro dell’uomo al bar, il ruolo di borghese benefattore di Sor Clemente, la ventura di miseria di Venanzio, l’apice di brillantezza intellettuale di Sophonisba, l’intreccio tra povertà e benessere, ozio e lavoro, odio e amore, determina una depistante andatura romanzesca. Il lettore è involontario complice di una narrazione all’apparenza ateleologica ma è l’orchestrazione del narratore a disseminare il narrato di tracce, segni, indizi da cui è possibile decrittare appunto l’attesa per un evento–madre, il primo episodio clou del romanzo, l’incendio dell’abitazione di Aurelio e Erminia, con la morte della madre di lei, e la dolosa esplosione nel bar. L’episodio fotografa, la metafora valesse a significarlo, il corso di un braccio di fiume aperto ad estuario sul mare. Nella fuga da New York per Chicago, la storia di Aurelio e Erminia inscrive nome e destino tra l’apocalisse e la speranza, inscrive il nome del destino entro una prospettiva tragica. Un segno del tragico è il coatto regresso di classe, il degrado destinale dalla middle class al proletariato, la via all’epopea del ricominciamento. Il passaggio dai (relativi) agi di New York ai disagi di Chicago, nella storia di Erminia e Aurelio istituisce un esemplare campo d’azione, forse anche un’implicita verifica attitudinale, per il narratore. È il momento preliminare affinché il narratore, creata la condizione, possa esercitare il proprio pensiero politico. Il plasma marxista che come un fluido irrora il romanzo non delinea il ritratto a distanza di un’umanità veduta de lonh. Indie occidentali, e lo stile che informa l’organizzazione narrativa, è un congegno teso a creare le circostanze narrative reali, la vita dei personaggi, affinché il narratore componga un discorso politico. La fedeltà di Micheli al destino di Erminia e Aurelio istituisce quindi un paradigma, indica una rotta al romanzo, da un lato espresso dal momento tragico (in famiglia), dall’altro originato dal momento politico (il sindacato). Ma il tragico e il politico non definiscono un modello particolare riguardante l’immanenza esistenziale nella vita di Erminia e Aurelio. È costrutto, linea di destino umano, categoria universale, meglio ancora è – attraverso la vicenda dei migranti italiani e la storia americana del primo decennio del Novecento – la ricerca di cause originarie, lo studio archeologico di fonti capaci di illuminare, in prospettiva, nientemeno che la storia futura. Una digressione anomala ma eloquente introduce per così dire l’implicito di Indie occidentali, l’elemento di ricostruzione storico–politica, una vera e propria apertura alla genealogia tragica quale causa originaria della condizione umana occidentale contemporanea. Lo rivela un empito metatestuale, veramente la parresìa così sincera come drammaticamente lucida del narratore: Lo stato delle cose adesso sussistenti è la virtualizzazione della società, un dilagare panico di moventi individuali tanto artificiosi quanto efficaci, impersonali e disanimati; è il dominio dell’inesistente corroborato nei fatti della vita fino alla verità assoluta ed ubiqua del codice di tutte le disciplinate liturgie, politiche, economiche, esistenziali, psichiche, religiose, relativistiche ciascuna imposta dal consenso di illusori adepti. Questa pur sintetica digressione serva a chiarire il senso della ricerca nel passato attraverso la presente narrazione. Mi propongo di districare il roveto dei fatti a partire dalle radici reali di un’esistenza possibile, portatrice di una sua essenziale ricchezza di gioia e di dolore, unita alla catena di una durevole trama, i cui anelli non siano deboli e forti, bensì irripetibili e originali, come in verità sono stati ogniqualvolta l’uomo è sorto all’essere nelle sue azioni. Il romanzo si confessa. Anche l’autore di Indie occidentali. Il passato è cardine al presente, e fonte di comprensione culturale. Tuttavia – a leggere del destino di Erminia e Aurelio dopo il trasferimento da Chicago a Paterson –, il presente, ovviamente il presente storico, contraddice il passato romanzesco. O meglio: il presente storico (la «virtualizzazione della società», il «dilagare panico di moventi individuali tanto artificiosi quanto efficaci, impersonali e disanimati», il «dominio dell’inesistente») è solo una pallida corruzione dell’epopea sacrificale dei nostri padri, le «radici reali» di un mondo in cui l’«uomo è sorto all’essere nelle sue azioni». Cosa è il «dominio dell’inesistente» se non la marea montante del fittizio con cui la lingua del capitale opera per la conquista del planetario, per perpetuare – come vorrebbe Cesarano – il dominio totale (e totalitario) sull’essere? Al tempo della vita a Paterson, il narratore pone immediatamente la condizione preliminare di un clima da lotta di classe: da un lato, il nuovo padrone, Catholina, dall’altro il nuovo operaio, Aurelio, al centro l’esperienza sindacale di Aurelio a Chicago e la comune a casa dell’ospitante: Pietro Botto. Se Indie occidentali compone un’operazione politico–culturale (gramsciana?) tra passato e presente, la dialettica interstorica, nella radice nostalgica di Micheli, rivela la sostanza di un «grande rifiuto» (così avrebbe forse scritto Marcuse) scagliato sul presente. La storia, la vita umana, la passione e il lavoro, la lotta di classe, il socialismo reale, figurano il linguaggio di una realtà (e di un’occasione) all’apparenza perduta. Indie occidentali diviene quindi o si rivela quale documento di una traslata autobiografia dell’interiore, la testimonianza del segreto dolore per un mondo, il mondo umanissimo del romanzo, in cui Micheli sublima con accanita passione un destino che non è venuto, una mancata promessa. Lo sciopero alla Lambert&Dexter Mill di Catholina, per un sognatore come Aurelio o per il capitano Burns, per la figlia di Botto, lo splendore e la poesia di Olga, definisce lo scenario aperto di una possibilità: sovvertire con la lotta l’ordine del mondo, il mondo del capitale, del padrone, della fabbrica, dello sfruttamento. E non si tratta di millenarismo marxiano, è struggle for revolution, se è possibile coniare una nuova nozione alla zecca del Capitale. Leggere il presente (senza manifestarlo) veicolando il passato, per Micheli significa anche donare un giudizio critico sulla Storia, non sulla piccola storia di un evento circoscritto o di un fenomeno isolato, bensì il giudizio critico su un tema universale qual è la dialettica tra il capitale e il mondo del lavoro e dei lavoratori. Ma la rivoluzione, l’azione collettiva che rovescia un ordine per impiantarne un altro, il sovvertimento del potere (per rinunciare al potere, non per rilevarlo), è o appare un mito resistente, appunto una dimensione scritta ma anche totalmente sognata. La decisione dei rivoluzionarî, diretti nella regia da John Reed, di rappresentare in forma di spettacolo teatrale la rivoluzione sul prato della casa di Pietro Botto, in sé definisce una proteiforme valenza del significato e della prassi rivoluzionaria. L’exit di Indie occidentali, nella soluzione di rappresentare la rivoluzione al Madison Square Garden identifica poi due polarità: la sua sublimazione storica nella creazione teatrale, oppure l’istituzione di una maestosa metafora in cui la storia della rivoluzione vive nella trasparenza dello scacco, dove apocalisse e speranza incrociano il tragico. La rivoluzione vive cioè nell’impossibilità, come per un’esperienza da tremendum, di narrarne le fasi culminanti, quasi a voler dichiarare – nella magistrale litote della rappresentazione – che esiste un di là anche della sublimazione o della metafora. Che è la vita futura del simbolo rivoluzionario, la rivoluzione resistente nella costruzione, per opera delle nuove generazioni (il teatro fatto costruire da Eugenia, la figlia di Erminia e Aurelio) in cui vibra il più autentico testimone del passato raccolto nel presente.Università degli Studi di Bologna |
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