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Ricordando Martin Luther King e i poeti afroamericani

Dall’Antologia “Albo d’Oro” 1993
saggio rivisto e aggiornato

L’anno 2018 ha ricordato il cinquantesimo anniversario dell’assassinio – avvenuto, appunto, nell’aprile del 1968, a Memphis, nel Tennessee – del pastore negroamericano Martin Luther King*, che aveva condotto la sua gente nella lotta per l’acquisizione dei pieni diritti civili con il metodo gandiano della non-violenza, situando le rivendicazioni in un’ampia prospettiva sociale e morale. Lotta iniziata nell’aprile del 1963, per ottenere la desegregazione dei locali e dei servizi pubblici, l’integrazione scolastica e il pieno esercizio del diritto di voto, da Birmingham, nell’Alabama, e proseguita anche contro i gas lacrimogeni, gli idranti, i manganelli, i cani usati dalla polizia …  Martin Luther King, il 28 agosto 1963, a conclusione dell’imponente marcia organizzata dai suoi sostenitori, quella dei 250 mila su Washington – sia per celebrare il Proclama di Emancipazione, nel suo centenario, sia per appoggiare il progetto del presidente Kennedy sulla parità dei diritti civili, il Civil Rights Act, che sarà poi approvato dal Congresso nel febbraio 1964, – pronunciò il memorabile discorso, durante il quale, spingendo lo sguardo verso il futuro, aveva espresso il “sogno” (che diverrà ben noto) che i suoi quattro bambini potessero vivere “un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati dal colore della pelle, ma dal contenuto della loro personalità”; ed aveva concluso: “Questa è la nostra attesa. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, sapendo che saremo liberi un giorno”.

Affrancati dalla schiavitù, i Negri d’America si trovarono di fatto contro il muro della segregazione eretto da parte dei bianchi. Dal 1890 al 1908 il Mississippi, la Carolina del Nord e quella del Sud, la Louisiana e la Georgia avevano, ad esempio, incluso discriminazioni razziali nelle stesse costituzioni. Di qui l’immigrazione di molta gente di colore negli stati del Nord, dove l’inserimento nella società industriale non fu meno duro e umiliante. Ma almeno anche al piccolo Jim Crow fu lì possibile, alla fiera, salire sulla giostra, i cui cavalli variopinti egli non si stancava di guardare sorridente e quasi estasiato. Ne aveva una gran voglia: sarebbe stato un avvenimento del tutto nuovo, entusiasmante per lui, che così spiega la ragione del suo desiderio impaziente: “Io vengo dal Sud / dove al negro e al bianco / laggiù nel Sud / non è permesso di sedere accanto. / C’è un vagone a parte per Jim Crow, / un vagone a parte sul treno / e nell’autobus / ci mettono dietro.” Ma Jim ha compreso che ora è diverso per la giostra e ci sembra che accompagni con una gustosa risata la sua puerile ma saggia riflessione: “Ma la giostra è rotonda / rotonda / e non possono mettermi dietro.” Sono i versi di una significativa poesia di Langston Hughes (1902-1967), uno degli esponenti più rappresentativi della cultura negra in lingua inglese. Poeta, romanziere, drammaturgo e saggista, egli, nato a Joplin nel Missouri, si era laureato, dopo aver esercitato i più disparati mestieri, alla Lincoln University in Pennsylvania. Spinto dalla passione dell’intellettuale impegnato e da un forte orgoglio etnico, si sentì partecipe della sofferenza della sua gente, mettendo al suo servizio la propria arte, sin dagli anni Venti, in cui fu uno degli animatori del cosiddetto “Rinascimento di Harlem” (Harlem Renaissance), movimento letterario e artistico, nato nel quartiere nuovayorchese di Harlem, che fu alla ricerca di una affermazione dei valori della razza negra, della dignità dell’uomo di colore nella sua identità. 

Nella poesia degli autori afroamericani hanno avuto insistente risalto le istanze umane e sociali. Sono, per lo più, versi di rabbia e di denuncia per le umilianti condizioni di un popolo accalcato nei ghetti; sottoposto al monotono e pesante grigiore d’una vita destinata a spendere le sue energie nel più duro lavoro, ma “senza mai guadagnare, senza mai raccogliere, senza mai sapere e senza mai capire”, anche perché ristretta e depressa da limitazioni e divieti, come dice, ad esempio, Sterling Brown (nato e morto a Washington, 1901-1989, che fu poeta interessato alla cultura popolare negra del Sud, e che descrisse la vita della povera gente di campagna): “Oggi vi urlano i loro divieti: Non fare questo … Non fare quello … Riservato ai bianchi soltanto.” E vale qui ricordare il brano di un discorso del 1964 di Robert Kennedy, statista particolarmente sensibile ai problemi della giustizia sociale: “Per un essere umano, uomo, donna o bambino, essere allontanato da un luogo pubblico solo a motivo del colore della sua pelle, è un insulto intollerabile; un insulto che non si può mitigare, dicendo che le cose vanno così da cento anni e più … E’ una lampante ingiustizia e deve essere riparata.” Con quale malinconica tenerezza, Waring Cuney (1906-1976, appartenente al “Rinascimento di Harlem”) ha guardato la ragazza negra, che, occupata nel lavoro di sguattera, stava consumando la sua giovinezza tra pile di piatti ed acqua sporca, senza aver tempo o voglia di apprezzare la sua bellezza: “She does not know / Her bauty, / She thinks her brown body / Has no glory”. Il poeta la sogna, per un momento, danzare nuda sotto le palme …. Vedendo la sua immagine specchiarsi nell’acqua del fiume, lei certo avrebbe capito … Ma è la squallida realtà che riprende il sopravvento: non ci sono palme nella via cittadina e la sciacquatura dei piatti non riflette le immagini: “no images”- Vibra, a tratti, in alcune composizioni, la struggente memoria nostalgica delle origini in una terra arrisa dal sole, da alti alberi folti, dall’amore e dai canti … Ma è il motivo dell’enorme lavoro materiale sopportato, che torna a ripetersi, anche con una lunga, serrata elencazione di azioni gravose, come fa Margaret Walker (nata nel 1915 nell’Alabama e morta a Chicago nel 1998): “For my people, per il mio popolo che prodiga la sua forza agli anni: agli anni andati e agli anni presenti e agli anni probabili: lavando, stirando, cucinando, strofinando, cucendo, rammendando, zappando, arando, scavando, piantando, potando …” Anche Richard Wright ha messo in risalto le mani indurite, che, instancabili, hanno ammassato “sempre più alte cataste di acciaio, ferro, legname, frumento, segale, avena, cotone, lana, petrolio, carbone, carne, frutta, vetro e pietra, finché ve ne fu più del bisogno”. Ma quelle stesse mani furono respinte, quando si tendevano trepide, nei giorni di “lenta morte”, verso le merci che avevano fabbricato. I padroni ammonivano che esse erano private ed appartenevano a loro. Il poeta, nondimeno, dice d’essere incoraggiato a vivere, sperando in un “giorno scarlatto”, in cui si leveranno tanti pugni serrati davanti a un orizzonte nuovo. Wright (nato, nel 1908, nel Mississippi e morto a Parigi nel 1960), nel libro autobiografico “Ragazzo negro” (“Black Boy” del 1945) ha raccontato la sua giovinezza, impiegata, come quella di tanti altri ragazzi negri, in umili lavori, sino alla scoperta dei libri e della scrittura, come possibilità di riscatto, di liberazione.  In Fenton Johnson (il quale, nato e morto a Chicago, 1888-1958, scrisse dapprima in dialetto negro e poi in inglese letterario) si avvertono tutta l’amarezza e la delusione che, nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale – durante la quale anche i negri avevano combattuto ed erano caduti per l’affermazione dei comuni princìpi di libertà e di democrazia – la minoranza di colore sperimentava.  

I poeti afroamericani apparvero timidamente in alcune antologie sin dal 1912, ma furono esclusi da importanti repertori. Resta significativa l’antologia di narrativa, poesia e saggi “The New Negro: voices of the Harlem Renaissance”, pubblicata nel 1925. Tutti hanno sentito vivo l’impegno a far maturare, e a tener desto – similmente al proposito che animò l’opera di Martin Luther King – nella loro gente l’amore per la libertà e la fiducia in un “un mondo diverso”. Libertà invocata, ad esempio, da Robert Hayden (il quale, nato a Detroit nel 1913 e morto ad Ann Arbor, nel Michigan, ha usato, insieme con espressioni colte, anche quelle dialettali proprie del ghetto), come “necessaria all’uomo come l’aria, / fertile come la terra “. Augurandosi che “Gli uomini neri / mai, mai, si diano pace / sin che i pilastri della schiavitù / non crollino schiantati nella polvere / e le catene della schiavitù non siano divorate dalla ruggine”, Hayden aveva celebrato Gabriele, impiccato per aver capeggiato una rivolta di schiavi: “Gabriele penzola / oro nero nel sole / …Il suo spirito passa a volo / sopra la terra / con un canto nella bocca / e una spada nella mano”. Impegno, quindi, dei poeti a sostenere il loro popolo lungo il doloroso cammino per raggiungere la liberazione dalla schiavitù, prima, e poi l’affrancamento dall’avvilente discriminazione, dallo sfruttamento, dall’indigenza … 

L’insegnamento di Martin Luther King ha reso consapevole la gente di colore, della dignità da essa acquisita con la lotta sostenuta per il conseguimento de diritti propri della persona umana; l’ha resa, nello stesso tempo, altresì cosciente del proprio essere nella società americana, di cui doveva sentirsi artefice insieme con i bianchi. Ed anche il piccolo protagonista di una poesia del succitato L. Hughes, dichiara: “Anch’io sono l’America.” Il “sogno” per il quale M. L. King è andato incontro al sacrificio della propria vita, si è avverato, in quanto sono scomparse quelle leggi e regolamenti, che determinavano l’inferiorità della gente di colore, anche se lo stesso King diceva: “Oggi sappiamo con certezza che la segregazione è morta. L’unica domanda che rimane, è quanto costoso sarà il funerale.”

* Figlio di un pastore della chiesa battista, era nato nel 1929, ad Atlanta, in Georgia, nel profondo Sud degli Stati Uniti.

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