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Cadeva nel 2009 il cinquantesimo anniversario della morte di Vincenzo Cardarelli (pseud. di Nazareno Caldarelli). Era nato nel 1887 a Corneto Tarquinia (oggi Tarquinia, in prov. di Viterbo) dove suo padre gestiva il buffet della stazione ferroviaria. Frequentò soltanto le classi della scuola elementare; poi fu autodidatta, formandosi, in particolare, sul Leopardi e sul “maestro Dante”, ma anche su Baudelaire, Pascal, Bergson, Nietzsche, Ibsen. Diciannovenne andò a Roma, dove si adattò a diversi mestieri. Nel 1909 fu ammesso alla redazione dell’”Avanti!”; vi rimase sino all’ottobre del 1911. Trasferitosi a Firenze, continuò a collaborare ai giornali e a frequentare i caffè, allora animato ritrovo di letterati. Non partecipò alla Grande Guerra, poiché gli era rimasto menomato il braccio sinistro a causa della poliomielite. Nel 1919, a Roma, poté attuare, insieme con alcuni amici, il progetto della “grande, mitica rivista”: “La Ronda”, che uscirà per quattro anni. Cardarelli propugnò un classicismo – secondo quanto egli stesso scrisse – “metaforico e a doppio fondo” al fine di “realizzare delle nuove eleganze, perpetuare la tradizione della nostra arte, essere moderni alla maniera italiana, senza spatriarci”. Spesso “distorto e amaro nelle sue esasperazioni”, [G. Spagnoletti, nella sua Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma, 1994.] soprattutto nelle polemiche, Cardarelli, al contrario, nelle opere di narrativa (“Viaggi nel tempo”, 1920 - “Favole e memorie”, 1925 - “Il sole a picco”, 1928…) s’è abbandonato, con l’animo fattosi sereno, e assecondando il gusto squisito della prosa d’arte (comune ai rondisti), alla descrizione di luoghi, in specie della mitica Etruria, e degli usi e costumi cornetani; ha richiamato, con diletto, i teneri anni, conferendo al racconto un alone fantastico, ma conservandogli anche carattere umano, familiare, cordiale. Nel 1940 il Nostro collaborò al settimanale “Il Tempo” di A. Mondadori, presso il quale pubblicò le “Poesie” (1942). Cardarelli ha rivelato. “La vita per me non è stata che una lunga malattia… sono sempre vissuto come un convalescente”. Tale condizione precaria si riflette in gran parte delle liriche, poiché il poeta ha sperimentato il succedersi dei fallimenti (“Quante cose cominciate / e rotte nella mia vita”…) delle sospensioni, delle cadute, delle frantumazioni (“Le mie giornate sono / frantumi di vari universi”), nonostante l’aspirazione alla continuità, alla stabilità, alla certezza dei “tempi fermi”. Gli anni, dopo quelli “grandi e pieni” della giovinezza, sono “andati giù rovinosi in pendio”; è sopraggiunto presto l’autunno a dire addio al miglior tempo della vita… P.V. Mengaldo, a tal riguardo, ha rilevato che “il tema nucleare di questo poeta è il tempo. Non il tempo storico, si capisce, ma il tempo biologico quale si cristallizza percettibilmente nel trapasso delle ore, dei mesi e delle stagioni, che sono difatti temi dominanti”. [In Poeti italiani del Novecento, Milano, 1990.] Anche nelle “Poesie”, nondimeno, non mancano pause distensive, vissute davanti a un calmo paesaggio, come quello della Liguria, “terra leggiadra”; in armonia con la natura, da cui il poeta ha ricevuto emozioni intense, tali da dire: “Questo liquido verde, che rispunta/ fra gl’inganni del sole ad ogni acquata, / al vento trascolora, e mi rapisce, / per l’inquieto cammino, / sì che teneramente fa star muta / l’anima vagabonda”. (“Sera di Gavinana”). L’emozione ha toccato l’acme, quando Cardarelli s’è affidato alla “felicità degli spazi”, ai “grandi mattini”, alla “certezza di sole”, di cui è pròdiga la “distesa estate…stagione la meno dolente/ d’oscuramenti e di crisi”. (“Estiva”). Durante la II Guerra Mondiale Cardarelli trascorse lunghi periodi a Corneto. Era ormai malato e indigente. Nel ‘49 gli fu offerta la direzione de “La Fiera Letteraria”. A Roma, negli anni Cinquanta, egli frequentava, in via Veneto, il caffè Strega, dove sedeva chiuso nel cappotto nero col bavero di pelliccia, e col grigio cappello in testa. Rimaneva arcigno e taciturno, se non se ne usciva con qualche sua battuta tagliente, perentoria. Egli aveva già confessato: “Sogno partenze assurde, / liberazioni impossibili…/ Io annego nel tempo”. Era il declino di un’esistenza singolare tra quelle degli scrittori del Novecento, soprattutto per la sua appassionata dedizione, sostenuta da vocazione sincera, alla letteratura. Il Nostro – come scriveva in “Solitario in Arcadia”, nel 1947 – aveva una concezione rigorosa: “L’arte non è un dono gratuito, ma sopravviene, se mai, all’uomo che ha saputo privarsi di ogni altra soddisfazione. La vita è per l’artista tutta da mortificare e da reprimere in vista dell’opera che ne dovrà scaturire: una perpetua attesa, una costante vigilia”. Seguendo in maniera seria la sua vocazione, Cardarelli ha condotto, secondo la sua stessa “indiscrezione”, “la vita d’un profugo e d’un mendicante”. [In Poesie nuove, Venezia, 1946.] Una vita nella quale nessuna conquista economica e sociale è riuscita a stabilirsi e a consolidarsi, giacché “circa la possibilità di arricchire o di ottenere facili e clamorosi onori, coltivando le belle lettere, io, – ha ancora confessato Cardarelli – per mio conto non mi sono mai fatto illusioni di sorta”. Il poeta si spense a Roma il 15 giugno 1959. Postume sono state pubblicate le sue “Lettere d’amore a Sibilla Aleramo” e, nel 1980-81, le lettere a decine di corrispondenti. Riunite nei due volumi dello “Epistolario” esse testimoniano tutto il travaglio esistenziale del loro autore, ma costituiscono anche una ricca miniera di notizie sull’ambiente letterario fiorentino e romano. Come ha scritto Giacinto Spagnoletti, “centinaia di figure ci sono avvicinate da una lente implacabile. Più ancora potremo saperne quando saranno note molte altre lettere ai familiari e quelle indirizzate ad amici letterati (Bacchelli, Baldini, Saffi, ed altri) che per ora mancano. Tutto il momento storico de “La Ronda” verrà in evidenza con una fisionomia fin qui inedita”. [Nell’opera citata.] Giuseppe Villaroel ha lasciato di Cardarelli un ritratto sintetico, ma efficace: “È un miscuglio di calma e di bollore, di modestia e d’orgoglio, di ingenuità e di malizia; ora cauto, ora distratto, ora socievole, ora no; ora paziente, ora collerico e inesorabile. E nonostante tutto si fa voler bene, perché, al di là degli strali e delle arguzie, sta chiuso nella sua austera solitudine di uomo e di poeta”. [In Gente di ieri e di oggi, Bologna, 1954.] |
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