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Alla “demoniesca banalità
che ha svuotato ogni idea, spezzando le verticali di tutti gli impulsi”, al
“calpestio di qualcosa che avanza spietato ed irrimediabile” Angelo Maria
Ripellino flebilmente opponeva “un’arca, una zattera, una reliquia” di
poesia, “coi suoi timidi assoli sperduti in un mare oceano in subbuglio”
(presentazione in 4a di copertina di Notizie dal diluvio,
Torino, Einaudi 1969).
Sul medesimo meridiano
di rancura, per “restare a galla in attesa di un arcobaleno”, Lucio Zinna
tenta di ergere, “nel senso della verticalità e dello spazio”, una litica “casarca”,
questo “luogo metaforico della salvaguardia di ciò che si rischia di
perdere” evocato nel ‘risvolto’ che introduce la sezione eponima della sua
più recente raccolta.
Ciascuna delle parti
(le altre sono La campana del coprifuoco e Polaroid) che vanno
a comporre un trittico di allusiva architettura si avvale infatti, come
cartigli esposti nelle stazioni di un gramo itinerario salvifico, di brevi
ma cospicue ‘istruzioni di viaggio’ il cui geometrico referto quasi libera
l’irruente parenesi che sembra ‘mordere il freno’ dinanzi ai recinti dei
versi.
Detratto quel tanto di
crepuscolare e gemente umidiva le litanie ripelliniane sui “giorni di
travolgimenti, proteste, disastri, intrighi di sganarelli, rigurgiti,
affanni, proclami, desolate speranze”, il battello di Zinna discende, con
armata affabilità e reattiva dolenzia, nelle regioni del coprifuoco, nei
tenebrori dell’infelice Sagunto, da dove, risalendo pazientemente il
purgatorio del ‘quotidiano’, può infine accedere a provvide ‘uscite di
sicurezza’ verso modici, se privatissimi e precari, elisi.
Ma l’ordine fin
troppo esclamato di ritirarsi, la “riduzione delle essenze a un germe
minimo” (p. 39), il “progetto di uno stile claustrale” (p. 46) e, a
rincontro, il desiderio irredento di “corse e praterie” (p. 44), la
“nostalgia di luoghi sconosciuti” (p. 25), per non dire del compassato
omaggio al sovrano anarchismo del gatto Raffaele, sono in un tempo
antifrastica riaffermazione delle proprie radici (espressamente indagate
nell’ironica araldica de Il leone e il giglio). E dal disgusto per il
miserevole presente palermitano di feste infestate e vilipesi toponimi
riaffiora (“perché vivere è pure il sentirsi morire | del distacco ed
è resurrezione ogni ritorno” – p. 15) il bisogno di stringere “giorni d’ore
violate | e di ore regine | giornatacce ribalde | giornatucce beghine” (p.
20) nel nodo di un destino: riassunto poi sempre dal silenzioso lavorio
delle “tessitrici nella bianca stanza” (p. 49).
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Recensione |
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