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Berlino-Roma e viceversa
“È sera, pensava tra sé Elena, questa stanza s’è all’improvviso illuminata d’altra luce, ma resta ombra nell’angolo. Attenderò. Meglio attendere il nuovo giorno”. Luce-ombra-attesa-memoria sono questi i punti cardine su cui ruota il nuovo romanzo di Antonietta Benagiano, scrittrice poliedrica e feconda. Un romanzo d’amore, ma l’amore è qui speciale, fatto di condivisione libera, “diverso”, con tutto quello che di ricco e straordinario questo termine può significare. “Diversi per rimanere sé stessi” scrive l’autrice, è questo il segno distintivo che caratterizza l’amore fra Thomas ed Elena, un tedesco e un’italiana, elemento anche questo non da poco, se si pensa all’indole così differente fra le due etnie, eppure l’amore è capace di superare le differenze, gli stessi stereotipi.
Le riflessioni toccano anche altri temi, ad esempio la storia con la seconda guerra mondiale dall’occupazione e follia tedesca alle distruzioni degli americani, e poi con gli anni di piombo e il rapimento di Aldo Moro, oppure toccano temi d’attualità come l’ambiente, nella parte riguardante i veleni di Taranto, i farmaci killer. Anche l’arte è spesso oggetto di descrizione puntuale e nostalgica, e non c’è solo Roma, dove le vicende e gli incontri dei due innamorati prevalentemente avvengono. L’autrice non perde occasione per offrirci descrizioni di luoghi, monumenti, con il richiamo ad aneddoti, leggende, curiosità, particolari che appassionano il lettore, lo arricchiscono. E mi soffermo sul perfetto connubio tempo-poesia che pervade tutto il romanzo, dove l’alternanza dei piani temporali è sottolineata da una sapiente variazione dei modi stilistici dalla prosa alla poesia. Ad esempio, per la riproposta di valori umani che la realtà ha perduto, come il senso del rispetto, l’autrice ricorre ad una digressione poetica e cita una poesia di Brecht, Il pioppo sulla Karlsplatz, dove quel rispetto è immortalato: “Un pioppo c’è sulla Karlsplaz, / in mezzo a Berlino città di rovine / e chi passa per la Karlsplaz / vede quel verde gentile, / nell’inverno del Quarantasei / gelavano gli uomini, la legna era rara, / e tanti mai alberi caddero / e fu l’ultimo anno per loro. / Ma sempre il pioppo sulla Karlsplaz / quella sua foglia verde ci mostra: / sia grazie a voi, gente di Karlsplaz, / se ancora è nostra.” Anche in altri casi l’autrice, narrando i fatti, ricorre ad integrazioni poetiche, del resto la sua stessa prosa contiene un’impronta lirica, con quella struttura fluida, lineare, comunicativa, oserei dire, musicale. Dal punto di vista formale l’impianto, spesso anche dialogico, è caratterizzato da periodi agili e la stessa terminologia, incantamento, anelito, sinapsi…, pur nella sobrietà stilistica, ci riconduce alla poesia. L’uso frequente, poi, di flash-back porta la narrazione a procedere su due piani, del presente e del passato. La scrittura è rapida, netta, finalizzata a dare immediatezza alla narrazione in un gioco dialettico tra effetti poetici ed effetti del parlato con un uso della paratassi che intende creare nel lettore quel senso di attesa, che induce a continuare la lettura e conferisce alla prosa quasi un effetto ritmico, del resto è chiara, ripeto, la presenza nel romanzo della natura anche poetica della Benagiano, autrice di numerose sillogi poetiche e di opere teatrali. Proprio al linguaggio del teatro ci riporta la lunga digressione, una chicca nel romanzo, relativa ad uno spettacolo a cui i due protagonisti assistono. Rievoca la famosa arringa di Ortensia, vissuta nel I sec. a.C., figlia dell’oratore Ortensio Ortalo, a favore delle matrone vessate da un’ingiusta pressione fiscale. La Benagiano ci riporta parte dell’arringa che vide vincitrice Ortensia, fu, insieme a Mesia Santinate e ad Afranio, avvocato donna fra le prime della nostra storia. Contestualmente ci offre una riflessione ulteriore e diventa quasi un espediente per farci riflettere sulla condizione femminile a cui l’autrice è particolarmente sensibile, si pensi, ad esempio, al saggio sulla filosofa Simon Weil, e non solo. Tutto il romanzo procede, poi, attraverso una narrazione fatta di memoria volontaria e involontaria, è una tecnica narrativa che apre improvvisi spazi di narrazione in cui i meccanismi temporali convenzionali cedono il passo ai simboli della temporalità interiore e al meccanismo dell’associazione. Spesso un frammento di memoria richiama in vita una catena di ricordi che vivono nuovamente nel presente della coscienza, come i momenti e le voci dell’infanzia della protagonista. Voci d’affetto che rimbalzano come dice la stessa autrice: “E vi rimbalzavano momenti della sua infanzia, voci d’affetto…Oh, la mia piccola Elena, la bimba più bella del mondo, guarda che bel presepe ha fatto la nonna!...”. Dal punto di vista stilistico questo effetto della memoria dà luogo a una prosa dalla sintassi scorrevole, ancora una volta poetica, come nella descrizione del paese natio “…Bello il suo paese narrante morfologie di pietra, e di lontano il mare a riecheggiare miti e leggende, vicende di gloria e di sangue. Bello con le gravine e l’argento degli ulivi angoli ancora di pace, con chiese e palazzi non annullati dalla ruspa e piazzette e vicoli e vita del passato. Bello sì il suo paese, ma un tempo aveva sognato di non tornarvi. L’amore sradica e s’impianta, desertifica, misteriosa follia totalizzante imprigiona la libertà d’essere sotto altra forma…” Più elegante e poetico di così! Lo spaesamento e lo spostamento temporale generato “dall’intermittenza del cuore”, come la definirebbe Giacomo Debenedetti, stimolano la creatività (“intermittenze” sono l’improvvisa rivelazione che c’è dell’altro, che quelle certezze, fiducie, abitudini sulle quali avevamo riposato non erano che una crosta apparentemente solida compatta, capace di reggere il nostro peso; ma sotto di essa, si nasconde la vera realtà, sfuggente alle nostre percezioni ordinarie…). Il motivo di questo processo interiore e, al tempo stesso, della tecnica narrativa che ne è l’espressione, è spesso la metonimia, la figura retorica per la quale un elemento linguistico fisico dà luogo a un’associazione con un altro elemento logicamente o emotivamente contiguo. Il sapore dolce delle ciliegie, ad esempio, evoca una serie di sensazioni finché emerge il ricordo chiaro, oppure la lettura sul Corriere della sera della notizia della morte del matematico Arnold, studioso della teoria delle catastrofi, fa rimbalzare Elena a quel giugno lontano. Stessa cosa avviene per il ricordo di Aldo Moro. Funzione magica, quindi, della memoria e della creazione letteraria che permette al passato di diventare sorprendentemente presente e che porta Elena ad avvertire una straordinaria sensazione di pienezza interiore, uno spaesamento che deriva dall’amore ma anche dalla detemporalizzazione, cioè dalla sottrazione delle cose da una logica temporale troppo rigorosa, per consentire loro di fluttuare liberamente tra passato e presente, prive di una collocazione costrittiva. Attraverso quella sensazione emerge misteriosamente l’essenza dell’io dei protagonisti, perché il ricordo, con la sua forza, attribuisce un’identità autentica alla loro esistenza, e nello stesso tempo all’operazione letteraria della scrittura. All’improvviso, però, i frammenti del ricordo si saldano gli uni agli altri: la conferenza sulla teoria delle catastrofi, il soggiorno a Roma con i suoi momenti, i suoi angoli, le finestre trasteverine… tutto diventa un luogo di racconto, non più frutto di una meccanica rievocazione ma oggetto di una nuova creazione, di una reinvenzione della vita attraverso la scrittura. Il romanzo si dipana attraverso “blocchi” memoriali: da una parte, abbiamo detto, ricordi volontari, dall’altra ricordi involontari, che improvvisamente si accendono nella mente dei protagonisti riportando nel presente il passato, che viene così rivissuto pienamente. Gli eventi, gli oggetti, le persone del passato si rianimano, l’autrice restituisce loro un’anima: la madre e il padre di Thomas, il padre, la madre, la sorella di Elena, per citarne solo alcuni, e per questo basta il verificarsi di un incontro casuale ed ecco che viene vinta la morte degli stessi e, attraverso la memoria, viene donata una vita eterna sia pure in senso psichico e non religioso. E’ quasi una gestione proustiana del tempo influenzata dalle teorie di Bergson, secondo il quale il tempo interiore possiede una durata unitaria e un’intensità che attribuiscono senso a luoghi, immagini e vicende apparentemente distanti fra loro (Bergson: Materia e memoria). Poetica della memoria che riattualizza il tempo, quindi, attraverso momenti di illuminazione, facendolo rivivere nel presente e rivelando il significato stesso dell’esistenza e dei nessi che collegano i suoi accadimenti. Dice l’autrice: “Il nichilismo non può cantare vittoria se la vita continua comunque a lavorare per la composizione del suo scorrere” Nella narrazione non c’è rigore cronologico e ci troviamo di fronte ad un andamento caratterizzato da continue oscillazioni dal passato al presente e viceversa. Tale tecnica accentua la componente evocativa, dando all’intera storia una cadenza eternamente sospesa e non lineare. Surreale poi la suggestione attraverso la quale, in un passo del romanzo, viene ritratta una società di esseri umani senza testa, come appaiono nel loro passaggio sul marciapiede che si intravede da una finestra posta in alto. Individui che Elena osserva solo dalle scarpe ai pantaloni o alle gonne… “Erano individui con le scarpe e senza testa, l’essere umano da sempre in cammino senza testa…Da quella finestra gli esseri umani si mostravano nella loro realtà, tutti senza testa …L’avevano, la testa, i bambini, lasciavano vedere ciò che sarebbe poi scomparso crescendo: decrescita proporzionale alla crescita della statura, fino alla sua scomparsa”. Riflessioni surreali ma profonde su un’umanità spesso senza giustizia, senza libertà, senza solidarietà, questo significa “senza testa”. E il passo mi riporta ad un’altra opera della Benagiano La soluzione, dramma in tre atti, che invito a leggere, nel quale l’autrice, questa volta attraverso il linguaggio teatrale, ci fornisce il quadro sconvolgente di un pianeta distrutto da uomini incapaci di pensare e agire per il bene della natura e quindi di se stessi. Uomini che potremmo in realtà definire, appunto “senza testa”, in totale crisi di identità, figli di quel relativismo morale moderno che sottolineavo presentando l’opera. La potenza narrativa del romanzo sta, dicevamo, nel far rivivere i ricordi, fluire di vita passata che ritorna nel presente stesso, tutto gira attorno ad un filo conduttore che tiene legato il passato e il presente e rende imperituro il presente che rivive nel momento in cui diventa passato. L’amore stesso di Elena e di Thomas vive di passato, che, attraverso la distanza, viene mantenuto vivo nel presente, anzi proprio la lontananza ha il potere di mantenerlo vivo. Combatte e vince contro l’abitudine che uccide. Una sezione particolare è poi dedicata alla seconda guerra mondiale attraverso il personaggio di Albert, padre di Thomas, e Karola, sua madre. Varie pagine vengono dedicate alla narrazione delle tristi vicende legate al nazismo e non solo, uno squarcio storico importante che non deve mai far dimenticare ai giovani gli orrori della violenza passata per evitare che ritornino nel presente. La narrazione storica si dipana attraverso una perfetta fusione fra vero storico e vero poetico, con i personaggi di Albert e Karola ma anche di altri che offrono lo spunto per parlare di Roma bombardata, Berlino folle del sogno folle di Hitler, e il tutto risulta avvincente, grazie anche alla perizia e alla conoscenza storica dell’autrice, con i suoi riferimenti puntuali agli eventi, ai luoghi, ai personaggi che hanno caratterizzato gli ultimi anni di guerra e gli anni successivi. La scrittura si trasforma, quasi per effetto di una metamorfosi funzionale alla lettura del romanzo che non è mai monotona (è come se la Benagiano si mettesse nei panni dei lettori e in particolare dei giovani e cercasse di tenere sempre viva la loro attenzione e il loro livello emotivo) e si fa intimistica con i monologhi di Elena, le sue “amorose sinapsi” come le definisce l’autrice. Ma non sono solo amorose le sinapsi di Elena, sono anche dense di riflessioni profonde su vari argomenti come quello delicato che verte sulla condizione dei malati e l’umanità con la quale trattarli, perché “bisogna guardare i malati con conoscenza medica ma non dimenticare il cuore”, parole che il padre di Elena, medico anch’egli, ha lasciato come preziosa eredità alla figlia, e delle quali Elena stessa ha fatto il suo credo. Attraverso la sofferenza della sorella Chiara, malata di cancro, il “mostro” viene descritto con lucidità ma anche con serenità, le descrizioni struggenti di paesaggi e i momenti indimenticabili si colorano di squarci lirici davvero unici: “Chiara volse ancora lo sguardo al mare, al dolce mare della sua terra, ringraziò Dio di averlo potuto vedere ancora. L’avrebbe poi rivisto dalla dimensione dove ogni cosa si spiana, e in quel lido gli altri sarebbero tornati ai muti colloqui col suo spirito”. L’attesa a cui facevo riferimento all’inizio è l’elemento focale con il quale mi piace concludere. Il romanzo intriga, avvince anche perché offre al lettore la possibilità di pensare e di “creare” il finale, facendolo suo. Il gioco del tempo, della distanza ritorna ancora a ridare essenza ai protagonisti, alla loro realtà. Nessuna conclusione scontata o banale, sono i lettori ad essere, alla fine, risucchiati nel romanzo, ad immaginare il procedere della storia di Elena e Thomas ed a ridarle continuità e nuova vita, in “quell’alternanza d’amore e di pensiero” che uno fra i più grandi critici letterari, Giorgio Bárberi Squarotti, recensendo l’opera, ha sottolineato. |
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