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Su alcuni aspetti della vita culturale fiorentina
nel
Novecento, negli anni tra le due guerre
Piero Bargellini, Nicola
Lisi e Carlo Betocchi, che avevano combattuto al fronte nella Grande Guerra,
ritornati a Firenze, si accordarono per dar vita ad una rivista, concepita sul
modello delle stampe di carattere popolare: «Il Calendario dei pensieri e
delle pratiche solari».
Il loro intento era quello di riportare i lettori, dopo lo
sconvolgimento morale prodotto dalla guerra, alla rivalutazione dei valori della
famiglia e dell'ambiente, illustrando il lavoro dell'uomo legato
all'avvicendarsi delle stagioni; offrendo «avvenimenti, proponimenti,
componimenti, avvertimenti» alla riflessione e alla pratica quotidiana; e il
tutto alla luce di una schietta religiosità.
Il fiorentino Bargellini (1897-1980) aveva doti di
organizzatore e di attivo divulgatore; si dimostrò anche critico e polemista
vivace. Lisi (nato a Scarperia, Firenze, nel 1893), formatosi sulle pagine del
«Novellino» e degli scrittori toscani del Trecento, nell'opera di narrativa «Favole» (1933) dimostrerà il suo vivo attaccamento alla vita dei campi e a
quella schiettamente popolaresca, cantando la semplicità degli umili. La sua
prosa si è mantenuta fedele al purismo, con eleganze arcaiche e suggestioni di
poesia. Betocchi, nato a Torino nel 1890, rimasto presto orfano del padre, era
vissuto a Firenze con la madre (donna «prettamente toscana») dalla quale
aveva ricevuto una educazione cattolica.
Aveva fatto gli studi tecnici; era spesso assente dalla
città, occupato quale geometra in cantieri di costruzioni edili. Anch'egli, come poeta, ha mirato alla chiarezza della
comunicazione; ha avuto vivo il sentimento della natura, soprattutto in
riferimento al lavoro umano considerato nello svolgersi cristiano delle opere e
dei giorni. A tal proposito Pier V. Mengaldo ha parlato di «cattolicesimo
rurale di timbro tipicamente toscano» [P.V. Mengaldo, Poeti
italiani del Novecento, A. Mondadori, 1978.].
Il «Calendario» uscì nel 1922 e soltanto in dodici numeri;
se ne stampavano, ogni mese, sulle cento copie; la copertina variava mensilmente
il suo colore. Le illustrazioni erano dello xilografo Pietro Parigi.
La salvaguardia delle sane tradizioni paesane e contadine era
un'istanza presente in molte coscienze, in quegli anni. Ed obbedirà ad una
profonda esigenza del regime fascista, e di Mussolini – come scrive I.
Montanelli – «l'ancoraggio dell'Italia ai valori di quella che fu chiamata la
ruralità» [I. Montanelli-M. Cervi, L'Italia del Novecento, Rizzoli, 1998; nel capitolo 3, vengono riportate le
dichiarazioni di Mussolini, secondo cui « il fascismo rivendica in pieno il suo
preminente carattere contadino» e che « la dottrina di questa fascismo è tutta
e solo e veramente nel canto sano del contadino che torna a casa verso un nido
in cui può trovare la serenità calma e calda di una famiglia e di una
figliolanza sorridenti al benessere nuovo».].
Proprio della «ruralità» voleva riempire le sue pagine la
rivista «Il Selvaggio», ideata nell'estate del 1924 nella provincia senese (a
Colle di Val d'Elsa) e trasferita a Firenze, quando la direzione venne assunta
da Mino Maccari (nato a Siena nel 1892), scrittore, pittore, incisore.
Maccari polemizzò contro gli epigoni del futurismo, giudicato
ormai «esperienza superatissima»; contro i rondisti, chiusi nella loro torre
d'avorio; contro il novecentismo di Bontempelli, fondatore, a Roma, della
rivista stracittadina, esterofila, europeista «900». Dopo alcuni anni dalla
Marcia su Roma (ottobre 1922), nel 1927, Maccari, con lo pseudonimo di Orco
Bisorco (e ne assunse altri) stese, nel «Gazzettino Ufficiale del Selvaggio», le linee programmatiche di Strapaese, movimento politico-culturale,
appoggiato anche da Curzio Malaparte, il quale aveva abbandonato «900».
Maccari proclamava «l'affermazione risoluta e serena del
valore attuale, essenziale, indispensabile delle tradizioni e dei costumi
caratteristicamente italiani, di cui il paese è insieme rivelatore, custode e rinnovatore...
la difesa di quegli elementi" di italianità che costituiscono le radici
naturali della civiltà nostra e della nostra potenza, contro teorie, pratiche
e tendenze che, sotto la specie della modernità, potessero inquinarli e
corroderli».
Ma quando il Duce ebbe (per dirla ancora con Montanelli) «congegnata una struttura politica, sociale, burocratica che rispondeva ai suoi
scopi... e la Rivoluzione, che continuava a qualificarsi tale, era divenuta amministrazione», Maccari assunse, in seno
al fascismo, la veste di polemista e di moralista, nella difesa di costumi «sobri», onesti, contro le
ipocrisie, il conformismo, il carrierismo, i titoli accademici privi di merito,
i profitti personali, che si andavano diffondendo nell'apparato burocratico. Era
manifesta in lui la nostalgia delle origini «rurali» e
rivoluzionarie del fascismo.
Maccari usò il suo stile satirico e la sua matita caustica
contro gli opportunisti e gli imborghesiti.
Tra i collaboratori de «Il Selvaggio» si ricordano Romano
Bilenchi, Luigi Bartolini, Vitaliano Brancati, Mario Tobino, i pittori Guttuso,
De Pisis, e l'altro noto strapaesano, il pittore, caricaturista e scrittore Leo
Longanesi, fondatore, a Roma, de «L'Italiano». Nel 1929 (anno in cui, 1'11 febbraio, avvenne la firma dei
Patti Lateranensi) ritroviamo Bargellini, Lisi e Betocchi accanto a Giovanni
Papini e a Domenico Giuliotti nella fondazione di una nuova rivista: «Il
Frontespizio», di indirizzo cattolico.
Nel maggio del 1929 ne uscì un solo numero, in occasione
della Festa del Libro, istituita dal fascismo. L'avvio della rivista avvenne
quindi dal gennaio del 1930. Nei primi fascicoli, gli articoli erano firmati da Papini, da
Giuliotti da BargeIlni, da Tito Casini (un avvocato); seguirono quelli di
Betocchi e di Lisi. Come «Il Calendario» aveva già mostrato uno spirito
strapaesano, anche «Il Frontespizio» fu concepito aderente alla concretezza
del quotidiano, alla semplicità dei costumi e del cuore, alle buone qualità
religiose e morali.
«Il Frontespizio», pubblicato dapprima dalla Libreria
Editrice Fiorentina, quando passò alla casa editrice Vallecchi, raggiunse un
notevole successo, poiché se ne stampavano, ogni mese, più di diecimila copie.
All'ombra della rivista nacque l'antologia — compilata da Lisi e da Hermet — «Scrittori cattolici dei nostri giorni».
Ma Bargellini, Papini, Giuliotti, invece della denominazione «scrittori cattolici», assunsero
«non sai se più cristianamente umile o
culturalmente rassegnata, quella di «cattolici scrittori...». Non si
consideravano scrittori perché cattolici, non intendevano esibire come
passaporto (o come alibi) la loro professione di fede cattolica; più
semplicemente si limitavano a dichiararsi cattolici che scrivevano, che facevano una professione e un mestiere di letterati»
[Come spiega, alla voce «Cattolica Letteratura», il Dizionario della Letteratura mondiale del 900,
Edizioni Paoline, Roma, 1980.].
In pratica, si susseguirono sulle pagine della rivista,
collaboratori di dichiarata fede, ed altri sul piano di una generica presenza
cattolica; alcuni nomi sono rimasti noti; altri si sono ormai eclissati
nell'ombra. Troviamo così Luigi Fallacara (entrato nella redazione nel
1932), Guido Manacorda, critico e scrittore, traduttore di Goethe; il
sunnominato Augusto Hermet, critico, traduttore di Novalis; padre Giuseppe De
Luca (Ireneo Speranza). Le illustraizoni erano di Manzù, Soffici, Morandi, Mafai,
Fazzini... La vera anima della rivista era Bargellini, che ne divenne il
direttore. Da vero poligrafo, e adottando pseudonimi diversi, egli scriveva
trattando svariati argomenti con una disposizione mediatrice e pedagogica
(d'altra parte proveniva dal mondo della scuola).
«Bargellini — come ha ricordato Carlo Betocchi — ha
inventato "Il Frontespizio" nel modo di comportarsi anche con il fascismo, in un
certo senso, perché il fascismo lo tollerava. Ma Bargellini era semplicemente
un uomo che credeva in se stesso e nella 'propria religione. Non è mai stato uno
spirito fascista, nemmeno una minima ombra» [Le citazioni che via via si
riportano (riferite rispettivamente a C. Betocchi, O. Macrì, P. Bigongiari, M.
Luzi, V. Pratolini, F. Ulivi, E. Vallecchi) sono tratte dalle «testimonianze»
raccolte nel volume di Giorgio Tabanelli « Carlo Bo, Il tempo dell'Ermetismo,
Garzanti, 1986.].
Betocchi conduceva la rubrica mensile «Letture dei poeti», Fallacara, «Prose di romanzi»,
Hermet (altro poligrafo), «Sorti di Melpomene»; Paoli, di
musica e di letteratura tedesca... Papini interveniva in momenti di polemica, con i suoi toni
vigorosi, che usò in specie contro il monismo idealistico (memorabile, tra i
suoi articoli, quello intitolato «Il Croce e la Croce»).
La posizione del «Frontespizio», in una così agitata
stagione storica, si manteneva, come s'è detto, ad opera soprattutto dí
Bargellini, su una linea di difficile equilibrio. Vi furono anche prese di posizione sia contro il nazismo, a
causa del suo fanatismo anti-religioso,, sia contro le teorie e pratiche razziste; ma
prevalsero atteggiamenti di conformismo concordatario, di consenso
all'autarchia culturale. Significativo, a tal riguardo, fu l'attacco (del
gennaio 1936) agli estimatori di Proust (autore tenuto in grande
considerazione — come si dirà — dalla rivista laica «Solaria»), nonché ai
lettori della «Nou velle Revue Francaise»: «Chi ama Proust non può amare la
serenità e la virilità latina... Un popolo latino e cattolico non può
riconoscere per sua la voce di una rivista come la "Nouvelle Revue Française dove Gide pontifica
e due giudei fan da colonne...».
Padre De Luca, pur essendo uomo dalle vaste letture, metteva
nondimeno in guardia dalla troppa soggezione verso certa letteratura cattolica
francese, improntata o all'estetismo o a un umanesimo cosmopolitico.
Era intanto venuto a Firenze, da Sestri Levante (dove era
nato nel 1911), dopo aver compiuto gli studi liceali in un istituto genovese
retto da Gesuiti, Carlo Bo, per frequentare l'università. Egli era stato
attratto dalla cultura cattolica fiorentina, di cui il maggior rappresentante
era Giovanni Papini. Ed infatti conobbe Papini e Bargellini; iniziò così la
collaborazione al «Frontespizio», dapprima con brevi racconti, e poi con
articoli di critica letteraria, con i quali cominciò a dmostrare le sue doti in
tale campo.
Dopo Bo, dal 1933-'34 sino al 1936, furono ammessi a
collaborare alcuni giovani, che erano tra i tanti iscritti all'università,
provenienti sia dalla Toscana sia da diverse parti d'Italia. Gli universitari si
incontravano ai tavolini del Caffè San Marco e. tra molti di loro. si stabiliva
una vera amicizia, così come avvenne per Carlo Bo, Leone Traverso, Tommaso
Landolfi, Renato Poggioli, Sergio Baldi, di tre o quattro anni maggiori di età
rispetto a Piero Bigongiari, Oreste Macrì, Mario Luzi, Alessandro Parronchi... Uniti dalla passione per la letteratura e per sempre nuove
letture, costoro si ritrovavano anche nelle principali librerie.
Come ha ricordato Oreste Macrì, «il nostro Pathos dell'umano
si esprimeva attraverso la voracità delle letture... I maestri li cercavamo nei
libri». I giovani, infatti, non disponevano di modelli viventi,
delusi com'erano da coloro che avevano fatto parte sia della «Voce» sia della
«Ronda». Come ha fatto rilevare lo stesso Macrì, Rebora si trovava in un
istituto rosminiano; Sbarbaro, sempre più appartato, collezionava licheni; Saba
se ne stava, lamentevole, nella sua bottega di antiquario; Cardarelli per lo più
taceva, malaticcio e scontroso... Papini, che pur aveva esercitato attrattiva,
nel primo Novecento, con la prorompente avanguardia e la sue avventure di ulisside
cerebrale, era ormai figura entrata nell'ufficialità; nel 1929 aveva aderito al partito fascista, nel '37 sarebbe diventato membro della R. Accademia d'Italia.
Pur avendo presente l'opera rinnovativa di Giuseppe
Ungaretti, i giovani poeti, a Firenze, si volgevano verso Eugenio Montale. Egli
si era trasferito dalla nativa Genova, nel 1927, nel capoluogo toscano. Aveva
pubblicato Ossi di seppia nel 1925 e nel 1928 (II ediz.), libro accolto con
favore da Cecchi, Solmi, Gargiulo... Dal 1929 era direttore del Gabinetto
Vieusseux. Montale svolgeva un'intensa attività critica e anche di traduttore
(da Eliot, Guillén, L. Adams). Egli trascorreva molte ore al Caffè delle Giubbe
Rosse, dove restava per lo più silenzioso, pur se «lampeggiante di sguardi
furtivi, ma attenti», come ha detto Bigongiari.
Betocchi, benché appartenesse ad un'altra generazione, si
mostrava, nell'àmbito del «Frontespizio», il più comprensivo verso i nuovi
collaboratori. Essi, tuttavia, apparivano strani, distaccati dalla realtà
sociale, chiusi nella propria intimità che analizzavano in una inquieta ricerca
spirituale tesa a scoprire «il gusto sottile e segreto dell'essere», mentre,
dattorno, la propaganda stentorea magnificava i fasti del fascismo e una
nsicità vigorosa e pugnace.
Tali giovani, ostinati nel ricercare opere straniere,
avevano letto le pagine di Bernanos e di Mauriac, scrittori considerati
cattolici, ma anche tormentati indagatori del cuore umano; meditato su Gide,
Charles Du Bos, Jacques Riviere; leggeranno Miguel De Unamuno... Seguivano
regolarmente «La Nouvelle Revue Française», dove trovavano gli scritti di
Gide, Proust, Cocteau, Valery, Rilke, Malraux, Mauriac... Cercavano di mettersi in contatto, quasi clandestinamente,
con le riviste e i libri del surrealismo.
Nel 1934, ad esempio, Carlo Bo scrisse sul «Frontespizio»
un articolo dal titolo «Riconoscenza alla poesia», prendendo lo spunto dal saggio di
Marcel Raymond De Baudelaire au surréalisme. Tale libro venne poi ritenuto
fondamentale per le tante conoscenze e gli approfondimenti che offriva.
In quegli anni la cultura
italiana, in specie quella accademica, era fortemente influenzata dal
crocianesimo. E Croce, nei suoi ultimi saggi critici :aveva espresso giudizi
negativi sulla letteratura nuova, in particolare su quella decadentistica.
Invero rari docenti universitari più aperti al nuovo, come Luigi Foscolo Benedetto
(1886-1966), professore di letteratura francese (ci furono tra i suoi allievi
Ferrara, Giacomo Debenedetti, Sergio Bo e Luzi) e sensibile critico,
presentavano, pur con cautela le invenzioni della lirica francese dell'ultimo
Ottocento e del primo Novecento.
Mallarmé non era contemplato nei programmi, ma molti giovani nel 1935-'36, lo
lessero per proprio conto, vedendo in lui la sintesi di tutto il movimento
simbolista.
All'interesse per la letteratura francese seguì quello per la
letteratura spagnola, soprattutto allo scoppio della Guerra Civile e alla
notizia della fucilazione di García Lorca, nel 1936. Nel luttuoso evento Bo
tradusse il «Llanto por Ignacio Sànchez Mejías» e Macrì (che diventerà poi
un ispanista), la «Ode a Salvador Dalí». Bo, dunque, era interessato sia alla
letteratura spagnola sia a quella francese; Luzi (che si era laureato con una
tesi su Mauriac) a quella francese, come Bigongiari, che tradusse Rimbaud ed
Éluard; Baldi traduceva dall'inglese; Poggioli e Landolfi, dal russo; Traverso,
dal tedesco.
Bigongiari ha detto: «Credo che questo "quadro" dia una
certa idea del tipo di lavoro che in quegli anni oscuri stavamo compiendo di
allargamento del campo, direi visivo, in una specie di suspense etica
dell'immaginario poetico europeo».
Con l'entrata nel «Frontespizio» dei giovani collaboratori
(Bo, Macrì, Baldi, Traverso, Parronchi, Landolfi, Luzi, Vigorelli...)
comparvero nelle pagine della rivista, pur ricevendo accoglienza poco lieta,
articoli riguardanti l'opera e il pensiero di autori stranieri, come Tolstoi,
Alain-Fournier, Rivière, Girandoux, Mauriac, Renan, E. Hopkins, Unamuno,
Éluard, Eliot...
Aperta alla cultura europea era già la rivista «Solaria»,
il cui primo numero uscì a Firenze nel gennaio 1926, ad opera del fiorentino
Alberto Carocci, poco più che ventenne; nel novembre dello stesso anno si era a
lui associato, come condirettore, Giansiro Ferrata, sostituito, poi, nel
novembre del 1930, da Alessandro Bonsanti, altro fiorentino. Nel 1933 Carocci tornò ad
essere l'unico direttore, sino alla pubblicazione degli ultimi numeri.
«Solaria» era un periodico elitario, indirizzato all'ambiente letterario; non
avrà mai una tiratura superiore alle settecento copie. Vi collaboravano, oltre a
Bonsanti e a Ferrara, Giacomo Debenedetti, Sergio Solmi, C. Emilio Gadda, Arturo
Loria, Eugenio Montale, Elio Vittorini. Essi erano di tendenze diverse, ma nella rivista, che
conservò un carattere «sperimentale», si evitarono i contrasti, attuando
quella che fu definita «repubblica delle lettere».
La tensione europeistica dei solariani era ben evidente nel
loro tentativo di non cedere alla retorica, al provincialismo, all'autarchia
culturale; nel rifuggire dai richiami provenienti dalle altre riviste fiorentine
ligie al fascismo, come «Dedalo» (1920-233), «Pègaso» (1929-1933) e «Pan»
(1935-1936), fondate e dirette da Ugo Ojetti. Queste proponevano di ricollegare il presente al passato e di
mettere «chiarezza, ordine e schiettezza italiana in ogni campo
dell'intelligenza originale».
Ma i solariani si volgevano verso la narrativa drammatica e
umana di un Dostoevskij; verso Proust e Valery («Proust — scriveva Vittorini —
è il nostro maestro più genuino... Per mezzo di Proust si è stabilito uno
scambio effettivo tra l'Europa e noi»); mostravano i primi interessi verso
scrittori anglosassoni contemporanei. La loro attenzione critica era per opere italiane, che —
come scriveva Ferrata — «maturassero d'accordo con i tempi europei».
E avrà fama europea, dopo la morte, Italo Svevo (che visse
isolato nella sua Trieste), alla cui opera narrativa la rivista aveva dedicato
un numero speciale.
I palesi orientamenti esterofili non potevano a lungo essere
tollerati dal regime, che trasse pretesto da due scritti. (uno di E. Terracini
e l'altro di E. Vittorini) ritenuti offensivi della morale e del buon costume,
per sopprimere la rivista nel 1936.
Giungevano intanto le notizie degli avvenimenti politici che
accadevano in Spagna dove; nel 1931, era stata proclamata la repubblica. Dalle
elezioni svoltesi nel febbraio 1936 era uscito vincitore il Pronte popolare (costituito
dall'unione di partiti di sinistra) che aveva formato il governo. Contro lo stato
repubblicano iniziò, nel luglio dello stesso anno, l'insurrezione armata
guidata dal gen. Franco. Questi riceverà sempre più consistenti aiuti militari
da parte dell'Italia e della Germania nazista.
La guerra civile spagnola indusse, in Francia, gli scrittori
cattolici, primi Maritain e Mauriac, a condannare il tentativo di Franco di
abbattere lo stato repubblicano democraticamente eletto. L'opposizione all'ideologia fascista e nazista in Francia
era manifesta. In Italia c'era, ma in maniera del tutto nascosta. Mario Luzi ha ricordato:
«Non un antifascismo militante,
non un antifascismo attivo. Era un rifiuto che favoriva piuttosto la ricerca
interiore, diciamo il riflusso verso valori propri».
E abbiamo già detto di questi letterati che si chiudevano in
se stessi, che si appartavano, attenti al proprio mondo interiore,
esprimendosi diversamente dalla ricorrente maniera di chi dannunzieggiava o si
rifaceva a un futurismo ridotto ormai all'ufficialità del regime o si ammantava
presuntuosamente di romanità e di pseudo-classicità. Non si tardò molto a
definirli oscuri, arcani, ermetici.
Come ha rilevato Carlo Bo, «l'appellativo di "ermetico" non
fu adoperato quando apparvero per la prima volta le poesie di Ungaretti e quelle
di Montale, ma molti anni dopo, verso il 1935-'38» [Nel
capitolo «La nuova
poesia» in: Il Novecento, di Aa.Vv., torno II, Garzanti, 1987.]. Precedentemente si era
parlato piuttosto di «poesia pura».
Nella loro ansia di conoscenza della stimolante letteratura
europea, gli «ermetici» accettarono soprattutto le proposte del decadentismo
francese, del simbolismo, del surrealismo. Secondo alcuni critici, essi
portarono «all'estremo epilogo» di pura letterarietà tali proposte; secondo
altri, le superarono in «un nuovo concetto dell'esistenza», come apparirà
dal saggio di Carlo Bo «Letteratura come vita». Gli «ermetici», isolati in campo letterario, sul piano
politico e sociale vennero riguardati come antifascisti.
Ad un certo momento — ha ricordato ancora Bigongiari — «alcuni pseudoletterati, che si dichiaravano fascisti
di fede intemerata» li segnalarono alla polizia: «Guardate che questi ermetici si chiamano così, ma
sono antifascisti». Verso la fine del 1936 essi presero a frequentare il Caffè
delle Giubbe Rosse. Questo si trovava nella piazza allora denominata Vittorio
Emanuele; di fronte aveva il Paszkowski, pur esso rinomato ritrovo di letterati
e di artisti.
Alle Giubbe Rosse continuavano ad andare i solariani, anche
dopo la soppressione della loro rivista. Vi si potevano vedere, tra i più
assidui, Bonsanti, Loria, e Montale, col suo gruppetto di montaliani. E lì avvenne l'incontro, e l'integrazione, (spesso, tramite
Vittorini, ma le amicizie nacquero anche spontaneamente) tra i nuovi e coloro
che avevano già un passato, che erano già qualcuno, anche se conosciuti
soltanto in determinati ambienti, come Montale.
Alle Giubbe Rosse, all'inizio del 1937, fece le sue prime
timide comparse, introdottovi da Elio Vittorini e da Ottone Rosai, Vasco
Pratolini. Il giovane era cresciuto nei vicoli della vecchia Firenze,
dove era nato nel 1913 e dove abitava vicino alla casa del pittore Rosai. Aveva
esercitato diversi mestieri; aveva frequentato la casa editrice Vallecchi, come
correttore di bozze. Autodidatta, aveva scritto i suoi primi racconti, che
l'editore gli aveva stampato.
Pratolini conobbe Montale; conobbe gli «ermetici», che si
sarebbero presto distaccati dal «Frontespizio»; e Alfonso Gatto, che intanto
era giunto da Milano. Questi, nato a Salerno nel 1909, aveva girato per diverse
città, facendo svariati mestieri; da ultimo aveva scontato sei mesi di carcere,
.a S. Vittore, per antifascismo.
Nel gennaio 1937, ecco A. Bonsanti dar vita, stampatogli dai
Fratelli Parenti, al trimestrale «Letteratura», che era la continuazione
ideale di «Solaria». Di questa conservò il gusto delle sperimentazioni
formali; e ne proseguì la tendenza europeistica. Va rilevata la collaborazione
di Gianfranco Contini, professore di filologia romanza nell'ateneo fiorentino e
critico letterario con indirizzi innovatori.
Il periodico accolse in un costruttivo eclettismo esperienze
culturali diverse, sia degli ex-solariani, sia dei giovani «ermetici», sia
dei letterati che mal tolleravano il conformismo al fascismo delle riviste
dirette da Ugo Ojetti.
E nell'agosto uen anno
seguente, usci dall'accordo (maturato sempre nel clima delle Giubbe Rosse) tra
Gatto e Pratolini, il «quindicinale di azione letteraria e artistica»,
denominato «Campo di Marte»; editore Enrico Vallecchi. L'intento era quello
di educare il pubblico alle opere di poesia, di pittura e di musica
contemporanee, con un'azione mediatrice, quindi, tra lettori e cultura.
In «Campo di Marte» cercavano di coesistere sia la ricerca
individuale, volta all'interiorizzazione, dei collaboratori ermetici (Bo,
Bigongiari, Luzi, Macrì, Parronchi...), sia l'istanza sociale espressa
soprattutto da Gatta e da Pratolini. Invero la rivista si restrinse presto in un
ambito più strettamente letterario. A detta dello stesso Pratolini, essa diventò innegabilmente
«anche» l'organo ufficiale dell'ermetismo, come apparve allora ed è stata poi
ritenuta. A «Campo di Marte», tuttavia, collaborarono non solo eli «ermetici».
Gli avvenimenti succedutisi nel 1938 in seno alla redazione
del «Frontespizio» furono riportati [Nella sua aneddotica
«Storia del Frontespizio»,
pubblicata nel 1938, nel n. di dicembre della rivista.], con uno stile colorito, dal già
nominato Augusto Hermet: «Erano sorti da arcane ombre Alfonso Gatto, Mario
Luzi, Oreste Alacri. e Parronchi, amici in Letteratura... Verso la fine di
giugno dell'anno XVI, l'editore Vallecchi ascoltò le proposte dei giovani
arcani, accompagnati dal luminoso Bargellini. Il glauco Alfonso dai
grand'occhi lunari nella testa dolcemente persuasa verso la spalla, e Carlo
Bo, ed il sottile Luzi riarso, e il basso occhialuto Macrì, parlarono ad uno ad
uno... Nel bel settembre, il placido Bo, al convegno degli scrittori cattolici
[Convegno tenutosi nel Convento di San Miniato al Monte.
Il saggio verrà pubblicato, come detto, sul «Frontespizio»; farà poi parte del volume contenente altri saggi di Bo,
Otto
studi, edito da Vallacchi nel 1939.], con la sua spoglia voce, parlava di Letteratura come vita... Alcuni
temettero una deplorevole incrinatura nell'amhipito binomio
scrittore-cattolico.
Dalla sua «Arca dei semplici» [E' il titolo dell'opera
di narrativa pubblicata da Nicola Lisi in quel 1938 a Firenze.] l'esòpo Lisi mandò una
colomba. Carlo Bo ascoltava consensi, obiezioni e contrasti. Lo stuolo discese
dal colle verso il mansueto fiume, come fa notare Giuliano Innamorati [Nel
capitolo «Il
Frontespizio»: ideologia ecclesiale e pratica eclettica» in: Novecento - I
Contemporanei, di Aa.Vv. vol. V., Marzorati Edizioni, Milano, 1979.]
si avverte nelle parole di Hermet «un che di stupito e di imbarazzato nei confronti
degli ermetici, e sotto la disinvoltura cordiale e sempre un poco goliardica
senti la sorpresa e la delusione del vecchio frontespiziaio per un'esplosione
repentina di chiarezza assoluta, di scelte definitive e di problemi vissuti, che
spezzano irrimediabilmente l'equilibrio tradizionale della rivista».
Dopo lunga meditazione, Carlo Bo (definito da Bargellini «bue muto delle discussioni redazionali») aveva steso il saggio
«Letteratura
come Vita». Dopo il congresso, esso venne pubblicato, nello stesso mese di
settembre, sul «Frontespizio».
Vi si leggeva: «Rifiutiamo una letteratura come
illustrazione di consuetudine e di costumi, aggiogati al tempo, quando sappiamo
che è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di .noi
stessi, per la vita della nostra coscienza». Parole nelle quali si può avvertire l'eco di quelle di André
Gide: «Per noi soltanto ha valore ciò che nella vita intellettuale può
diventare consustanziale alla coscienza».
Letteratura, dunque, come fatto interiore, presa di
coscienza, impegno etico in una ricerca del vero che si spinga oltre la
superficie della realtà storica contingente, considerata «tempo minore»
rispetto a quello «maggiore», interno, dell'anima.
Negli anni dal 1935 al '40, nell'area dell'ermetismo (che si
sviluppò anche, ad esempio, attorno al settimanale milanese «Corrente», dal 1938 al '40) , è chiaro che fu l'intonazione
«fiorentina» a prevalere sulle altre, per la sua compattezza e centralità... La giustificazione che Bo ha sempre dato al fenomeno
dell'ermetismo ha radici più complesse di quanto potrebbe apparire
considerandolo sul piano puramente critico. Giunge ad essere, anche senza
l'aperta spiegazione religiosa, una giustificazione morale e di costume
spirituale per quella parte della «coscienza letteraria» di cui egli e i suoi
sréali fiorentini si sentivano interpreti [G. Spagnoletti,
Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton Compton Editore,
Roma, 1994.].
Ferruccio Ulivi (nato a Borgo S. Lorenzo, Firenze, nel 1912)
scriverà: «La letteratura ha una funzione spiritualizzatrice dall'interno ed a
priori, e non esaltatrice a posteriori». Tale affermazione, nella
particolare condizione storica, intendeva anche ribadire l'autonomia della
letteratura da ogni mistificazione e dalle parole d'ordine della ben
organizzata «politica culturale» del fascismo, che attendeva dagli scrittori e
dagli artisti una letteratura e un'arte che fossero al «servizio della Causa»,
celebratrici dei suoi miti e delle sue realizzazioni.
Dopo la secessione di Bo e dei giovani «letterati» dal «Frontespizio», Papini e Soffici affiancarono Bargellini nella direzione della
rivista; redattore era Barna Occhini (genero di Papini). Essi intendevano riallacciarsi agli esordi, quelli vicini a
posizioni strapaesane, soprattutto nella difesa della tradizione nei suoi
elementi di italianità e di romanità. Si può ricordare che nel 1939 Papini
pubblicò a Firenze, Italia mia, libro traboccante di retorico patriottismo.
In «Campo di Marte», invece, continuò costante l'interesse
verso gli scrittori stranieri, dei cui testi, ad esempio, fu interamente
composto il numero di novembre del 1938. E arrivò la solita accusa di
esterofilia, insieme con quella di fronda, per le ripetute omissioni nei
confronti della cultura fascista e del Duce [Riguardo alla
posizione assunta da qulla parte
degli intellettuali cui egli appartenne di fronte al regime, Carlo Bo ha successivamente
scritto: «Quando si deve giudicare la poesia, la letteratura e l'arte di quei
tempi, ci si ricordi di misurare accanto a quello che non abbiamo fatto, tutto
quello che ci era stato chiesto e non abbiamo fatto, insomma di misurare la
parte delle colpe con quella delle omissioni studiate. E' stata una
letteratura... di stato d'assedio. Da:.Gli intellettuali italiani e il fascismo, in:
Il Novecento, Milano, 1979.]. In effetti, come ha ricordato Enrico Vallecchi,
«in un anno
di pubblicazioni comparvero diciassette numeri: ebbene non fu mai nominato,
nemmeno una volta, né il Duce né il nome di Mussolini». A Vallecchi fu
intimato di cessare la pubbilcazione il 1 agosto 1939. Alfonso Gatto ritornò a
Milano.
Nel 1938 Montale era stato allontanato dal Gabinetto
Vieussieux, per antifascismo. «Il Frontespizio» chiuse il suo decennio di vita nel 1940.
Già nel settembre 1939 era iniziata la Seconda Guerra Mondiale che protrarrà
per lunghi anni i suoi orrori.
Crollate le dittature, nel secondo dopo-guerra sarà ben
mutato il panorama storico-sociale. In letteratura, rifiutato l'ermetismo, si
parlerà di neorealismo e di «engagement». Il polo della cultura da Firenze si
sposterà a Milano.
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