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La satura di Zinna
Quella di Zinna è una poesia
fortemente intessuta di cultura, sia classica che novecentesca, e che
testimonia, nella sua qualità intertestuale, la volontà comunicativa e
semantica che la fonda.
Non c’è alcun bisogno di
richiamare i modelli della classicità e dell’umanesimo, poiché la loro
autorevolezza è sempre giocata da un’ironia sapientissima, che usa
le citazioni e non si abbandona ad esse, anzi le immette in un tessuto quanto
mai aspro e stratificato (duro nell’istanza del resistere, non certo nei modi
dello stile, colloquiali e amichevoli),da uno status comportamentale della
scrittura che non può tralasciare il volto gorgonico della sostanza, la sua
inamabile distruttività e inautenticità.
Non
si dimentichi che, nella fluidità delle poesie, rimandi, visibilmente
«illustri» e della nostra colta Tradizione, si mescolano a stilemi tipici
della neoavanguardia palermitana
e destrutturanti (per esempio,
si noti il riuscito connubio tra l’iconoclastia gozzaniana e quella che
va da Sanguineti a Di Marco). Così, a cadenze endecasillabiche e scopertamente
quasimodee (adoperate in senso antifrastico), si alternano timbri spigolosi,
neologismi, parlati gergali, il tutto a designare una progettualità compositiva
nel nome funzionale della satura. La satura, che nulla ha dello
snobismo e dell’alterigia metafisica montaliana, è, semplicemente,
la struttura che ripete e mina meglio di ogni altra, la complessità del
reale e della letteratura, la via d’una identità, o meglio, d’una osmosi
necessaria.
D’altronde, non si creda
che la poesia di Zinna (Abbandonare Troia, Forum, Forlì, 1986) viva
soltanto di sollecitazioni culturali e di desideri retorici e combinatori,
in quanto non si spiegherebbe il mito personale che la sorregge, cioè
quello della testimonianza e della resistenza.
Non si scrive,
blanchotianamente, per non morire, ma si scrive per ricordare e tramandare le
violenze della Storia, la sua originaria natura sanguinosa, i disincanti e gli
errori della Kultur, i delitti che essa accompagna e di cui si fa garante. Non
esiste quindi nessuna opzione per il sublime, per la bellezza che non sia o
della terra o dell’uomo, in qualche modo sempre fisica.
L’architettura testuale,
cosi folta (lessicalmente soprattutto), non respinge il lettore (come avveniva,
di solito, per i prodotti della sperimentazione) ma lo avvince con la lieve
seduzione della melanconia, con la celeste bonarietà del gioco, con una
commozione non dichiarata ma velata proprio dalla tramatura ipersegnica.
La naturalezza è il
risultato, non spontaneo e paradosso, di una cura coltivatissima. Lo prova il
livello metrico, che è dominata dal ritmo e da misure sovente lunghe e
debordanti, in definitiva dallo stadio più prossimo alla primitività. La
portata «contestuale» della proposta di Zinna è verificabile dalla posizione
enunciativa e anticipatrice di un titolo che ritroviamo, in posizione
riassuntiva, come ultima sezione, in quel sintagma dell’«abbandonare Troia»,
che richiama l’eco sociale del mito salvifico di Enea e, non soltanto, di
quello dimissionario esplicitato nei versi contigui.
La lettura di (Sessantacinque
versi per il treno della Maiella) è almeno duplice: fuggire la baudeleriana
città di morte e riscoprire la verità consolante di tempi arcaici e veri,
dimis-sionarsi, darsi per vinti e dispersi, sparire per ridare un senso residuo
all’esistenza, ma anche, credo, una ritirata tattica, di pura strategia, una
falsa partenza per distanziare meglio le cose e metterle a fuoco, analizzarle e
in qualche modo giudicarle e sceglierle. | |
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Recensione |
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