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Il concetto del ritorno
in Betteloni, Sinisgalli, Solmi, Villaroel, Onofri

Quanti poeti sono ritornati – col pensiero, o anche fisicamente, seppur in maniera fuggevole – alla casa e al luogo, in cui avevano trascorso l’infanzia, la fanciullezza… Molti di loro hanno manifestato il desiderio di voler recuperare qualcosa delle qualità dei teneri anni, di cui provavano il rimpianto; ad alcuni, invece, la visita ha procurato delusione, tristezza.

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Il veronese Vittorio Betteloni (1840-1910) aveva risentito, dapprima, dell’influsso di Aleardo Aleardi, ma poi reagì alle affettazioni proprie del tardo Romanticismo, volgendosi ad una scrittura più aderente alla realtà della vita. Egli stesso disse: “Io non so ispirarmi che ai piccoli soggetti della vita che vivo, e della vita che mi circonda”. Ed ebbe anche modi malinconici ed ironici, che sembrano preannunciare quelli dei crepuscolari.

Tutto questo si ritrova nel poemetto composto tra il 1870 e il ’77: “Piccolo mondo: idillio domestico” [Fa parte dei Nuovi versi, libro pubblicato nel 1880, con pref. del Carducci.].

Come dice Betteloni: “Dopo l’assenza di molt’anni al loco / feci ritorno dell’infanzia mia”. Tale luogo era la villa che i suoi avi, di origine terriera, possedevano da almeno due secoli sull’altura di Castelrotto, sovrastante la Valpolicella [Rinomata zona vitifera a NO di Verona.].

Il piccolo Vittorio vi aveva conosciuto “il buon nonno” e il suo microcosmo. Poi, a causa della separazione intervenuta tra i genitori, egli, affidato alla madre, sui sette anni, era stato mandato presso uno zio, un religioso che, a Como, dirigeva un collegio…

“Partii fanciullo e poco / men che adulto or venìa” prosegue il poeta, e pensa che ormai nessuno potrebbe riconoscerlo: ma, accorgendosi che due vecchi cipressi piegano verso di lui la sottile cima, ritiene sia un chiaro segno di saluto.

I due alberi – come spiega Betteloni – erano stati piantati presso il cancello “da non so quale de’ miei vecchi”, quasi come soldati ritti a guardia della casa; e lui, da bambino, andava a giocare proprio ai loro piedi.

Quante immagini risalgono alla mente del poeta…

Con piacere egli dipinge nitidi quadretti di quando, nella villa, le giornate erano occupate con “tranquille opere oneste”; queste, quale segno di una certa signorilità, comprendevano anche lo studio, e il libro “alle solinghe e lente / passeggiate compagno era sovente”. Era consuetudine che, in famiglia, almeno uno si facesse sacerdote; e Betteloni, tra parentesi, annota: “l’ultimo io stesso lo conobbi: è morto / l’ottimo vecchio appunto or fa vent’anni”…

Il tono dei versi rimane prosaico, bonario, quasi novellistico.

Il poeta ricorda in particolare, “i dolci autunni antichi”, che riportavano l’abbondante uccellagione; e le serate con la cena a base di polenta e di uccelli arrosto (la tipica “polenta co’ gli usei”…) cui si accompagnava il vino novello.

Ed ecco la gioconda vendemmia, con le ragazze che scendevano in lunga fila dal vigneto, barcollando un po’ a causa della cesta colma di grappoli; ma esse riempivano ugualmente l’aria di canti e di lieto schiamazzo.

Nel dopocena, la conversazione era spesso interrotta da fragorose risate; si eseguivano anche balli spontanei sull’aia, al chiaror della luna; ma “ognuno a mezza notte era a dormire” precisa Betteloni.

Vale ricordare le strofe dedicate ad Anna, campagnola adolescente, che affascinava col corpo “fine e molle” e con gli occhi verdi, pieni “di ingenue malizie e baleni”.

Pur essendo raffigurata come reale e viva, la giovinetta assume l’aspetto fantastico proprio della lontananza, quando, da ultimo, Betteloni la ritrae, al tramonto, nel campo, ritta sui solchi, e scrive: “In fiamme era ponente, / tu spiccavi sul cielo incandescente / come una visione”.

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Sebbene in tutt’altro clima letterario, anche Leonardo Sinisgalli (1908-1981) ha perseguito una poesia antiretorica, aderente al vissuto e alla autobiografia. Era nato a Montemurro (in prov. di Potenza), figlio di contadini. Come egli stesso ha riferito, suo padre, già per due volte emigrato in America, “fino all’ultimo ha lavorato e sudato” per la famiglia composta di cinque femmine e due maschi.

Il giovane Sinisgalli, come tanti altri del Sud, aveva abbandonato, nel 1926, il paese; aveva frequentato l’università a Roma, sino a laurearsi in ingegneria elettronica e industriale. Lavorò poi a Milano nel settore grafico e pubblicitario. Passata la guerra, risiedette a Roma, sempre impegnato quale esperto di pubblicità, ma presente negli ambienti artistici e culturali.

Egli ritornava, di tanto in tanto, nella casa dei genitori, con sempre viva la religione degli affetti e delle qualità semplici, schiette che vi aveva conosciuto; da queste derivano i richiami elegiaci ricorrenti nella sua poesia.

Nella breve lirica dal titolo “La vigna vecchia” [E tale titolo ha la raccolta pubblicata a Milano nel 1952.] Sinisgalli si rappresenta seduto per terra, accanto al pagliaio situato, appunto, nella “vigna vecchia”, cioè piantata da almeno trent’anni. Ci sono, vicino a lui, alcuni ragazzetti (i suoi nipoti) che strappano le noci dai rami bassi; poi, per prenderne il gheriglio, le schiacciano tra due pietre.

Il poeta li imita; ma bisogna che tolga, prima, le noci dal mallo, che è ricco di tannino. Così “si concia” le mani di acido verde; ma lo fa con compiacimento, spensierato, rivivendo certamente episodi della fanciullezza trascorsa tra i campi e le viuzze. E intanto si gode l’aria fresca che proviene dai folti rami.

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E non s’è dimenticato della sua terra, il reatino Sergio Solmi (1899-1981), saggista, acuto critico letterario, e anche poeta, a volte lucido e a volte sentimentale. Nella lirica intitolata proprio “Terra natia”, [Fa parte di Poesie Milano, 1950.] Solmi esprime la commozione di rivedersi, dopo anni di assenza, in mezzo al “chiaro paesaggio” della campagna che lo vide nascere e crescere. Il poeta sente di ritrovare la propria identità anche col mettersi in riga insieme con gli alberi in un filare, mentre ha la sensazione che un “benevolo specchio” di cielo rifletta, alfine, stabilmente la sua immagine sino ad allora “errante”.

Quando ormai non prova più l’ansietà di conseguire successo nella vita (“Finito il viaggio, spenti i lumi”) si propone di riascoltare la voce che è “senza suono” (poiché la si percepisce fuori dal clamore mondano, e intimamente, attraverso l’anima) della sua terra. Vuol abbandonarsi alla serenità che possono dare le radici ritrovate; riacquistare la semplicità, la naturalezza, la capacità di stupirsi, che erano proprie della “infanzia attonita”.

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Giuseppe Villaroel (nato a Catania nel 1889), aiutandosi anche con dure esperienze di lavoro, era riuscito a laurearsi in legge e in lettere. Lasciata la Sicilia, visse a Milano e poi a Roma, conservando pur sempre, nel “lungo esilio”, integri l’amore e la nostalgia per la casa lontana. Ha intitolato, infatti, “Casa di mia gente”, [In Ombre sullo schermo Milano, 1930.] una lunga poesia, dall’accorata e spontanea modulazione, in cui confessa di ritornare, di tanto in tanto, alla dimora natale, come a un rifugio, per risanare, tra le sue pareti, ogni volta, le ferite ricevute dal travaglio della vita.

Dopo la perdita delle giovanili illusioni (“di tutti i sogni miei tristi e mendaci”), adesso che gli sembra di trovarsi nell’ora della “vita che declina”, come egli dice, Villaroel ha davanti agli occhi soltanto la casa dell’infanzia che gli arride, piena di dolcezza e di speranza. Egli, infatti, spera di potersi fermare in quelle tranquille stanze, sempre più a lungo, e anche definitivamente.

Potrà così, con l’atteggiamento incantato d’un tempo, guardare, dalla terrazza, nelle limpide notti, il tremolìo delle stelle in cima ai campanili; o ascoltare, all’alba, il grido del gallo proveniente dal cortile… Gli parrà di riudire il canto delle sorelle; di stabilire un colloquio duraturo con i cari defunti e soprattutto di avvertire ovunque la muta presenza della madre.

Il poeta spera di veder spuntare, nell’azzurro, altre primavere, “sotto il bel sol giocondo” della sua terra, sino a che verrà la morte, che lo coglierà non in un luogo qualsiasi delle passate peregrinazioni, del “folle errare senza quiete”, ma come Villaroel conclude – “serenamente, accanto ai nostri morti e ai nostri nati”.

Un auspicio espresso in maniera toccante, [Villaroel fu poeta nella tradizione, ma con inquieta sensibilità novecentesca.] ma rimasto irrealizzato, giacché Villaroel si spense nel 1968 a Roma.

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Come dicevamo all’inizio, la visita alla dimora di una lontana età dell’esistenza non è stata per tutti pienamente gratificante. Così è avvenuto al romano Arturo Onofri (1885-1928).

Nella poesia che si intitola, appunto, “Ritorno alla casa rustica”, in un primo momento egli sente di poter riprendere “un interrotto sogno di dolcezza”. Ha ritrovato la piccola abitazione di provincia, tale quale l’aveva lasciata tanti anni addietro. Vede che ci son sempre i nidi sotto le grondaie; i cespugli di menta e di timo, come allora, emanano un fresco odore; e questo va ad unirsi, interiormente, al profumo della sua anima, cioè ai sentimenti gentili che si ridestano nell’aria d’aprile.

Onofri rimane a guardare il muretto, che, pur pieno di crepe, sta tuttora in piedi. Quante volte egli si era acquattato lì dietro a spiare le tagliole che aveva nascosto nella siepe; o ne era uscito di soppiatto “a fischiare ai ramarri”!

Il poeta rivive dentro di sé i giorni in cui, ad ogni alba, gli balenavano in mente nuove immaginazioni…

Ma, in lui, è il presente ad avere il sopravvento: un presente ormai fattosi “inerte”, fasciato dalla “scialba nebbia” delle disillusioni subìte nella vita.

La casa – come egli constata – è rimasta sempre quella, ma è lui che è cambiato; è in lui che si è irrimediabilmente spento “il dolce tempo”.

In quel giardino, cinto dalla siepe, egli s’era creato un universo fantastico; ora, così amareggiato dall’esistenza, non gli rimane che la nuda, scarna realtà; ed anche lì non riesce a vedere “più che un muro e un orto”.

Il “dolce tempo”, di cui Onofri, nonostante tutto, si compiaceva, il livornese Giovanni Marradi (1852-1922) dice [Nel sonetto dal titolo “Ricordo d’infanzia”. Marradi operò, sin dagli esordi, nell’àmbito del carduccianesimo. Delle sue Poesie furono fatte diverse edizioni; a Firenze uscì nel 1923 quella definitiva.] di non averlo per nulla vissuto. Egli rivela che si era svolta solitaria e senza alcuna vivacità (“pallida e romita”) la sua infanzia, trascorsa in un palazzo, con la loggia situata in alto, rivolta verso il mare. Nel rivederla, il poeta s’è quasi abbandonato al pianto, come gli accadeva in certe notti, in cui rimaneva sveglio e le ore erano così lunghe a passare… Notti penose, durante le quali sentiva le onde infrangersi, con moto lento e lamentevole, sulla scogliera del molo. Dalla città dormente gli giungeva il suono che annunciava ogni ora, “caldo soffiando il vento di scirocco”.

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