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Genealogie femminili e anima dei luoghi
Questo
romanzo di Annamaria Cielo, scrittrice trentina attiva anche in poesia, non è
soltanto una saga familiare lunga tre generazioni; è la storia di una genealogia
femminile che attraversa gran parte del ventesimo secolo e ne riassume le
energie, le contraddizioni, le conquiste e la cadute. Bruna, sua madre Eleonora
e sua figlia Mariaeva, alter ego dell’autrice, sono tre donne carismatiche
accomunate da un destino di responsabilità, intesa letteralmente come la
risposta a una chiamata della vita. Il loro carisma, pur nella diversità delle
vicende, consiste nel portar pace attorno a sé e unità fra i propri cari, anche
nei momenti di difficoltà. Come scrive l’autrice riferendosi alla capostipite di
questa genealogia
«è
destino che le persone sagge muoiano quando il loro dovere è compiuto» (pag.43).
E di
saggezza, intrisa di una sensibilità senza cui la sola ragione è un campo di
grano sterile, parla ogni pagina di questo libro. Il matrimonio di Bruna,
avvenuto in età già matura e dopo una vita vissuta all’insegna di lutti e
separazioni, la porterà a trasferirsi dalla casa natale a Vicenza alla residenza
del marito Rino, proprietario di un fiorente pastificio a Rovereto. Un’ unione
destinale, annunciata (come varie altre vicende anche drammatiche del libro) da
una capacità di premonizione capace di passare come eredità spirituale di madre
in figlia. La sua forza di carattere trarrà nutrimento dall’ amore per lo sposo
e per la figlia, frutto di una maternità ormai insperata; essa sosterrà la casa
nei momenti più bui, quando le condizioni finanziarie volgeranno ormai al
declino. Ma la vicenda, pur appassionante, non basterebbe a fare di questo un
libro speciale. E’ la tecnica narrativa a distinguerlo, che definirei composta
da microflussi di coscienza: brevi spot in cui
l’autrice fa parlare i luoghi stessi, i loro affetti e il loro mistero, in una
sorta di memoriale inconsapevole che mi ha ricordato certi passi di Clarice
Linspector; oppure, passando al mondo delle fiabe, l’indimenticabile prosopopea
degli oggetti domestici nell’adattamento cinematografico della Bella e la
bestia . La scelta editoriale di suddividere i capitoli in brevi passi con
la parola iniziale evidenziata in maiuscoletto non pare casuale ed è in ogni
caso felicissima, perché sembra seguire da vicino il rapporto frammentario della
coscienza con la memoria.
Anche la
focalizzazione è particolare: non un semplice avvicendamento o giustapposizione
del punto di vista, come peraltro avviene in parecchi grandi narratori
dell’ultimo Novecento (da Pamuk a Houellebecq e Kundera ), ma una progressione
sofferta dell’io narrante. Mariaeva – attesa, bambina, adolescente e infine
donna – è raccontata dalla terza persona della semplice datità “gettata” nel
mondo, come la chiamerebbe Heidegger, alla prima persona della coscienza in
fieri e infine matura. Il passaggio da un punto di vista all'altro rivela la
doppia natura di questo libro, che oltre ad essere un romanzo familiare è anche
un romanzo autobiografico di formazione. Il punto di transizione avviene in
maniera del tutto simile alla vita: è l’esplosione di gioia della nascita,
narrata in una bellissima pagina che passa nel libro come una cometa.
«La
bambina si chiama Mariaeva […..] Ecco il mio capolavoro. Disse loro,
sollevandomi in alto» (pag. 88-89) .
Ma il
punto di vista che prevale è quello di Bruna, che in più passi viene chiamata
semplicemente “la madre”, nelle sue luci ed ombre, nei silenzi, nella pazienza
dei lutti e degli addii : un sogno premonitore materno apre il libro e un sogno
premonitore della figlia lo chiude. Entrambe le visioni alludono ad oggetti
scomparsi e ritrovati, concreti ma anche di forte richiamo simbolico, quasi ad
alludere alla capacità di tenuta e di salvifica prescienza dell’animo femminile.
Aggiungerei che in più passi, pur nell’asciuttezza della narrazione, l’autrice
non può fare a meno di rivelarsi poeta, come in questo:
«La casa
era sola.
I cani
lupo mi vennero incontro.
I fiori
del giardino attiravano le api.
L’erba
era secca come i fiammiferi.
Ho
attraversato il grande cortile, più piccolo della mia pena.».
(pag. 169).
Milano, 19 ottobre 2011
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Recensione |
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