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Piero Jahier e la sua umana poesia

Piero Jahier nacque a Genova nel 1884. La famiglia nel 1895 si trasferì a Firenze, città di cui era originaria sua madre. Il padre, pastore valdese, due anni dopo si suicidò per il rimorso d’un adulterio ch’aveva commesso. E il libro dal titolo “Ragazzo”1 si apre con il capitolo “La morte del padre”, in cui risalta il forte trauma subìto dall’adolescente Jahier. E’ un’opera autobiografica, significativo esempio del frammentismo vociano, con pagine in cui avviene, quindi, un intenso scambio tra poesia e prosa. Si compone di sette capitoli già pubblicati in riviste tra il 1911 e il ’14. L’immagine del padre è quella d’un uomo di rigorosa moralità. Egli però aveva lasciato la vedova con sei figli, in disagiate condizioni economiche. A Jahier tredicenne il mondo si presentava “già tutto fatto di negazioni”, rispetto ai ragazzi della sua età. Anche sua madre era una donna severa, come, d‘altra parte, le donne calviniste, ch’egli aveva conosciuto, con i loro abiti scuri, coi capelli lisci e dal volto rigido. Jahier narra come crescesse irrequieto, con i suoi tanti interrogativi e le sue scoperte, in specie riguardo al sesso, che gli si presentava, nel suo ambiente, associato ad un acuto senso di peccato. Il Nostro ricorda quando finalmente poté procurarsi i denari per acquistare i desiderati “Canti” del Leopardi. I due ultimi capitoli sono dedicati al borgo natio, dove il ragazzo tornava per le vacanze estive, godendo delle soddisfazioni che dà la vita all’aria aperta, rispetto a quella cittadina, ma riflettendo anche sulla realtà della campagna fatta di dura fatica e tanto spesso di miseria. Compiuti gli studi liceali, Jahier, a causa delle ristrettezze della famiglia, di cui s’è detto, non poté iscriversi all’università; tuttavia, grazie ad una borsa di studio, frequentò, a Firenze, la Scuola teologica valdese; presto però l’abbandonò, poiché sentiva l’animo oppresso dalla severa teologia protestante; e nemmeno altre teorie filosofiche, cui si accostò, lo appagarono. Trovò un impiego presso la Società Adriatica ferroviaria, con sede nel capoluogo toscano; questa sarà poi assorbita dalle Ferrovie dello Stato, e il Nostro vi rimarrà, tranne diversi periodi di aspettativa, sino al 1948, anno del pensionamento. La funzione di contabile che svolgeva, era prettamente burocratica, ma diede a Jahier la possibilità di mantenersi economicamente indipendente e di seguire la sua vocazione, che era la letteratura. Difatti, studiando anche di notte, egli conseguì due lauree, di cui una in lettere francesi; e va ricordato come risentirà delle esperienze di Ch. Péguy e soprattutto di P. Claudel; al riguardo scrisse che essi “guardano indietro alle virtù di una passata umanità cristiana o rivoluzionaria”.

Ma proprio nell’ambiente della burocrazia, Jahier incominciò a scrivere, componendo il libro “Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi”, che verrà pubblicato nel 1915. In quelle pagine esercitò spigliatezza satirica, presentando situazioni realistiche grottesche. Sempre a Firenze, il Nostro venne a contatto con la rivista “La Voce” di Prezzolini, alla quale collaborò dal 1909, divenendo anzi gestore dell’editrice Libreria della Voce. Nell’ambiente vociano, notiamo che Jahier, moralista ed espressionista come altri, si distinse, tuttavia, per la sua rinuncia all’individualismo, al soggettivismo, di matrice ancora romantica, propri di diversi letterati di quegli anni. Egli aveva scelto di essere “un uomo comune”, con la palese simpatia verso gli uomini comuni, verso il popolo. Allo scoppio della Grande Guerra, Jahier si arruolò come ufficiale volontario nel corpo degli alpini; lo sapeva, infatti, composto principalmente da giovani provenienti dal popolo: contadini, braccianti, artigiani, operai. La poesia dal titolo “Mio popolo” fu scritta nella primavera del 1915 e Jahier immagina di incontrare le reclute. Prima della chiamata alle armi, erano uomini già abituati alla rude fatica, a farsi venire i calli alle mani, a rimanere vittime di incidenti sul lavoro; abituati a tribolare, a finire all’ospedale o in prigione, a subire “camorre” (imbrogli), oppure ad emigrare … In fondo, la vita di tutti i giorni era stata per loro già dura come una guerra … Tale poesia fa parte dell’opera “Con me e con gli alpini,”2 anche questa conforme al frammentismo, con assidua osmosi tra prosa e poesia; vi compaiono versi lunghi, seguiti da altri brevi, alla maniera di Claudel, con la tendenza “all’inno o salmodia, che privilegia su ogni altro procedimento quelli di tipo iterativo, volutamente primitivistici ed elementari”3; frequenti sono i dialettalismi veneto-friulani, a confermare la vicinanza del poeta al popolo. Jahier dichiara di essersi arruolato proprio “per far compagnia a questo popolo digiuno/ che non sa perché va a morire”. La patria aveva reso i suoi uomini, soldati, prima di averli educati ad essere cittadini consapevoli … Il Nostro ritrova la sua vera identità, invano cercata confusamente nei libri, “nella freschezza di questa umanità nuova”, aderendo pienamente allo spirito di solidarietà, e di fratellanza, che sente stabilirsi tra i commilitoni; egli auspica che tale spirito possa estendersi a tutta la nazione. Jahier aveva un concetto umanitario, e anche religioso, della poesia. Ed era diventato volontario anche per combattere, come disse, il nazionalismo germanico, che riteneva il più pericoloso nemico di quella “umana poesia universale” alla quale aspirava.4 Il poeta, ricco, dunque, di umana partecipazione, si è sentito vicino al dramma della madre, alla quale la guerra aveva strappato, uno dopo l’altro, i due figliuoli e il marito. Dramma comune a innumerevoli madri … Nella poesia che s‘intitola “Mare” (Madre, in dialetto bellunese) il poeta mette in risalto lo stato di continua apprensione d’una donna per il figlio maggiore, che è tra gli alpini. Lei se lo immagina in luoghi dove la vita è troncata dallo scoppio delle granate o sepolta dalle valanghe. Invano ha aspettato, una sera, rimanendo per ore alla finestra, di vedere suo figlio, al quale consegnare il fagottino della biancheria pulita, la cosiddetta “muta”, concessa, ogni fine settimana, agli alpini di stanza vicino al confine … Ed ecco che è arruolato anche il figliolo più giovane, non ancora ventenne.

Sebbene delicato di salute, viene messo in marina ed imbarcato su una nave a vapore. La madre ha nuovi incubi e se lo raffigura addormentato nel centro del bastimento, mentre le ondate vanno a sbattere contro le fiancate, come a voler entrare e portarsi via il suo “tosatèl”, il suo ragazzino. Ed alfine deve partire per il fronte anche il marito … Nella casa rimasta vuota, la povera donna, un giorno, dopo aver sbrigato le abituali faccende, s’è seduta accanto al focolare, come fosse in attesa … Ma s’è lasciata morire di crepacuore. Così –conclude il poeta- “ànno preso anche la mare”. Jahier voleva che si stabilisse un rapporto di simpatia tra gli alpini e la popolazione. Nella poesia “Canto di marcia” (datata Quota 1016, aprile) presenta una colonna di alpini, diretta verso il fronte, forse per l’ultima marcia verso la morte. E il poeta esorta ad uscire dalle case –ormai prive di uomini validi –le donne, le giovani spose, i bambini, i vecchi, perché ognuno si senta rispettivamente come madre, sposa, figliuolo, nonno degli alpini, in un atto di comunione, in un grande abbraccio. Poi –conclude il poeta- “quando saremo passati, non vi allontanate: /fateci un ricordo immenso, alzate le mani, /richiamateci con un grido … questa è l’ultima marcia -/ma non importa se andiamo a morire”. Jahier ha dimostrato anche particolare sensibilità verso la natura, rivolgendo, pur durante le faticose marce, lo sguardo al paesaggio, in specie primaverile, quando ha visto i “cittini”, i bambini andare nel prato a cercare le erbe commestibili per l’insalata, ed essere poi attratti dai tanti fiori, tutti nuovi e di diversi colori, ed infine dalla lucertola uscita all’apparire del “sole pulito e sano …potente sole felice”.

Dopo la ritirata di Caporetto (ott. 1917) a Jahier venne dato l’incarico di dirigere il giornale “L’Astico –Giornale delle trincee”, redatto da combattenti, che doveva infondere un nuovo slancio di patriottismo nei soldati. Alla fine del conflitto, il Nostro dirigerà “Il nuovo Contadino –Giornale del Popolo agricoltore”, con la finalità di aiutare i tanti reduci ad inserirsi nuovamente nel tessuto sociale. Con l’instaurazione della dittatura, Jahier, fermo oppositore al regime, subì la severa sorveglianza da parte dei fascisti. Egli si sentì “presto minorato e interdetto, misero schedato politico in consegna a polizia e milizia ferroviaria …murato in una tomba ventennale di coatto silenzio.” 5 Rimase, tuttavia, in contatto con i Fratelli Rosselli e con Gaetano Salvemini ed anche con gli ambienti dell’antifascismo fiorentino, raccolti attorno a un circolo di cultura, poi distrutto dalle squadracce fasciste. Il Nostro si iscrisse al partito socialista unitario, e commemorò Giacomo Matteotti, ma la cerimonia fu interrotta dai fascisti con violenze e fermi. Collaborò al giornale clandestino “Non mollare”. Dal 1927 visse a Bologna, dove era stato trasferito. Durante la guerra si tenne in contatto con le formazioni partigiane di San Pietro in Casale, paese dove si trovava sfollato per i bombardamenti del 1943.

A Jahier nel 1945 morì la moglie, dalla quale aveva avuto quattro figli. Egli non produsse altre opere originali, poiché non era mai stato uno “scrittore professionale”; si impegnò in traduzioni dal francese e dall’inglese, e, in particolare, nella rilettura e sistemazione di quanto aveva scritto in gioventù. Apportò così aggiunte e modifiche alla raccolta delle “Poesie”, pubblicata a Firenze nel 1964. Collaborò a periodici, fece parte di giurie di premi letterari. Si spense a Firenze nel 1966.

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Jahier aveva trascorso un fecondo periodo nel fervido clima letterario fiorentino irradiato da “La Voce” e da altre riviste. Alla fine della Grande Guerra, da lui vissuta, come s’è detto, quale profonda esperienza umanitaria, e anche nel secondo dopoguerra, è poi rimasto per lunghi anni in silenzio … Della sua intensa stagione giovanile promanano, tuttavia, sempre valide, sia l’esemplare tensione spirituale, sia la decisa scelta etica fatta acquistare alla letteratura.

1 Pubblicato a Roma, nel 1919.

2 Firenze Edizioni della Voce, 1919.

3 Da “Poeti italiani del Novecento” a cura di P.V. Mengaldo Mondadori, 1978.

4 Da “Antologia popolare di poeti del Novecento” a cura di Masselli-Cibotto Vallecchi, 1973.

5 Come sopra

Le “Opere” di J. furono raccolte in 3 voll. a Firenze, 1964-67; l’edizione critica delle “Poesie in versi e in prosa”, a cura di P, Briganti uscì a Torino, nel 1981.

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