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La grande estate di Alcyone
Alcyone è il terzo libro delle "Laudi del cielo, del
mare, della terra e degli eroi", poema lirico concepito da Gabriele D'Annunzio in
sette libri e rimasto incompiuto. Alcyone, composto nel 1903 e pubblicato nel
1904, è un vero inno ad una natura riscoperta in luoghi ancora incontaminati.
D'Annunzio, ansiosamente proteso a sempre lontane mete, qui ci si presenta in
una condizione di tregua; alla ricerca di rasserenamento, e quasi di una nuova
giovinezza, nell'aderenza all'intatta natura. Egli ricorderà, più tardi,
l'estate del periodo toscano, in cui l'opera fu concepita, come "il tempo
dell'ebrietà di Alcyone... il tempo di quelle metamorfosi immortali".
"Ogni mattina – confesserà tra l'altro – mettevo la
sella ad un cavallo balzano e me ne andavo a passar l'Amo... a tentare un
galoppo alpestre. E ogni giorno mi trasfiguravo nello estro di una laude eterea
come una lodola". Nel fanciullo intento ad incantare la lucertola
verdognola col suono dello zufolo costruito con canne forate, rivede se stesso,
rivivendo in sé le misteriose sensazioni già provate nella infanzia attraverso
l'inconscia, primordiale compenetrazione con l'ambiente naturale. La figura del
piccolo auleta, tuttavia, pur vagheggiata ed implorata, irrimediabilmente
dilegua nel tramonto, tramutandosi nell'eterno sogno dell'infanzia perduta, nel
simbolo della "divina arte innocente" che immedesima poeta e fanciullo e sembra
che possa far intuire "tutte le verità che l'ombra asconde".
D'Annunzio si volge con adesione sincera alla saggezza
esiodea impersonata dallo anziano agricoltore che svolge la sua esistenza
nell'attivo e fiducioso intrecciarsi delle opere e dei giorni. Da lui ama
ascoltare i segreti della terra e delle coltivazioni, come affascinato dalla
voce di un antico aedo.
Abbandonato ogni assillo ideologico ed etico, ogni
proposito celebrativo, il poeta s'immerge nella magica molteplicità di
sensazioni visive, sonore e tattili, che lo accompagnano e lo avvolgono nel suo
andare solivago nei luoghi pressoché vergini, ch'egli scopre ("Solitudine pura
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senz'orme!... Perduta è ogni traccia | dell 'uomo. ") e le tramuta nelle trame
musicali, continuamente variate, delle sue canzoni, dei ditirambi, dei madrigali. La realtà così si
trasfigura; l'esatta geografia dei luoghi, che dalle Alpi Apuane o dai Monti
Pisani, lungo il corso dei fiumi, si estende sino al litorale versiliese o alla
Marina di Pisa, ci si presenta circonfusa dall'alone fantastico che un'arte non
soltanto appariscente nella sua virtuosità, ma raffinatamente sensitiva e
creativa alimenta. Episodi e figure della mitologia classica sono presenti in
molte pagine di "Alcyone", ma non appaiono così appesantiti, come altrove,
dall'involucro erudito, assumendo anch'essi il fascino di una narrazione che
rievoca in forma di favola arcana o scaturendo con naturalezza dal passaggio ed
ad esso armonizzandosi: "In silenzio guardammo i grandi miti | come le nubi
sorgere dall'Alpe | ed inclinarsi verso il bianco mare... " Anche molte delle parole
arcaiche ed illustri che il poeta dottamente ripropone, sembrano acquistare, nel
flusso musicale che le involge, risonanze nuove.
Nella sognante atmosfera si collocano figure femminili,
che quasi spoglie di sensuale carnalità, si identificano intimamente con la vita
silvestre, come l'agile Aretusa, la cui voce è "come acqua argentina" ed
Erigone, la cui parola è "come il vento | d'estate, quando ci disseta a sorsi ";
Versilia, "ninfa boschereccia, fresca come una foglia; Undulna, che ha piedi
alati e conduce le onde; e la più nominata, Ermione, la cui verde veste "odora
ad ogni passo"... Ed ecco che accade al protagonista della meridiana avventura
(che così raggiunge il suo acme), sotto l'influsso, potremmo dire, di una divina
quaedam alienatio , generata dall'estate, ardente musa, di pervenire ad un
totale trasfondersi dello essere fisico, fattosi dimentico di sé ("Ardo, riduco
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e non ho più nome...') negli innumerevoli elementi del paesaggio...
La fulva stagione lentamente declina. Gli uomini sono
intenti ad intrecciare canestri di vimini per l'imminente vendemmia; rosseggiano
le bacche; le pannocchie di granturco rilucono nel campo, pronte per la raccolta
e per la scartocciatura, tra i canti, sull'aia, al chiarore del novilunio. Si
ripresentano nostalgicamente alla mente del poeta, aspetti e consuetudini
settembrine della terra natale e di altre già da lui conosciute.
Scende la malinconia per l'inevitabile distacco e al
pensiero che ritornerà nel cuore "la torbida cura". Sarebbe prolisso anche
soltanto sfiorare le tante questioni che hanno affaticato i critici dell'opera
dannunziana, via via giudicata, priva di umanità, di risonanza con la vita
effettiva, ovvero dal fronte opposto – esiguo – pervasa di significati e di
aspirazioni ideali; e la cui musicalità è apparsa ad alcuni quale "confessione
fonica della pura vitalità". Soffermandoci, ad esempio, sui versi "barbarie
genera nel vento | nuovi mostri" (contenuti ne "Il commiato" con cui termina
Alcyone) potremmo riflettere come per tutto il secolo ventesimo, la barbarie
ha avuto spesso il sopravvento e, per quanto riguarda lo ambiente, ha prodotto
guasti tali da dissipare un insostituibile patrimonio di bellezza. Luminose immagini di esso, dopo la lettura del libro, ci
rimangono impresse nella memoria.
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