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Il tuo corpo elettrico

La nostra amica “accademica”: Leda Palma nel girotondo dei gatti

Cronache dal nord-est

Certo uno se lo domanda: ma come ci si sente a portare in giro il titolo di “Accademico dei Gatti Magici di Fiesole”. La nostra amica lo farà con estrema disinvoltura e ne sarà orgogliosa. È forse l’ultimo degli appellativi, il più ambito, da aggiungere alla cospicua lista già in uso: attrice, conduttrice, regista, autrice di sceneggiati, saggista e, naturalmente, poeta. Numerose le sue raccolte di versi: Ho ripiegato l’alba, I rami fatti cima, Là dove l’ombra, Sole d’Aral, Ingiurie e silenzi, Tibet degli ultimi (per non parlare dei racconti e degli appunti critici). Noi – che abbiamo ormai memoria corta – ricordiamo le sillogi più recenti. E ricordiamo, un paio d’anni fa, Leda attrice e autrice insieme in un suggestivo recital delle sue poesie tibetane sullo sfondo di esotici strumenti. Ancora più vicina nel tempo l’immagine di lei in ruoli più quotidiani di amica e ospite nella casa avita di Pagnacco, appena fuori Udine, dove è nata e dove vive con la sorella. Dietro la casa un lungo prato verde e, sulla destra, una macchia scura d’abeti e cipressi secolari. Fu in quell’occasione che ci presentò en passant, nella loro intima felinità, alcuni dei suoi molti gatti: più o meno ammessi ai penetrali domestici, alcuni immigrati di fresco o ancora stanziati sulla soglia, una zampa di qua e una di là.

Questa varietà di atteggiamenti e questi diversi gradi di familiarità ritornano appunto nell’ultimo suo libro, ai gatti interamente dedicato: Il tuo corpo elettrico, (Campanotto 2014), baudelaireiano nel titolo, dal respiro di un poema o meglio di un romanzo gremito di personaggi. Libro speciale anche perché può avvalersi di uno sponsor di lusso: Giorgio Celiberti, pittore e scultore di fama internazionale, anche lui udinese di nascita e appassionato di gatti. Ricordavamo infatti, in una straordinaria mostra recente alla Villa Manin di Passariano, la grande sala con un’asse posta di traverso e lassù allineati come tanti soldatini decine di gatti in terracotta policroma, diversi l’uno dall’altro per foggia e colore. Ebbene il Maestro non solo ha concesso all’amica di riprodurne parecchi a decorare il suo libro ma altri schizzi vi ha aggiunto vergati di sua mano per l’occasione.

Ne è uscito un volumetto squadrato con eleganza a cui anche l’editore Campanotto ha dato il meglio di sé. Fin qui l’aspetto esterno e scenografico dell’opera. Ma è la dentro, tra le pagine, che vivono di vita propria, possiamo ben dirlo, i gatti di Leda: Ninfa, Milos, Beniamino, Teresina, Horus, Marx, Ipazia, Rachele, Leonilde, Liliom, Ciop, Clotilde, Spina, Ares, Haiku, Mirta, Cip e Malik (sperando che nessuno manchi all’appello) formano una schiera davvero indimenticabile, ognuno di loro individuato da una storia e da un carattere, un profilo che non si confonde nella genericità della specie, maschi o femmine che siano: domestici – come dicevamo – o meteci, transfughi, extracomunitari, malandrini o randagi, beneducati e accolti in famiglia, fin nella camera stessa della padrona. Detto così pare frivolo. E un po’ salottiera è quella infinita aneddotica (non basterebbe una enciclopedia) che unisce lungo i secoli i gatti ai loro ammiratori, artisti e poeti, dame gentili o galantuomini seriosi. Di alcuni di questi gatti, data la fama dei loro protettori, si ricordano anche i nomi. Persino Maometto, si dice, aveva cara una gatta che si chiamava Muezza. E quella di Dickens si chiamò Williamina quando si capì che era una femmina, e mutò nome da William che era già stata. Del resto l’intera letteratura è convocata nel libro stesso di Leda, attraverso le citazioni che in esergo rimbalzano di pagina in pagina: attestazioni di affetto e acute impressioni che provengono dagli autori più disparati. Da Walter Scott a Doris Lessing, da Gautier a Hemingway, da Dario Bellezza a Cesare Pavese, da Pessoa a Neruda, per nominarne solo i più celebri. Non c’è dubbio che il fascino esercitato da questi animali sulle persone più sensitive, e gli artisti in particolare, sta proprio nella loro indole, così cangiante e imprevedibile da rinnovare continuamente il nostro stupore. Pigri e vivaci, famelici e morigerati, timidi e rissosi, desiderosi di protezione ma anche fieri della loro indipendenza, pronti più a ricevere che a dare, egoisti ma indubbiamente anche capaci di riconoscenza e di affetto. Il gatto a ben vedere, vezzeggiato più che sfruttato, non ha mai concesso un’unghia della sua libertà: unico tra gli animali domestici che l’uomo non sia mai riuscito ad asservire o a costringere – come il cane, il bue o il cavallo – a qualche lavoro di pratica utilità; ché anche dare la caccia ai topi era nella sua natura, un piacere semmai più che un dovere.

Questo è anche ciò che si evince dalla lunga galleria di soggetti, tutti puntigliosamente delineati nelle loro caratteristiche individuali, che la nostra autrice ci propone. L’affettuosa vicinanza che Leda dimostra per i suoi protetti in queste pagine non trascende mai nel sentimentalismo. Se c’è anzi una peculiarità che contraddistingue questo libro dai tanti consimili è il rigore con cui rappresenta queste creature nella loro esistenza naturaliter vissuta e sofferta: scontrosa quanto basta per non essere umanizzata troppo disinvoltamente in termini simbolici o favolistici. Piuttosto è il mistero della loro variegata psicologia a suggerire spunti di riflessione che ci coinvolgono in un gioco serrato di elementi essenziali: la nascita, la vita, l’amore, il dolore, la morte, in questo sì mostrandoci gli animali prossimi a noi in uno stesso spazio creaturale.

Ecco dunque come in una scrittura anche secca e puntuta, a volte contratta, quasi frenata da un ritegno, con qualche forzatura del tessuto ritmico o sintattico, tesa sostanzialmente alla concisione, la nostra autrice evita di cadere nel mito consolatorio dell’eterna vitalità felina o nella contemplazione estetizzante. Lo vediamo già nel primo testo (Ninfa): dove all’inizio sembra quasi ricambiare il soggetto rappresentato della sua stessa diffidenza: freni la corsa / a distanza d’esitazione / desiderio e paura / di carezze…; ricuperando poi la prossimità della creatura, diversa eppure sentita nel flusso emotivo così simile a sé nella disposizione a rischiare un segreto / uguale al mio / tornare al tempo / di Dio. Questa la spiritualità di fondo, in varie forme già diffusa in Leda nelle opere precedenti, mai scompagnata tuttavia dalla dimensione meditativa. Il rapporto anche qui rimane sempre dialettico: di osservazione e di immedesimazione. Chi sono io per te? – si domanda, mettendosi dall’altra parte. Insicurezza? Bisogno d’amore? Milos incarna bene l’inquietudine che comunica una perplessità irta di contraddizioni: Esci dal giorno all’improvviso / e mi sussulti / gatta dal volto triste… Il gattone nero Beniamino (La notte apre gli occhi / insieme a te giallo di luna) è il beneamato: e ritornerà infatti, in posizione privilegiata, nella pagina conclusiva del libro. Dalle zampe immobile fino / al balzo del mio cuore. Quegli occhi gridano come spade. E lei, l’autrice, se ne sente giustiziata, come immersa da quello sguardo in una misteriosa condivisione del dolore cosmico. C’è poi il tema della maternità: in una pagina che prevede due protagoniste (Rachele e Leonilde) ammiriamo la sollecitudine con cui la vecchia gatta capostipite, pur lenta e senza voce per l’età, soccorre, abile ostetrica, la più inesperta compagna. In un’altra ci turba invece l’ambiguità di Clotilde, già buona madre una volta, che ora rifiuta il latte a un cucciolo mal riuscito della nuova nidiata e se ne va sdegnosa: comportamento che istiga l’allarme rafforzando / l’ombra e noi mutati in isola / senza il tuo presente; tesissima ma efficace formula per dire di chi resta sospeso a interrogarsi sulla labilità dei confini tra amore ed egoismo. In altra pagina ancora ci sorprende il contrapposto umore delle gattine gemelle Ninfa e Spina, in tutto simili, tranne la macchia marrone sulla fronte, nell’una a destra nell’altra a sinistra: l’una non è curiosa ed è priva di utopie; l’altra, affascinata dall’acqua della fontana che scivola via sembra chiedere solo la fiaba di sognare.

Altri testi infine quasi insensibilmente si trasformano in epigrammi funebri, in accorati congedi. Scorriamo questi incipit: Sono qui costernata / a bagnare di pianto /il fuoco del tuo manto (Marx); Posso dire di conoscere / solo la tua morte (Cip); Il pelo sa di morte / alla mia mano attenta (Rachele, ancora); Te n’eri andato / quasi adolescente (Malik). Si succedono in poche pagine; gli ultimi tre come in una continuata sequenza. Sono compianti dolenti, dettati da intensa partecipazione di fronte al mistero della vita e della morte. Confortata però dalla convinzione segreta che non si adegua alla cadenza / del comune luogo e falso: non è vero che l’animale sarebbe privo di un’anima immortale. Anche quella del gatto, dunque, darà bagliore di risveglio…e incanto (Cip). Idea, questa, destinata a tornare in altra forma nella pagina conclusiva (Beniamino, ancora): una dichiarazione d’amore, o più che amore l’assoluta certezza di una comunanza di destini: … vieni ti aspetto / chi oserà dire che sei solo corpo / quando ti stendi accanto al mio cuscino… Tanto da coinvolgere nell’appassionata invocazione, come in un unico nodo, anche la parola poetica che la sottende: …nero gatto buio folate d’ignoto / mi sorprendono / mi tremano sulla pelle / vieni poesia difendimi / la parola donami essenziale / nero gatto ricordami / di non morire…

Recensione
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