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Lucio Zinna è un signore. Si tratterebbe di una frase scerpata, trattandosi di un libro di poesia, non fosse che la lettura del testo mi porta ad associare con la sua figura, per come raramente mi è capitato di frequentarla in luoghi diversi e lontani dalla sua isola siciliana, ove da qualche tempo vive stanziale a Bagheria. Viaggiando in trasferta, l’ho visto sempre accompagnato dalla moglie, donna imperiosamente dolce di nome fascinoso, Elide, che è anche il nome di mia madre. La circostanza, per quanto fortuita, ha condizionato una mia speciale affettuosa ammirazione per la signora Zinna, che tale sentimento già merita per qualità sue. Nello stesso tempo, ha condizionato un sentire del tutto irrazionale fra Lucio e me, come fossimo entrambi per diversa maniera partecipi di un nome appartenente alla mitologia, all’arcaica e quindi affettiva storia dell’uomo. La signorilità di Zinna, sul piano comportamentale, si esprimeva attraverso una circostanza precisa: in qualunque luogo si fosse, lontani dalla Sicilia, quello che si muo-veva con sicurezza indigena era lui, tutti gli altri erano gli ospiti. Questo succede a chi ha pacifica consapevolezza di sé. Credo che l’attributo abbia riflesso sulla scrittura di Zinna, che ha la stessa eleganza di passo e naturalezza, senza mai avvertire la necessità di pose o forzature narcisistiche. Non si può dire che Zinna sia, come Sciascia diceva di sé, siciliano con difficoltà. Zinna sarebbe con difficoltà romano o veneto o bergamasco o ligure, per la ragione precisa che Zinna è unicamente e semplicemente se stesso. Differentemente dalla moltitudine di siciliani con difficoltà che abbandonano l’isola (abbandonano Troia) continuando ad amarla, Zinna continua ad amare l’isola abbandonata solo per via metaforica (scrive, nel 1986: Abbandonare Troia). La fuga era, già allora, avventura del pensiero, resa possibile dal fatto che sentimento e ragione mantenevano radici nell’amore per la terra fisicamente mai abbandonata. Soltanto chi è stanziale in un luogo ha l’impressione, muovendosi, d’essere viaggiatore a diporto da una sede certa, e non di fuggire.
A esergo e dedica, il volume reca: A Elide | alla nostra | tenda indiana. Nel tragitto, attraversando cieli irrealmente cromati dal celeste livido all’oro, Zinna si avvale di una simbologia insieme domestica ed epica: è domestica la nominazione della squaw cui la tenda è dedicata, evidentemente compagna di viaggio; ma la tenda comanche appartiene al nostro immaginario epico; ed è in fondo dichiarazione programmatica, perché non viene abbandonata ma invece accompagna nel viaggio come la casa che la chiocciola tenace avanzando si porta con sé. Infatti la tenda, come il carrozzone dei giostrai, offre un vantaggio indiscutibile: permette la costanza di un ambiente domestico, nonostante il variare dei paesaggi attraversati. Il viaggio di Zinna non ha meta finita, non è “moto a luogo”: nel corso del libro si diradano via via i paesaggi orizzontali, segnati a mezz’aria da cieli ocra o rosati o bizantini, per la rivelazione di un viaggio verticale, che è quello della coscienza di sé (in interiore homine) rispetto alla varietà dei fenomeni percepiti. I quali sono relazionali, oggettivati dalla memoria e trasfigurati dal sentimento: il bambino trafitto da una forma rara di leucemia (Canzone triste per un piccolo indifeso); zio Turiddu, fratello della mamma, con l’aula della scuola a lui dedicata a merito della morte dissanguata sul campo della Grande Guerra (Per zio Turiddu); una suora dolce e caparbia (Per Maria Eufrasia Pelletier), che portò lei sì il proprio viaggio a metà fra la terra e il pascolo celeste della misericordia: la tua arma vincente era racchiusa | in una guaina banale (“amore” ‘figurarsi |’la novità) e la tua strada sconfinò | nei campi del salmista in pascoli smeraldo | in cui si dice (con canto sommerso) | non ci sia nulla che possa mancare. Il saggio pellerossa guarda dalla tenda il paesaggio, e avverte che manca per ogni dove la libera corsa dei bisonti. Se quelli mancano, sono invece compagni di viaggio gli animali domestici: un quartetto | di compagni di viaggio tre scesi − | uno dopo l’altro − alle loro stazioni (Per quattro gatti). Zinna e viaggiatore smagato, ovvero eclettico e perfino animalista, altrimenti che pellerossa sarebbe, i quattro gatti sono simbologia di una diversa e leggera arte di affrontare la vita, almeno rispetto all’eroica gravezza di zio Turiddu e suor Pelletier. Raffaele soriano, Leo persiano, Flint malato e cieco di razza insicura e però diritto di coda, sono stati e sono maestri della felina virtù dell’adattamento, ciascuno padrone non invasivo del proprio spazio di tenda. Ove rimane Clotilde, lincetta bianca e grigia, a sua volta gelosa della privacy e però maestra nell’arte della riconoscenza. Zinna racconta del proprio viaggio irresoluto, fra terra e cielo, fra percezione e desiderio, con esatta e convinta voce introspettiva. C’è da dire che, all’interno della tenda indiana, la dolce e determinata la squaw Elide garantisce un ottimo impianto di riscaldamento. |
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