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Caproni: una figura di madre

Giorgio Caproni, nato a Livorno nel 1912, visse poi a Genova dall'età di dieci anni. Egli stesso ha raccontato: "Pensavo di fare il violinista, la musica era il mio "ideale", "ciò che avrei voluto fare da grande". Invece, dopo aver strimpellato un po', dovetti impiegarmi, e i versi furono per me il surrogato della musica tradita..." [Antologia popolare di poeti del Novecento a cura di V. Masselli - G. A. Cibotto, Vallecchi Firenze, 1973] Trasferitosi a Roma nel 1939, fu chiamato alle armi. Partecipò alla Resistenza in Val Trebbia. Ritornato nella capitale nel 1945, fu insegnante nelle scuole elementari; collaborava intanto a giornali e a riviste letterarie. E a Roma si spense nel 1990.

Nelle prime opere poetiche Caproni compose quadretti idillici, impressionistici, caratterizzati dalla musicalità, ottenuta dall'uso di rime e di espedienti formali tradizionali. Tale poesia si presentava come artifizio creato da uno "splendido faber", mentre Caproni, in cuor suo, avrebbe voluto raggiungere una fresca identità tra poesia e vita. Intento che egli realizzò nelle successive esperienze.

Dopo di essere uscito dalle drammatiche vicende della guerra, egli andò, infatti, sviluppando una tematica affettiva, autobiografica, còlta sia nei fatti e negli oggetti della quotidianità familiare, umile in sé, ma ricca di autentici valori umani, sia nei paesaggi popolari di Livorno e di Genova, dipinti in determinate ore, in specie all'alba e al mattino. Successivamente, l'alba, in cui risaltavano le forme dell'esistenza più schiette e innocenti, nelle ultime opere di Caproni è diventata solitaria, "spopolata", piena di nebbia, di disillusione. Con spirito inquieto e complesso, il poeta ha rappresentato in maniera allegorica l'uomo contemporaneo, che è ormai privo di punti fermi; che sfiora la realtà, senza poterla decifrare, senza pervenire all'identità di se stesso.

Ma ritornando a quella che De Robertis ha definito "epopea casalinga", alla vita di ambienti familiari, che, pur consueti, rimangono nella memoria come circondati da un delicato alone fiabesco, è in essa che Caproni ha collocato la figura di sua madre: Anna Picchi. Annina, come il poeta la chiama, era nativa di Livorno e lì faceva la ricamatrice: "Non c'era in tutta Livorno || un'altra di lei più brava || in bianco, o in orlo a giorno". Si recava a lavorare di mattina presto, ed usciva di casa, tutta svelta, mordendo la catenina d'oro che aveva al collo. Era appena l'alba, "ma come s'illuminava || la strada dove lei passava!" Corso Amedeo, la via che Annina percorreva, risuonava del suo tacchettìo; lei dietro di sé lasciava un'inconfondibile traccia di profumo di cipria, che durava a lungo. Tutti conoscevano, nel quartiere, il personale distinto e giovanile di Annina, la cintura che teneva stretta alla vita, il neo che aveva sul labbro e la nuca sottile... La stanza in cui lavorava si affacciava sul porto; e le vele, alzate per la partenza, gonfiandosi, era come se vi mandassero delle folate "bianche e vive", tanto che il lino, tra le dita di Annina, acquistava un fresco odore d'aria aperta. Il poeta – come si vede – ha voluto rievocare l'immagine di sua madre, da giovinetta, da "ragazza fina, || d'ingegno e fantasia": dai modi gentili ed abile e creativa nel suo lavoro; come la più mattiniera delle ragazze della sua città, giacché "Livorno, come aggiorna, || col vento, una torma || popola di ragazze || aperte come le sue piazze".

Anna Picchi venne a mancare nel 1950. La raccolta dal titolo Il seme del piangere (del 1959) da Caproni è stata dedicata, in buona parte, alla memoria della madre; in essa sono comprese le due poesie scritte per lei nel 1954. Ritornato nella città natale, il poeta ha rivisto i luoghi in cui aveva trascorso l'infanzia; s'è aggirato tra i sedili della piazza e i canali navigabili, i Fossi, con la loro acqua scura ("Quanta Livorno d'acqua || nera e di panchina bianca!"). Ha immaginato di cercare sua madre, così come l'avrebbe cercata da bambino, in lacrime, sperduto nell'estesa piazza o nel buio portone di una di quelle case in cui Annina si recava per il suo lavoro.

Ma la mamma (rimasta per sempre " la mamma-più-bella-del-mondo") non c'era più: "era via", dice il poeta, così come avrebbe detto ingenuamente il piccolo, incapace, ancora, di comprendere appieno il significato della morte.

Caproni, andando per un'intera giornata lungo le vie di Livorno, ha sentito ancora il vento proveniente dal mare riempirsi delle voci della gente. E non c'era più quella di Annina; di colei che, quando indossava "la camicetta || timida e bianca, viva", attirava su di sé gli sguardi dei passanti. Il poeta ripete: "Via era..." nel tentativo di evitare sino all'ultimo parole lugubri. Ma non persisteva nell'aria quell'intenso profumo di cipria, a coprire, lungo il canale, l'odore dell'acqua salmastra nel suo lento e nero sciabordare.

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