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Figure di animali nella poesia francese

Nella letteratura francese del XVII secolo, splendida, in particolare, tra il 1660 e il 1680, ci attraggono pur sempre le celebri “Favole” di Jean de La Fontaine ( 1621-1695 ): “Fables choisies et mises in vers” ( in tre raccolte, dal 1668 al 1694 ), desunte dalla favolistica classica, medioevale e orientale, ma presentate con arguzia e sensibilità nuove. Ed ecco gli apologhi istruttivi, moraleggianti, con protagonisti gli animali“parlanti”, divenuti popolari e proverbiali, e quindi a tutti ben noti; tra questi c’è, ad esempio, “la mosca del cocchio”, nel linguaggio familiare, sinonimo di factotum.

Nel sec. XVIII troviamo Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon ( 1707-1788 ), che fu un osservatore paziente ed appassionato della natura, nei suoi diversi aspetti, di cui trattò nell’imponente “Histoire naturelle”, composta da 36 volumi. In un secolo povero di sentimenti poetici, come il Settecento, certune pagine di Buffon, pur in prosa, della poesia hanno l’afflato. Tra queste devono annoverarsi quelle dedicate ad alcune bestie, di cui il naturalista illustra sia le caratteristiche fisiche sia le qualità, come il cavallo, l’asino, il bue o il cigno e la capinera … Riguardo al cavallo, Buffon ha osservato che il magnifico animale “ sembra voler superare la sua condizione di quadrupede, alzando la testa: in questo nobile atteggiamento, esso guarda l’uomo a fronte a fronte.”

Nell’Ottocento alcuni poeti hanno messo in risalto ben distinte figure di animali, rivestendole di un preciso significato simbolico.

E’ ben noto, a tal riguardo, quello che assume l’àlbatro1 per Charles Baudelaire (1821-1867), poiché egli ha fatto di questo grande uccello marino, di questo re dell’azzurro, l’immagine del Poeta.

L’albatro, quando vola in alto, con le lunghe ali bianche sfida i nembi; ma, una volta catturato e posto sulla tolda d’un bastimento, diventa goffo e fiacco, ed è oggetto di derisione da parte dei marinai.

Similmente il Poeta, nei momenti della creazione artistica, si astrae decisamente dalla realtà d’ogni giorno; ma, quando è costretto a ritornarvi, si sente, in mezzo agli schiamazzi, un esiliato, un escluso, e anch’egli viene persino deriso, mentre “le ali da gigante gli impacciano il cammino”.

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Alfred De Vigny (1797-1863) ha visto nel lupo un esempio della sua rigida concezione stoica della vita.

Era nato a Loches nella Turena. Dopo una breve esperienza di vita militare, a Parigi frequentò i circoli romantici. Nel 1826 pubblicò i “Poemi antichi e moderni”; nel 1832 affrontò il tema del disagio e della solitudine del poeta nella società, nel romanzo “Stello”.

Ed egli fu un letterato appartato. Trascorse gli ultimi anni della vita tra Parigi e il suo castello di Maine-Giraud, chiudendosi in un dignitoso e distaccato atteggiamento.

E proprio nei dintorni del castello si svolge la scena – propria d’altri tempi – descritta nella lunga poesia dal titolo “La morte del lupo”.2

Alcuni cacciatori, tra cui il poeta, avanzano tra la vegetazione, mentre nuvole fosche oscurano a tratti la luna. Nel silenzio s’ode soltanto lo stridìo d’una banderuola sulla torre.

Una volta scoperte le orme lasciate da una coppia di lupi e da due lupacchiotti, le bestie vengono abilmente accerchiate. Il lupo, fattosi avanti, afferra alla gola il cane più ardito; ma gli uomini gli si buttano addosso con i coltelli, tutti insieme. La bestia, alfine, giace stesa a terra; e “sdegnando sapere perché debba perire/ chiude gli occhi in silenzio e si lascia morire”, così, senza un lamento.

La violenta e cruenta scena ha lasciato i cacciatori profondamente turbati.

Il poeta, in particolare, reclinando la fronte stanca, indugia a pensare …

L’ultimo sguardo del lupo morente gli è come sceso in fondo al cuore …

Il “selvaggio migratore” pareva volesse dirgli: “Impegnati a forgiare un carattere forte, tanto da raggiungere una fermezza stoica, quella stessa con la quale, io, ho affrontato la lotta ìmpari e la morte … Piangere, pregare e gemere è sempre cosa vile … Sopporta virilmente la vita con tutti i suoi dolori … ed in silenzio muori!“.

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La poesia dal titolo “La vache”3 di Victor Hugo (1802-1885) ci porta in un sereno ambiente agreste.

Hugo nacque a Besancon (nella Franca Contea); suo padre era un ufficiale napoleonico.

Il dramma “Cromwell” (1827) e la tragedia “Ernani” (1830) lo fecero riconoscere come capo della scuola romantica francese.               

Figlio del Romanticismo, Hugo ne espresse le grandi idealità; identificò la figura del poeta con quella del vate assertore della libertà dell’arte e dell’uomo. Genio proteiforme, cantò gesta eroiche con alti toni epici; ma ritrasse, nei romanzi, anche l’umile realtà; si abbandonò alla delicatezza della lirica.

Con la poesia “ La vache”, Hugo ci conduce, dunque, presso una bianca cascina, simile a tante altre, in cui razzolano sull’aia le numerose galline, mentre il gallo, dal piumaggio variopinto che splende al sole, manda il suo canto.

Ma l’attenzione del poeta è attirata da una vacca dal mantello fulvo: essa gli appare, nella sua salda corporatura, imponente.
Lì dattorno ruzzano alcuni bambini, dai più piccoli ai più grandicelli; hanno i capelli biondi scompigliati, e sembrano di quelli piuttosto birichini.

Costoro, approfittando dell’assenza della massaia, succhiano, tutti ridenti, e a turno, l’abbondante latte chiaro e saporito, che fanno fluire dalle gonfie mammelle.

Solida e mite, tuttavia, la mucca, non dà alcun segno di insofferenza: pigramente, distrattamente rivolge altrove le brune pupille.
La vivace scena reale ha suggerito ad Hugo una grandiosa visione fantastica.

Egli si è raffigurato la Natura, che offre con generosità le sue inesauribili poppe ai tanti poeti, artisti, filosofi.
Questi ricercano emozioni, ispirazioni, riflessioni, per tramutarle in loro nutrimento, per farne “sangue ed anima”; per appagare il cuore avido della luce, dei colori, della bellezza …

E la Natura, che è come assalita da tutti quegli “affamati”, non si scompone affatto, infinitamente indulgente; rimane ognora estatica …

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Rimaniamo in un ambiente di campagna con la poesia “Le vieux baudet” di Maurice Rollinat (1864-1903).

Questi, a Parigi, godeva di un ottimo successo: i cabaret se lo contendevano per le sue estrose esibizioni.

Recitava le poesie, accompagnandole con la musica da lui eseguita al pianoforte.

Ma Rollinat si ritirò, per l’ultimo ventennio della sua esistenza, nella regione di Berry, nella Francia centrale.

Il contatto con la natura e con la vita semplice riuscì ad attenuare il pessimismo che egli aveva manifestato nelle sue opere: “Les névroses” (1883) e “L’abîme” (1886).

Si intitola “Le livre de la nature” (1893) uno degli ultimi libri del Nostro, che ritorna volentieri ad episodi della fanciullezza, come quello rievocato nella poesia di cui s’è detto.

Rollinat ricorda come, da ragazzino, era ben contento se lo mandavano a cercare – per riportarlo nella stalla – un asino che pascolava tra i cardi, in fondo a un prato.

La bestia mostrava evidenti i segni della vecchiaia; ma, quando rivedeva il ragazzo, si metteva a ragliare e drizzava le orecchie: ricordava, certo, le corse fatte nei giorni precedenti.

Ed infatti Rollinat racconta che, ogni volta, gli montava in groppa, mettendosi a cavalcioni; e l’asino cominciava a correre.
Talvolta egli avrebbe voluto scendere, poiché faceva fatica a reggersi così, senza sella, ed anche per non sentire a lungo tutta la ruvidezza dei fianchi dell’asino; ma l’animale, come fosse fiero dei suoi garretti ringiovaniti, mandava ragli e teneva ritte le orecchie, sino a raggiungere la stalla.

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E tanti asini troviamo in una poesia che ha il singolare titolo di “Preghiera di andare in Paradiso con gli asini”4: ne è autore Francis Jammes (1868-1938 ).

Questi nacque a Orthes, cittadina dei Bassi Pirenei. Dal 1896 pubblicò poesie sul “ Mercure de France” e nel 1898 uscì il suo libro “De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir”, che venne favorevolmente accolto, poiché molti stavano abbandonando il cerebralismo e le raffinatezze formali dei simbolisti, in vista di un ritorno al realismo lirico.

E Jammes si presentava come poeta sincero, spontaneo nel riscoprire la campagna, l’ambiente provinciale e quello casalingo, cioè i valori tradizionali d’un piccolo mondo.

Egli stesso diceva: “Per essere vero, il mio cuore parla come un fanciullo”; e A. Gide scrisse: “Jammes ha la più nobile audacia: quella della semplicità “.

Il Nostro si convertì al cattolicesimo nel 1905 e si rivelò capace di apprezzare le più belle virtù francescane; ma, ancor prima della conversione ufficiale, egli aveva un’anima naturaliter cristiana.

Nella poesia di cui s’è detto, Jammes, dunque, prega il Signore di poter morire nella stagione in cui la campagna è più luminosa, nonché di poter scegliere, lui stesso, “ per quel grande viaggio”, la strada che conduce al “ Paradiso splendido di stelle”…

Ma non vuole andare da solo; intende, prima, radunare un gran numero di asini che lo accompagnino.

Conosciamo bene l’enorme lavoro sopportato, prima dell’avvento della motorizzazione, da questi animali, a favore dell’uomo.

Ma Jammes ha amato gli asini soprattutto per le loro qualità: per la capacità di sopportazione, l’umiltà, la povertà …

Il poeta ha continuato la sua preghiera, dicendo di voler arrivare al cospetto del Signore, seguìto da asini che portano, appese ai fianchi, ceste pesanti; da quelli “ che trascinano i carri dei funamboli” o che tirano carrette o che hanno una grossa soma sulla groppa; “ da asine gonfie come otri, il passo rotto”; da asini coperti con un misero panno, messo loro addosso per coprire le piaghe purulente, tali da attirare nugoli di mosche ostinate …

“Mio Dio, fate che venga a voi con gli asini”, è la supplica ripetuta da Jammes.

Il poeta immagina che, chinandosi sui freschi ruscelli del Paradiso, gli asini vi vedranno specchiata, come nella chiarità dell’Amore eterno, “l’umile e dolce povertà “ che li distinse sulla terra.

E Jammes prega che, in quella santa dimora, avvenga così anche per lui.

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Profondo senso di pietà per il cavallo di vettura di piazza5, ha manifestato Edmond Harancourt.

Per un cavallo costretto a percorrere le strade sia di giorno sia di notte, con qualsiasi tempo: a sudare sotto il sole rovente o ad inzupparsi sotto gli scrosci di pioggia; a scivolare su lastre di ghiaccio …

Il poeta l’ha osservato tendere il muso nello sforzo, soffiando dalle narici screpolate dal vento, mentre la criniera di duri peli gli sbatte sul lungo collo smagrito.

I finimenti, a lungo andare, logorano la pelle del cavallo; il morso produce, dentro la sua bocca, un tintinnare continuo che accompagna la bestia, come fosse il rintocco funebre suonato proprio per lui.

Ma in un animale così sofferente, il poeta ha scoperto, in quei grandi occhi rotondi, una superstite dolcezza.

Il cavallo, forse, nella sua testa, che tiene abbassata, cerca di dimenticare il dolore, e di perdonare il male che gli vien fatto.
La gente, lungo le strade, non fa certamente caso al cavallo che passa, a questo eroe fiaccato dalla fatica; ma, per il poeta, esso è “sublime”, da considerare un santo, se Dio l’avesse fatto uomo!

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Tra Ottocento e Novecento troviamo Jules Renard (1864-1910, romanziere noto soprattutto quale autore di “Pel di carota” (1894). Nell’opera “Storie naturali”( pubblicata nel 1896 e nel 1904 ) egli descrive, in una serie di bozzetti, il mondo animale con colorita e naturale semplicità; il libro è in prosa, ma con accenti di suggestiva poesia. Ci si presenta una natura umanizzata, ritratta con acuto e spesso sorridente spirito di osservazione, e con squisita sensibilità d’animo, come avviene, ad esempio, nel “ritratto” del bruco, del grillo, delle rane … A proposito del rospo, con frasi concise e ritmate, Renard scrive:

“Nato da una pietra, vive sotto una pietra e vi si scaverà la tomba.

Vado a visitarlo spesso, e ogni volta che alzo la pietra, ho paura di ritrovarlo e paura che non vi sia più.

C’è. Nascosto nella tana asciutta, pulita, stretta, l’occupa intera, gonfio come la borsa di un avaro.

Se la pioggia lo fa uscire, viene da me in quattro salti goffi e mi guarda con gli occhi arrossati.

Se il mondo ingiusto lo tratta da lebbroso, io non temo di avvicinare al suo viso il mio viso d’uomo.

A un po’ per volta vincerò quel tanto di ribrezzo che mi resta ancora, e ti accarezzerò con la mano, o rospo!”6

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Nel 1911 Guillaume Apollinaire (1880-1918) pubblicò “Le Bestaire ou Cortège d’Orphée”.

“Il Bestiario o Corteggio d’Orfeo” è costituito, in gran parte, da una serie di quartine, in cui l’autore presenta animali sia domestici sia selvatici. L’idea fu forse suggerita ad Apollinaire, che aveva consuetudine con la biblioteca, dal libro “Animali parlanti” dell’abate italiano Giambattista Casti (1724-1803), scrittore giocoso e satirico.7

“Il Bestiario” fu definito dallo stesso Apollinaire, “un divertimento poetico”, ma presenta intenti allegorici, per cui da esso affiorano svariati temi. Alcuni si riferiscono alla vita del poeta, e, in particolare, alle sue considerazioni sulla creazione poetica; altre riflessioni, pur rapide, sono di più ampia portata.

Nei cinque versi che hanno come titolo “Il gatto”, si può forse cogliere il segreto desiderio del giovane bohémien di avere una casa, con “une femme ayant sa raison”, con una moglie giudiziosa; una casa frequentata, in ogni stagione, dagli inseparabili amici, e con gatto (uno di quei gatti già tanto cari a Baudelaire) “che passeggi fra i libri”.

Nella quartina dal titolo “Il topo”, il poeta esclama malinconicamente: “Dio mio! Avrò presto ventott’anni, / E mal vissuti, a gusto mio.” I topi diventano il simbolo del tempo che erode; “i topi del tempo” consumano, a poco a poco, ma inesorabilmente, l’esistenza umana.

1) La poesia “L’albatro” fa parte del gruppo “Spleen e ideale” de “I fiori del male” (1857).
2) Nell’opera (postuma, 1864) “Les destinées, poèmes philosophiques “ “I destini, poemi filosofici “
3) Nell’opera “Les voix intérieures” (1837).
4) E’ una delle “Quatorze prières” nell’opera “Le deuil des primevères”: “Quattordici preghiere” ne “Il lutto delle primule” (1901).
5) Nella poesia che si intitola, appunto, “Le cheval de fiacre” nell’opera “L’ âme nue” (1885).
6) Haraucourt nacque nel 1865 a Bourmont (Alta Marna); fu romanziere e drammaturgo; si distinse anche come poeta, dapprima romantico e parnassiano, poi con esiti originali. Altra sua opera di poesia “Esprit du mond”. Morì a Parigi nel 1941.
7) La traduz. è di Massimo Bontempelli
8) In “Apollinaire-Poesie” a cura di Renzo Paris Newton,1989

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