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Negli anni
Clua Edizioni, Ancona 2007
Sogno pagano
Mi rispecchiai d’incanto
come in serenità d’acqua e
di cielo;
l’eco mi giunse degli
antichi lirici,
del loro flauto dalla dolce
voce
sotto le arcate lucide del
tempo;
l’odorosa penombra delle
selve
con le ninfe nascose il
ritrovarsi;
di miti ribrillò la
solitudine.
Estivo estro
Dal molteplice estro
dell’estate,
quale forma bronzina ed
armoniosa
giovanette ricevono discese
al mare che rimormora
leggende
dentro l’azzurrità
mediterranea.
Alza ogni giorno vertici
dorati.
L'ora del sogno
A lungo nel ricordo sarà
fiamma
e di sé farà piene tutte
l’ore
future, quella in cui fu
bello osare;
quella che si nutrì di
nostra vita,
che noi a noi stessi, libera
nel respiro creammo
àlacre del gran sogno…
Il lido favoloso
Perenni allori ed oleastri
folti
recingono il bel lido
favoloso
ove anelai bellezza
dal gorgo azzurro d’ansia
adolescente.
Dall’acqua accesa,
Citerèa fioriva
nel suo prodigio candido,
unificando intorno in
armonia.
Così sempre nostalgico mi
volsi
al lido di salvezza;
dall’infermo cammino al
tempio intatto.
Bellezza
Ed ecco la gentile
s’allontana
dal coro cinguettante di
compagne,
per fermarsi soletta e
silenziosa
davanti al ginestreto che le
ingioia
il fine viso intento alla
fragranza.
La più arcana forma di
bellezza
è in lei che sta
verginalmente assorta.
Ritorno
Liberati dai vincoli del
buio,
sulle tracce del nuovo
biancheggiare,
i nostri passi grevi,
alla luce aurorale si
sveltiscono.
Gruga qualche colombo sulle
tegole.
Sembra alfine col sole,
un’immagine alata ci
preceda:
tra gli olivi brilla un
caducèo,
nell’aria tersa promanando
pace.
Presto sarà il crocicchio;
da lì s’inoltra fra le
spighe il viottolo.
Torniamo a rimirare
la lodola gioiosa,
che già vedemmo, un giorno,
dal suo nido
di terra, inazzurrarsi !
Le agili presenze
Oh, l’agili presenze nei
sentieri,
il fresco eloquio e la
diafana ala
del mattino avvertita al
nostro fianco !
Ci sospingeva verso gli
orizzonti,
solleciti a rialzarci da
ogni pietra
o dal limo; solamente a
seguire
un giocoso svolìo…
Il cumulo dell’ore ci
sembrava
sicuro tra le mani;
scavalcavamo il muro del
reale.
Ma come presto l’ombra
pervicace
vi si impresse del tempo;
e lo sentimmo compagno
stringente.
Della città ci spinse dentro
i rigidi
termini che rinchiudono
un inquieto scontento.
Quanti sguardi si alzano a
cercare
le azzurre guglie della
trascendenza ?
Non più in fronti sincere ti
ritrovi;
vaghi tra le finzioni, che
separano.
Vanno anonimi i passi;
s’oscura il firmamento sui
pensieri.
Esuli
Adagiano la fioca ragnatela
di lumi, già lontane,
separate le case dalla
notte.
L’insonnia è in noi
e negli alberi inquieti.
Riscoppia
il latrato improvviso dai
cancelli.
In esilio da borghi
biancovestiti di certezze ed
alti,
squallide rimutiamo
locande di fortuna,
dimora grigia d’ospiti
sparuti,
che serrano le porte;
di passaggio, bivacchi ci
richiamano
al fuoco che invermiglia
estranei visi,
pronti all’incanto
dell’improvvisato
imbonitore; ed ogni volta il
fiore
ci delude di sùbite faville
su insicure selci tra le
ombre.
Le smunte idee son raccolte
ai margini
di vili strade, in rauca
secchezza:
avanza una tal sorte…
Eppure tende l’animo segreto
a un sentire che fervido lo
affranchi !
Ad una meridiana
Percorsi vani ed orari
imprecisi,
nelle stazioni della
transizione,
ogni voglia d’andare ormai
avviliscono.
Luci e voci abbassate ci
provengono
dalla memoria; indirizzi
fallaci
più non ci soccorrono.
Sbiadiscono tuttora
i passi per le strade;
s’arrestano indecisi ad ogni
incrocio.
Raggiungeremo ancora albe e
venti,
i paesaggi della poesia ?
Si guastano certezze;
policromia monotona dilaga
del sesso, di prodotti
per consumo che urge.
E non sarà tra l’impazienza,
vano
della pura natura ridestare
immagini, gli specchi del
silenzio ?
Gli uomini li frantumano.
S’effondono parole,
variegati
artifizi a coprire
sconfitte del pensiero,
d’umanità il declino e
d’ideali.
Fascio convulso di frammenti
slega
ansia continua… Ad una
meridiana
fisseremo di luce un nuovo
canto ?
(Negli anni Sessanta)
Parole
Si ricoprono i fogli
d’anemiche parole, non di
quelle
piene d’umani succhi
che il sapore variano;
non di freschi polloni
che si drizzino
dal ceppo della vita;
non di scaglie sottratte da
fecondi
sostrati dell’esistere.
Brandelli
Hai ancora speranza
di scheggiare parole, al
sole auree;
che l’anemico intreccio
delle vene
si rigonfi di sangue
generoso;
che si riveli il fulcro
di leva sublimante ?
Di costruire, quando si fa
polvere
il mattone e la malta
acquidosa non salda ?
Rimane il raccattare
lisi brandelli d’utopie
perdute;
il dispiegarli a un’ironica
brezza.
L'altra riva
Quanti giorni disposti con
passione,
quasi fossero pietre, a
prolungare
un ponte che giungesse
all’altra riva,
tra la foschia intravista;
nei mattini
così a lungo sognata.
Presto ha ceduto il ponte.
Dalla frana, superstiti,
ci accorgiamo, d’un tratto,
come il tempo
intanto sia salito a
logorarci.
S’è dileguata anche
la riva da sognare.
Sponde
Di speranze lanciai ponti
tenaci
sulle sponde malcerte della
vita:
ricadevano all’urto del
dolore.
Giunse una strana calma ad
adagiarsi.
Le stesse sponde mi parvero
estranee
dentro la densa nebbia che
veniva.
Non vidi spumeggiare onda
prodiera;
non mi chiamò un pilota, per
compagno,
protési entrambi verso acque
libere.
Anni
In mezzo a una pietraia,
quanto a lungo
disseminati anni… Poche
spighe
hanno dato sgranate e
rugginose.
Scopri vuoto il granaio;
senti appresso l’inverno.
Luce
La luce scende ad incontrare
il fiume
che con gelido affanno esce
dall’ombre;
cosparge il suo sorriso
sulle crespe
che un luccichìo prolungano.
A questa vita scende,
che in mezzo a rudi selci
spesso scorre affannosa;
ha prunéti alle sponde,
si ricopre di rughe.
Alberi atterrati
Solo, piombando, hanno un
breve grido,
questi alberi, alla chioma
che già ansia
conosceva dei venti,
delle ali il riposo
e ai vespri la chiassosa
radunata.
Nel silenzio d’un attimo,
in cui fissano sguardi,
con inconscio rispetto,
la caduta dei grandi.
Poi sulle foglie immobili,
fugace
scorre un soffio pietoso.
Uno sfuggente volo ora
s’inverte,
al limitare sorto
all’improvviso
dei cantieri che ingabbiano,
con irosa solerzia,
il cielo nel cemento;
del primevo tessuto delle
erbe
resistono qua e là fili
sparuti.
Dopo l'incendio
Un vigoroso popolo pacifico
d’alberi risiedeva sul
declivio,
dove ormai pesa una coltre
di cenere;
qualche spettro superstite,
annerito,
che il suolo ancora, esile,
trattiene,
altro non può che in sé
piegarsi e gemere.
Mùtilo testimone
dell’aggressione ruggente di
vampe
alla mite compagine;
della virente anima dissolta
in crèpiti e faville.
Per le selve amazzoniche
Dove dal primo estro di
natura
ebbero forma vergine le
selve,
il drappo del silenzio
appeso da millenni,
lacerandosi
al rombo di motori, si
distacca.
Avanzano… più avanzano
accesi da bramosi
calcoli sui legnami,
su terre e sulle fitte
future ciminiere.
Laggiù recessi forzano
avventurieri che negli occhi
hanno
il luccichìo dell’oro,
seguendo rive d’acque
limpidissime;
le lasciano luttuose,
la sabbia cospargendo di
mercurio.
S’abbatte iniqua sorte sui
pacifici
custodi delle selve.
La superstite infanzia della
Terra
(di viventi miriade,
di fiori e ingenui miti)
dall’incessante crollo
turbata dentro l’umida
penombra,
poco tarda a dissolversi
al fulgore violento che la
brucia.
Tregua
Sulla lucida ghiaia il
derelitto
ceppo corroso ha tregua;
sulla creta
stancamente s’adagiano le
membra.
Deposto il meditare
eracliteo,
la mente, e l’eleàtico, si
stende
come poca acqua presa tra le
pietre
del fiume, che s’è fatto
striscia esile.
Il silenzio sospende veli
serici
ai rami meridiani; vi si
impiglia
un frullo appena, un verso
subitaneo.
Dal treno, a sera
Sul crinale già ombroso,
ininterrotto,
rotola lentamente il disco
cupreo;
poi s’arrossa all’attrito,
s’assottiglia,
finché riscopri appena la
reliquia
tra i vapori violetti d’un
varco.
Arrivo
Arriveremo a notte
come in una di quelle
stazioncine ?
Soltanto pochi lumi
la nebbia a punteggiare
e fuggevoli ombre.
Passato già lo strèpito di
ruote…
Le poche case stanno
nascoste in lontananza.
Novembre
Per i sentieri di novembre
salgono,
in lenta fila orante, ai
cimiteri,
le giornate vestite di
bigello.
Le segui sino a quando ti
riassale
la domanda profonda; viene
il vento:
dal cupo saio lasciano, i
cipressi,
cadere solo bacche
impenetrabili.
Una cortina cinerea ci vieta
lo spazio del mistero dove
vacuo
diventerà il suono
dell’incedere.
Il limite
Degli uccelli di passo il
cuneo esile
penetra nella nebbia
all’orizzonte.
Ritorna, lungo il fosso, il
lamentìo
del vento tra il canneto
inaridito;
semicoperto di macere
foglie,
il deformante specchio della
vasca
ci richiama; d’un tratto ci
rivela
la chiusa solitudine… Vive
ancora
il sogno che oltre il limite
ci porti ?
Faticosa parvenza
Da un viluppo di siepe,
faticosa
parvenza d’un uccello si
discioglie;
si fa figura fervida,
in cima alla prunàia, nel
meriggio:
lo riempie, appagandosi, di
canto.
Così potesse, chiuso
dalla conserta inerzia,
lo spirito librarsi, in sé
creando,
come un tempo, nel canto
meridiano !
Randagio della speranza
Della speranza randagio, più
volte
sotto i suoi ponti instabili
ho trovato
rifugio nella notte. Sorta
l’alba,
mi son dato a scrutare nuove
selci.
Vana invocazione
Come nelle giornate nude e
sole,
che il vento involge e
infradicia la pioggia,
di sentirti vicino
vanamente invocai… Della mia
voce
nemmeno ti raggiunse un’eco
stanca.
Consolazione
Spentosi il fuoco debole del
giorno,
ne rimuovo la cenere;
sorrido
se vi rinvengo un poco
di superstite brace
che nel buio già sceso dia
conforto.
Un'attesa nuova
Vaniloquio dell’ore
sonnolente,
povertà grigia dell’anima
sola.
I rami della vita, ai loro
piedi,
quale seccume hanno
accumulato,
da cui risale il gemito
notturno.
Ad un’attesa nuova mi
dispongo:
riunisco alla sua fiamma
ogni pensiero.
In verità feconde,
radicarsi;
d’incorrotta stagione nella
luce
slanciato, mantenersi illeso
verde !
In cammino
Oltre la nuvolaglia che ci
oscura
estensioni più vere; oltre
il brillìo
che fatuo si protrae
di straripanti immagini e
parole,
liberi voli vanno a
rispecchiarsi
sul cristallo di fonti,
di là da grate aride
dove s’impiglia ogni
meschino volo.
Avvolge un grezzo involucro
il reale;
però quando ci spinge
a frangerlo, uno slancio,
spesso piega a nascondersi
dietro a un muro il cammino.
Un groviglio di giorni più
lo attarda,
opaco, allontanandoci dagli
altri,
se non lo scioglie volontà
d’amore.
La totale figura
È una fune che intreccia i
passi stanchi
dopo le tante strade
dal difficile segno,
tra le brughiere della
solitudine,
le interruzioni e gli
scantonamenti,
andando verso giorni da
raggiungere,
distanti, e poi fallaci.
Dove s’ingiglia il giorno,
nella sua purità calma di
specchio,
ci rimane lontana la
sorgente
che dell’essere infranto
ricomponga
la totale figura.
Si riconfonde pallida,
manchevole,
dei giorni al susseguirsi:
in pienezza di rado si
palesa.
Azzurrità
In questa azzurrità, come si
spande
il suono d’una secchia alla
fontana !
E sembra torni dal suo
esilio, l’anima;
se ne risenta la negletta
voce.
La realtà si sfila, nube
vaga
tra i candidi vertici del
tempo.
Un chiostro arduo sporge;
nel passato
penetrarono, mistici
intelletti,
l’eterno, come ad essi più
vicino.
Oggi, soltanto il portico
decrèpito,
il fremito riattende delle
ali
d’una famiglia loquace di
rondini.
Pel sentiero pietroso sembra
ancora
del canto fermo, l’eco ci
socchiami.
La ginestra conforta il nudo
sasso.
Paesaggio
Dove tra erbe scorre aspro
il vento,
un vecchio posa, ormai
curvato tronco,
tra le sue poche pecore.
Trasmigrano
le nubi sulle case del
villaggio
di pietra in abbandono;
qualche voce
in calma lontananza si
prolunga.
Là sono rumorose le
cornacchie
a ciarlare sul prato d’erba
nuova
o di sé nero un albero
rendendo;
là svariano su rose e sui
sambuchi,
per i sentieri, cetonie
dorate,
tra campi irruviditi dalla
macchia
che già assale spenti
casolari.
Si appressano le ore come i
passi
della vecchia severa, alla
fontana,
nella sua veste avìta,
monacale.
Ricade entro la verde
solitudine,
del cuculo, di noi, vana
domanda
reiterata, il verso non
s’estingue;
penetra nella notte con
l’assiòlo.
(In zona di montagna, negli anni 1958-61)
Il canneto
Più non drizza il canneto le
sue lance
stridule al vento, con le
banderuole
di foglie inaridite, contro
il torbido
avanzare di nuvoli sul
fosso.
Il vecchio l’ha reciso; egli
sostiene
con canne e vinco i suoi
pochi tralci
prostrati dall’inverno… Avrà
conforto
dal ritorno di rondini
operose,
che beccate di fango
porteranno
ai tetti muti di chi andò
lontano.
Quassù
Quassù dove il silenzio
fascia intenso
la sovrastante balza; e si
susseguono
i giorni, ognuno tacito nei
passi
lungo sentieri ricoperti
d’erba,
come tenta la mente
insinuare
radici entro la rupe del
mistero.
È rimasto fissato in strati
arcuati
il primordiale scuotersi di
rocce.
Eppure il millenario
travaglio della storia,
quanti uomini fissi negli
strati
d’immani patimenti
lasciò dietro di sé e lascia
ancora…
Nel silenzio dei tempi tutto
è inerte.
Il silenzio sussulta
Il silenzio che fosco si
raddensa
tra le ramaglie immobili,
sussulta
qua e là per qualche foglia
che si distacca e striscia,
urtando sugli stecchi sino
al fondo.
I magri sterpi scricchiano,
strappati nella notte
sibilante,
dalla mano del vento,
dall’ossuto
tronco… Lento si china
ad ammucchiarli, il vecchio,
nella bruna fascina,
per le vane giornate.
Sogno
Più non respira la valle con
tanta
nebbia sopra ad opprimerla;
ed io cerco
uno specchio lucente che
ridia
integra la figura e la mia
essenza.
Folte masse in congiura,
lungo i covi
del monte, mi deridono le
macchie;
si pungono ai cespugli i
passi ansiosi.
Eppure avanzo… Nella nebbia,
vivo
si rivela il rubino del
cuore:
l’accende il desiderio, in
lui è salvezza !
Alla vecchia madre
Immateriale àlito
dalla plaga novissima che
attende,
alla canuta fronte
ormai sembra ti giunga;
ma calma e saggia sosta
ancor rimani
per lo scontento e fragile
mio giorno.
Linfa ti sale da longevo
ceppo;
dal temperato incedere
dentro la traccia di
saviezza avìta:
sebbene scossa, in tragiche
stagioni,
da questo nostro secolo…
Ogni volta era arduo
ridare avvìo ai giorni,
i brani rassettando,
da vento avverso, sparsi, e
dalla guerra.
Attrista il ricordare;
finché non sorge, dalle tue
parole,
la sognata visione
della sincera umanità tra
cui,
madre, vivesti almeno da
fanciulla…
Immateriale àlito,
schiarendo,
rimarrà sulla calma e saggia
effige,
da cui senso riceva il
giorno fragile.
Per la morte della madre
Scorpati Adria, che venne a mancare, novantenne, il 23 Gen. 1984
Nella stessa lirica, negli
ultimi versi, il riferimento è ai papi Giovanni XXIII e Paolo VI.
Operosa formica della casa,
a serbare le briciole di
pane,
ad assettare intenta, certo
memore
delle passate carestie, di
tanto
avverso tempo… Umile e
silente,
vanto ti era per i tardi
anni,
lo sforzo che compivi !
Eppure nelle soste,
con la radio vicino,
di seguire un colloquio
avevi caro,
o le vecchie canzoni, o
poesie,
presente sempre l’animo
gentile,
aperto alla bellezza.
II
Dalla porta dischiusa
leggermente
avvertivo quel tuo passo di
piuma,
ed ecco il tuo sorriso
di quando eri sorpresa che
il peso
dell’età ti scemasse, per
incanto.
Ah, quanto spesso di
comunicare
avrai voluto con il mio
sorriso…
Ma, dentro il cruccio
solito, pensoso,
ero pur sempre io
a ricevere il dono.
III
Tu che il male più spesso
soffocava
con un’asma ribelle
(con balsamici fumi ti
avvolgevo),
così dell’aria amante e
della luce,
ch’avida ne cercavi, ogni
mattina,
spalancando le imposte,
quel che più paventavi
era il serrato buio della
tomba.
IV
Par prodigio il rosato delle
labbra
(già tuo innocente vanto
in quel nobile viso di
vegliarda)
ha resistito, stretto dal
pallore,
favilla, a giorni, della mia
speranza.
Scava ancor più il soffrire,
purpureo infossa il fiore;
ognora si fa tèrreo.
V
Coi tuoi logori rami, in
quale lotta
si dibatte il tuo tronco,
solitario, alle raffiche del
male.
S’era fatto pur gracile,
quello che aveva attinto
linfa di conoscenza,
con l’annose radici,
dal cangiabile scorrere di
eventi.
Quali frutti la morte
raggrinzisce.
VI
Sembrava ti rapisse ormai
lontano
il lacerante affanno,
ed eccoti, ad un tratto,
su una calma plaga, seppur
arsa.
- Ho sete – mormori; e poi :
- L’acqua è buona…
Udrò sempre nel murmure
dell’acqua, quella lode
che ne facesti nel tuo
refrigerio.
VII
Inseguo dentro il buio il
tuo respiro;
filtra sempre più fievole
dal chiuso
della tua sofferenza:
lo perderò tra poco,
ti perderò per sempre.
VIII
Con affanno hai cercato,
nella notte,
i cari che ci hanno
preceduto,
chiamandoli a gran voce.
Ora all’alba sei calma.
Con essi certo hai
comunicato.
La promessa ne serbi che ad
attenderti
saranno sulla soglia della
luce,
là dove essa è senza
mutamento.
IX
Che non sia vano, o Santo,
l’isolato, enorme
transito verso il confine
supremo:
che il profugo lacero,
dopo marce notturne
interminabili,
il vuoto non vi trovi d’una
landa,
ma promessa appagante
dell’aurora.
Tu l’hai raggiunta alfine.
Dai vincoli ormai esili di
carne,
discioltosi lo spirito, si
effonde:
mi penetra e arricchisce
del tuo pieno cammino,
dell’estrema
stazione dolorosa.
X
Perché impietoso il tempo
non accumuli
sulla tua pura immagine la
polvere,
come su ogni forma
che sbiadisce e cancella,
fisserò presto la tua giusta
lode.
Dirò come sollecita recavi
acqua copiosa all’arsa
terra dei fiori, come
vicina eri ad ogni mia
incertezza,
all’appassire delle mie
illusioni,
provata nella carne, ma
fidente !
Sempre più lieve peso davi
al suolo:
così parca nel cibo,
il primordiale latte
e il pane ti bastavano
e di ogni stagione i dolci
frutti.
Le lunghe, grevi soste
tu hai provato della
solitudine.
Dal tuo cantuccio, presso la
finestra,
le ore avevi appreso
a discernere, attenta ai
movimenti
piccoli ed usuali sulla
strada.
Di qualche altra, come te
superstite,
la voce sempre più stanca
cercavi
attraverso il telefono;
o novità attendevi
dal favellare della
vicinata.
Ti recava conforto
sul teleschermo seguire
l’immagine
del veglio buono Giovanni,
che apriva
l’intima primavera col
sorriso,
in quella benedetta
stagione dello spirito, pur
breve,
se il velo della fine già
infittiva
sul pacifico viso;
anche seguisti il sofferente
Paolo,
nella sua tarda età,
nella Via della Croce, al
Colosseo…
Ormai consunta dalla lunga
strada,
ne stavi abbandonando il
tratto estremo,
giunta all’arcana soglia, la
varcasti
senza lamenti, senza più
rimpianti.
Con le tue mani
(Ricordando il
bombardamento aereo su Ancona del 16.10.1943)
Già discesi gli aerei con il
rombo,
con le maligne ombre delle
ali,
quasi i tetti a ghermire…
Ci serrava un rifugio
malsicuro,
colmo d’inerte angoscia,
alle radici scosso,
tagliato da baleni
nel pulviscolo, al buio.
Con le tue grandi mani
il mio capo stringevi,
o padre, ed al tuo petto,
come amoroso schermo
dagli scoppi e bagliori,
dal crollo sovrastante.
In memoria del padre
Giuseppe, macchinista delle FFSS, morto nel 1967
Nel vento era il tuo viso ed
il riverbero
aveva della fiamma
chiusa, ruggente dentro il
focolare;
dell’ànsito all’ascolto
della tua
locomotiva… Quando si
gonfiavano
di fumo i tuoi polmoni
dentro il tunnel,
al chiarore tendevi dello
sbocco,
con l’occhio repentino e
salutavi
con un fischio deciso.
Nuovamente
in corsa, lungo i campi,
alberi e casolari
erano ad incontrarti, e già
lontani…
Ma già alzava le sue insegne
nere,
la violenza, piegando i più
al potere.
Per la libera essenza
viva in te, nell’idea
nutrita di letture,
fervida nelle lotte
sindacali,
cedere non potevi…
Con l’occhio usato a misurar
distanze
di campi e di riviere,
scacciato e perseguito, ti
adeguasti
alla pazienza d’umili
lavori.
Pur una fede, che tenevi
desta
in te, e in altri, ti faceva
scorgere,
nel fondo tunnel della
dittatura,
un barlume… Ed infine
ingrandiva,
sino al mattino di
liberazione.
Dopo vent’anni, eccoti sulla
locomotiva,
“maestro” ancora, sorridente
e fiero,
la sigaretta in bocca,
per brevi corse ormai lungo
la costa
e la scogliera: furiosa, di
notte,
sotto la tramontana,
quando ti ristoravano
un bicchiere di rosso,
e d’un motto il sorriso.
Quei lunghi anni vigili a
resistere
in te fecero crescere
un giusto orgoglio, e più
ancora amarezza
per tutto quanto t’era stato
tolto.
Nei lenti giorni andavi
rievocando;
poi si vuotava dei vecchi
compagni
il posto all’osteria;
estranee ai nuovi
eran quella vicenda e quella
fede.
Cerco lontano
Fra la nebbia il vagare va a
confondersi,
fra le sagome d’alberi
ramosi.
Cerco lontano una pianura
eterea,
di cui appena rasenti la
strada,
che mi diventi quale scia
lievissima
sempre più vaporosa nel
remoto;
mi guidino gli echi delle
origini
in plaghe dall’armonica
interezza.
Qui la vicissitudine che
suscita
convulsamente le parvenze, e
stinge,
ed i suoni discordi, quanto
spesso
l’intimo sforza e infrange;
l’io integrale
si fa sempre più arduo; il
colloquio
supremo ad ogni frase
s’interrompe.
Simili a semi
Ormai schiusi pensieri se ne
vanno
simili a questi semi
cotonosi
da capsule che s’aprono di
salici,
dalla brezza sorretti,
argentei al sole.
Mite il mattino. Sembra
possa accoglierci
più vicina la riva dello
spirito.
Rinunzia
Era tutta la soglia
fiammeggiante,
ov’era alfine giunto il
desiderio;
e si ritrasse, come fosse
preso
da un ascetismo rinunziante
e fiero.
Stelle
Sulla scena del giorno
onnubilata,
dei lampi i segni rapidi ed
arcani
ormai sono svaniti. Ad
occidente
il nembo s’è scomposto in
strati esili
con orlature cosparse di
ostro.
Lo sguardo è vòlto a stelle
che riappaiono
illimpidite dall’interno
fuoco,
dorati enimmi
dell’universale
verginità armoniosa, a cui è
proteso
l’impuro flusso della nostra
storia.
Luce
Luce che scendi a rivedere
anche
il sembiante perverso del
reale,
ma rifluisci pura
al fonte intemerato,
immune dal corromperti o
scemare…
A dieci anni dallo sbarco dei primi astronauti sulla Luna
(Luglio 1969- 1979)
Fisse persisteranno, senza
soffio,
enormi sulla polvere le
impronte
dei pionieri, nell’attesa
forse
di colonie migranti di
terrestri
verso isole astrali.
Sembrano già lontani
il ritorno, e il delirio per
gli eroi.
L’epoca nostra, fitta di
contrasti,
lancia miti ed affolla le
sue immagini
rapide sugli schermi e prime
pagine;
poi le logora presto e le
sospinge
ai margini d’oblio.
Appesantito e stanco
sta invecchiando il secolo;
è certo che di quella
umanità
dolente sulla ciotola
infeconda;
che si trascina e scava
per poche gocce nella terra
avara,
patrimonio non è,
o lo sarà, la Luna…
… …
Seccore
Polvere e pena diventa le
meta
che l’incomposto gregge
insegue errante;
sulla fresca sorgente e
sull’erbosa
pianura della sosta, che nel
sogno
unanime ritorna e che i
belati
chiamano ad ogni istante con
lamento,
un gonfio polverìo sempre
ricade.
Inesorabile si congiungeva
il suolo nel diniego con il
cielo,
colmando di torpore
l’orizzonte;
un solco vacuo diventava il
fiume
col suo roso pietrisco
allucinato.
Gli sguardi lo fissavano
brucianti.
Era forza migrare.
Per esuli da terre, cui
contesero,
le bocche, i fili d’erba
estremi e l’acqua
limosa, quale copioso
banchetto
stenderebbe la pioggia;
quale magia di specchi che
ridonano
le immagini gradite del
riposo…
Ma poco dura il volo della
mente:
ripiomba estenuato tra il
seccore.
Con le future astronavi
Con future astronavi
in pochi fuggiranno
da malsane pianure
putrescenti,
dal denso cielo e dalle
acque torbide
della consunta Terra ?
Dalla lotta feroce
per l’ultima sorgiva
o l’ultimo barile di
petrolio ?
Morte in terra d'Africa
Aderiscono al suolo corpi
esili;
e spenti, crepe riarse li
disseccano
presto, come ogni stelo ed
ogni umore.
Lì s’adunino angeli,
bruciando
con bianca fiamma l’incenso
che, puro,
dalle cortecce stilla…
Nell’azzurro
tersissimo e crudele siano
accolti
dall’aroma di nuvoli
balsamici,
tanti sì lievi spiriti che
salgono
dalla lenta agonia alfine
sciolti.
(Per una delle tante
carestie)
Ventesimo secolo
Quante volte ti sei
oscurato, secolo,
per la fosca barbarie;
l’impero ti ha fasciato
delle tenebre;
hai addensato perfino la
fumèa
orribile dei forni ove le
fiamme
consumavano corpi.
Sequenze miserabili
di deportati o profughi,
ridotti a cieco armento,
hai allungato nelle
solitudini
del gelo o dell’arsura…
Di bambini hai piagato corpo
e mente.
Dalla Croce
Grido enorme di Cristo dalla
Croce,
grido della straziata
umanità,
sotto l’oscure arcate si
percuote
dei tempi, vero emblema
della storia.
Il santuario
Compatto ad un disperdersi
di nuvole,
il santuario accoglie, dal
suo colle,
il respiro del mare e a
primavera
di levantine rondini il
garrìto.
Ombra scorre di voli sopra i
marmi,
sulla cupola bianca e sul
devoto
séguito delle case tra le
mura.
Ravviva il sole, alle
vetrate, quasi
d’un leggendario pagine
istoriate;
costellazioni fioriscono
d’aureole.
Nella penombra di cappelle e
arcate,
l’umanità dolente, qui
salita
nei secoli, ha lasciato echi
arcani,
Della città gaudiosa
Della Città gaudiosa langue
il mito,
della Città rivestita di
luce,
quando sarà ogni lacrima
detersa.
Il profetico sogno, la
visione
del consolante sbocco
dentro il mattino della
palingènesi,
si èleva o s’annebbia
sull’orizzonte ambiguo delle
epoche.
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