Lo stato dell'arte
Poesia e poeti della contemporaneità in crisi
«Naturalmente
possiamo attenderci che a maturità di linguaggio vada congiunta maturità di
menti e di costumi; una lingua è prossima alla maturità nel momento in cui gli
uomini che la usano dimostrano di avere senso critico del passato, fiducia nel
presente, e nessun dubbio esplicito sull’avvenire. In letteratura, questo
significa che il poeta ha un’idea chiara dei propri predecessori, e che noi
abbiamo un’idea chiara degli scrittori che stanno dietro la sua opera, così come
possiamo essere consapevoli dei caratteri ereditari di una persona che abbia al
tempo stesso una spiccatissima individualità. Certo, i predecessori non potranno
non essere anch’essi grandi e degni di venerazione: ma bisogna che la loro opera
sia tale da suggerire risorse di linguaggio non ancora sviluppate, e non opprima
gli scrittori delle nuove generazioni col timore che quanto si può fare nella
lorolingua sia stato già fatto.Senza dubbio anche il poeta che si trova ad
operare in un’età matura può essere stimolato dalla speranza di fare qualche
cosa che i suoi predecessori non hanno fatto; può addirittura rivoltarsi contro
di loro, come accade che un adolescente pieno di promesse si ribelli alle
credenze, alle abitudini, al modo di essere dei genitori; ma noi, gettando uno
sguardo indietro, possiamo constatare che egli continua le loro tradizioni,
perpetua le caratteristiche familiari essenziali, e che la sua diversità di
comportamento dipende soltanto dalle mutate circostanze. D’altro canto, proprio
come talvolta vediamo uomini la cui esistenza è oscurata dalla fama di un padre
o di un nonno, sino a far apparire in qualche modo insignificante ogni loro
manifestazione anche notevole, così una tarda epoca di poesia può essere e saper
di essere impotente a competere con la propria illustre paternità. Poeti di tal
genere ne incontriamo al termine di ogni epoca: poeti che hanno soltanto il
senso del passato, o la cui speranza nel futuro è unicamente fondata sul
tentativo di ripudiare il passato. Perciò, in qualsiasi nazione, la persistenza
della creatività letteraria consiste nel mantenere un equilibrio cosciente fra
la tradizione nel senso più ampio della parola – la personalità collettiva, per
cosìdire, raggiunta nella letteratura del passato – e l’originalità della
generazione vivente»
Thomas Stearns Eliot, Che cos’ è un classico?
1. Forma e
oscurità poetica: questioni di metodo
Io non credo che
la nostra epoca sia (e lo sia stata anche nei giorni trascorsi precedentemente a
quelli odierni) un’età “classica” nel campo e nel raggio della poesia o che ci
troviamo nel pieno di essa (come forse avrebbe desiderato Thomas Stearns Eliot
nel saggio da cui ho ampiamente citato sopra). Non abbiamo ancora un adeguato
senso critico del passato (prossimo e remoto), non possiamo avere troppa fiducia
nel nostro presente né sul futuro (anche vicino) mancano dubbi e gravi
premonizioni di minaccia incombente.
Ma forse (e
sottolineo il forse) viviamo in un periodo storico e morale che ad
un’epoca classica potrebbe preludere per tutta una serie di ragioni che andrò
enumerando.
Sicuramente non
tutte sono quelle che il poeta anglo-americano avrebbe apprezzato ma non tutte
divergono dalla sua idea di poesia: senza uno stretto rapporto con la tradizione
poetica e il suo legato non si dà oggi né innovazione possibile né catastrofe
linguistica tale da trasformare il dettame dalla poesia in pratica comune di
condivisione dei soggetti. Certo c’è tradizione e tradizione e è questo il punto
oggi davvero in questione: quale tradizione da salvaguardare e da con-dividere
oggi? Quella dalla logica destruens legata alle grandi avanguardie
(avanguardia di inizio secolo come il Futurismo o il Surrealismo o di metà
secolo come la neo-avanguardia del Gruppo ’63)? O a quella dall’atteggiamento
tutto sommato construens del classicismo immer wieder (da Montale
a Saba, da Fortini a, mutatis mutandis, di Zanzotto)?
E soprattutto:
esiste una tradizione da privilegiare tra molte o ce n’è una sola che indichi la
strada per attraversare il deserto e raggiungere l’oasi del rinnovamento del
linguaggio in poesia?
In un libro di
grande interesse storico-teorico di qualche anno fa, Guido Mazzoni individuava
nella categoria della “solitudine” una delle dimensioni più significative
dell’estetica della poesia contemporanea e ne leggeva la “forma” in questa
chiave interpretativa. Inoltre sosteneva (a mio parere, a ragione) che la poesia
contemporanea in esame soffriva ancora di quella fine (forse prematura, certo
avvenuta da tempo) del “mandato sociale” dei poeti che aveva contraddistinto
l’epoca romantica. Per effetto di tale chiusura di rapporto tra i poeti e il
loro pubblico a corsia preferenziale, Mazzoni poteva poi concludere che:
«Da molto tempo
la poesia contemporanea sembra sopravvivere a se stessa: è un genere senza
pubblico, o con un pubblico composto da aspiranti poeti, che vede declinare il
proprio prestigio sotto il peso che una forma d’arte concorrente, la canzone, ha
assunto da trent’anni a questa parte nella cultura di massa. Come il teatro nel
secolo del cinema, la poesia dei nostri tempi si sorregge sul proprio passato
glorioso e si affida al mecenatismo residuo di qualche istituzione pubblica o di
qualche casa editrice per resistere. Ma la sociologia della letteratura non
spiega da sola un simile declino; perché se la perdita del mandato sociale
illumina alcuni aspetti decisivi di quanto accade oggi, una crisi così profonda
ha anche delle cause interne, forse meno importanti di quelle esterne ma
comunque significative»[Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea,
Milano, Marcos y Marcos, 2002, p. 11.].
Il rapporto tra
forma e contenuto, infatti, a questo punto, diventa cruciale per
continuare un’analisi qualificata del problema. Per questo motivo, Mazzoni
continua poi scrivendo che:
«Quando entriamo
in libreria e sfogliamo una raccolta di poesie, ci aspettiamo di trovare dei
componimenti brevi che raccontano storie, esperienze e riflessioni personali
scritte in uno stile personale; in altre parole, associamo alla scrittura in
versi alla lirica, la lirica all’autobiografia, il personaggio che dice “io” nel
libro alla persona reale che mette il proprio nome sulla copertina, e lo stile
delle poesie al desiderio di raccontare se stessi in una forma che rispecchi la
personalità dello scrittore: ci abbandoniamo insomma a una catena di deduzioni
che solo da due secoli a questa parte è automatica. Per indicare che il genere
non è più stato lo stesso dopo la svolta di cui parliamo,si usa una formula
sintetica tanto chiara quanto difficile da definire: “poesia moderna”. Prima
ancora di esporre dei contenuti manifesti, la poesia moderna comunica un
contenuto latente e sedimentato nella logica della forma: mentre il romanzo
cerca di suscitare l’interesse del lettore collocando i propri eroi nel tempo,
nello spazio e in mezzo agli altri, e mentre il teatro fa agire gli individui
nello spazio comune della scena, la poesia degli ultimi due secoli, raccontando
una scheggia d’esperienza soggettiva in uno stile soggettivo, “spera di
conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve”, come Adorno
scrive della lirica e, per metonimia, della poesia moderna in generale. Segnata
da questo doppio egocentrismo, la lirica degli ultimi due secoli rimanda
un’immagine del mondo personalistica e monadica, dove l’interessante,
l’essenziale della vita non risiede nell’agire interumano messo in scena o nel
racconto delle storie e dei loro intrecci, ma nel modo in cui un individuo
isolato si rappresenta alcune esperienze irrelate, intense, istantanee e per lo
più individuali. A ben guardare nessun altro genere, neppure l’autobiografia, è
così radicalmente soggettivo nel contenuto come nella forma, e nessun altro
elimina tanto facilmente i livelli di realtà che trascendono l’io» [Guido
Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea,
Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 12-13.].
In effetti, la
dimensione autobiografica della scrittura poetica continua ad essere quella più
significativa rispetto alla conclamata crisi (e discesa conseguente agli Inferi)
della poesia legata alla passione civile e ai suoi cantori (soprattutto dopo la
scomparsa di Fortini e dei suoi epigoni) e alla dimensione ludica della
scrittura lirica (si pensi a un Vito Riviello, ad esempio, che però non ha
lasciato eredi di livello pari al suo). L’autobiografismo, dunque, come lettura
della realtà quotidiana e tentativo di trascenderla attraverso la
rappresentazione lirica dei sentimenti e delle emozioni, dei ricordi e delle
speranze sembra essere la cifra categoriale più diffusa e più variamente
coniugata.
Non si tratta
ovviamente soltanto (e in molti casi, s’intende, le generalizzazioni rischiano
di essere inadeguate all’oggetto d’indagine) di un ritorno alla grande della
voluptas dolendi, tipica soprattutto di una certa temperie legata a stati
d’animo tipicamente femminili (anche se, nel caso della lirica d’amore, non si
ritrovano spesso grandi differenze di tono e di misura tra gli atteggiamenti
assunti dai poeti dei due sessi – anzi, talvolta quella delle donne mostra
maggiore sobrietà e concreta capacità di abbandono erotico).
Ma il problema
principale per quanto riguarda la poesia contemporanea non è più soltanto quello
dell’abbandono del pubblico e della revoca del “mandato” a rappresentarne i
sentimenti e le opinioni estetiche né può essere del tutto riconducibile ad un
desiderio di rappresentarsi e di rispecchiarsi nella coscienza del poeta come
“uno tra tanti” o “volto nella folla” cui fare riferimento come identità morale
(speculare o meno che sia).
Il fatto è che
la poesia vive oggi (ancora?) una crisi di capacità comunicativa del proprio
livello formale che la rende incompatibile con i bassi livelli di acculturazione
vigente. Probabilmente legge poesia solo chi la scrive (come vorrebbe
pessimisticamente Mazzoni) o chi è costretto a farlo o, comunque, chi è in grado
di entrare nei suoi meandri linguistici. Probabilmente la poesia moderna è
troppo “oscura” per i suoi lettori, emana troppo poca luce, evoca troppo poche
immagini.
Ma se la lirica
moderna è “oscura”, lo è perché il poeta è già stato “oscurato” dalla Storia o
dalla sua storia personale: la limpidezza della sua voce e del suo dire si
spezza e tintinna e tremola a contatto con la materia troppo oscura che è
costretto a maneggiare. Come spiega bene Mazzoni in una pagina del suo libro:
«Del conflitto
fra la tradizione del simbolismo e il modello di poesia proposto da Montale
parla anche Fortini, un poeta che ha subito l’influenza delle Occasioni
in forma più mediata, ma forse non meno intensa. Molto interessante a questo
proposito è il saggio Oscurità e difficoltà, che ha il valore di una
riflessione autonoma ma anche di una testimonianza, proprio come la recensione
di Sereni. In poche pagine Fortini traccia una specie di tipologia storica della
lirica moderna, partendo dalla sua caratteristica più evidente: l’oscurità. La
lirica moderna resisterebbe al grado zero del discorso comunicativo in due modi
diversi: se alcuni poeti appaiono indecrifabili perché mettono sulla pagina una
catena di associazioni mentali soggettive, altri lo sono perché raccontano una
scena, un paesaggio o una passione in forma allusiva o frammentaria, tacendo
quelle spiegazioni che il lettore, per comprendere la lettera del testo,
dovrebbe conoscere. Le due forme sdono sempre statev presenti in ogni scrittura,
ma solo la poesia post-romantica le ha separate e contrapposte ; Fortini le
chiama “oscurità” e “difficoltà”» [Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea,
Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 34-35.].
Sia esso dovuto
a un “nucleo di infrangibilità”, a un elemento di rottura impossibile da
ricomporre o ricostituire o un momentaneo obnubilamento del senso, fatto sta che
l’oscurità caratterizza gran parte della scrittura poetica moderna. Per
superarla, non bastano né il recupero della “forma chiusa” della tradizione
rivisitata (come assai baldanzosamente si sono proposti di fare taluni incauti
poeti della post-modernità) né l’apertura di un fronte multimediale di
sperimentazione linguistica (il caso di certi esperimenti al computer di Nanni
Balestrini è emblematico per il fatto che non hanno portato in nessuna
direzione). L’”oscurità” c’è e resta e rende (forse) “noiosa” [Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati è il
titolo italiano di un libro (divertente e provocatorio) uscito per i tipi di
Einaudi nel maggio 2006 (e che così traduce il Lyrik nervt !
dell’originale tedesco pubblicato da Carl Hanser Verlag di Monaco nel 2004).
Gli autori sono Hans Magnus Enzensberger (che firma la prima parte tradotta
da Enrico Ganni) e Alfonso Berardinelli cui si deve, però, la cura
editoriale di tutto il volume e l’ispirazione fondamentale di esso.]
la poesia. La rende meno affascinante di un romanzo o di Internet. La trasforma
in una materia di indagine o non di delibazione intellettuale – per leggere
poesia bisogna imparare a capirla (e non soltanto a comprenderla). E’,
quindi, questo dato (l’oscurità, la difficoltà, l’incomprensibilità, la
difficoltà, l’ambiguità, la stranezza) che rende difficile e “impopolare” la
poesia. E’, quasi altrettanto ovviamente, questo il suo fascino e la sfida
intellettuale che contiene.
A questa sfida,
ovviamente ancora, non tutti i poeti rispondono allo stesso modo: c’è chi
accentua il momento comunicativo, “razionale”, intellettualmente carico
dell’espressione poetica (è il caso di Ivo Guasti, ad esempio) nel pieno
rispetto, comunque, dell’emozionalità della scerittura lirica; c’è chi, invece,
preferisce pigiare sul tasto dell’ “anima” e raccontarsi dentro esponendo gioie
e dolori, piaghe e desideri, sospiri e gemiti di piacere e, soprattutto,
privilegiare le proprie zone d’ombra (e la “tenacia” [Tenacia d’ombra, infatti, è il titolo di un solido e ben costruito
“esercizio” di scrittura di Anna Maria Guidi, pubblicato a Firenze
dall’editore Polistampa nel 2002 e da me prefato.]
che ne consegue), come nel caso di Anna Maria Guidi. Un caso diverso è
rappresentato da Innocenza Scerrotta Samà per la quale la ricerca poetica è
ancora rappresentato da un forte ancoraggio alle fonti classiche del Sublime e
delle sue possibilità di rarefazione e di “purificazione” (forse catartiche,
certo culturali e rappresentative) del linguaggio della poesia. Una scelta
quest’ultima fatta in nome del “levare” (michelangiolesco) e non del “mettere”
di post-moderna memoria. Una dimensione ancora diversa è rappresentata dalla
scelta del chiaroscuro: Il dolce e l’amaro di Patrizia Pallotta
mette in scena dissapori e delusioni della vita con tratto classicistamente
distaccato salvo poi tentare il salto improvviso nella lirica più buia di una
condizione umana disperatamente modulata. Il chiaroscuro, quindi, non risulterà
soltanto quello tra il dolce (il piacere) e l’amaro (il dolore) dell’esistenza
ma quello tra un percorso olimpico attraverso gli alti e bassi della vita e
l’impossibilità di portarlo a termine compiutamente senza cedere alla tentazione
di un lirismo lancinante. Nella stessa ottica di chiaroscuro, ma su un versante
sperimentalmente assai più formidabile, Nadia Cavalera tenta la carta della
frammentazione linguistica e attacca la pratica poetica con la disperazione di
chi vuole trovare nuovi linguaggi pur sapendo di non trovarli se non nella loro
dissipazione assoluta. Non a caso il punto d’approdo più sicuro risulterà il
limerick scritto e compitato nel dialetto materno oppure la trans-duzione da
lingue “altre” (l’americano) o “morte” (il latino classico) che permettono il
rientro nella “tradizione del nuocvo”attraverso la spinta distruttiva contenuta
nella parodizzazione estrema.
2. Una luce
di speranza nella regione della poesia: l’ “eleganza” naturale di Ivo Guasti
Da molti anni
Ivo Guasti persegue un proprio ideale di purezza poetica, di ingenuità
linguistica, di “moralità (quasi) leggendaria” tutte basate sulla volontà di
coniugare etica ed estetica nella costruzione di un tracciato poetico originale.
La sua ricerca stilistica basata sull’uso di una tavolozza cromatica legata alle
qualità intrinseche delle parole della poesia è ormai cospicua e rilevante. In
Eleganze [Il riferimento è a Ivo Guasti, Eleganze, con un’ introduzione di
Franco Manescalchi, Firenze, Edifir, 2005.]
questo snodo progettuale, questo nesso tra parola e cosa si fa oggetto di
una ricognizione a tutto campo, di un’esplorazione sintetica e generale insieme,
quindi, che ne permette la rilevazione genetica delle origini e la ricostruzione
culturale. Come scrive autorevolmente Franco Manescalchi nell’Introduzione
alla raccolta:
«In quest’opera
circola un’aria nuova, neorinascimentale, tesa ad esprimere la parte più estrosa
che caratterizza l’utopia concreta propria di tutta la poesia guastiana. Cioè
l’ossimoro che lega l’utopia con la concretezza si realizza qui più con
l’appagamento (la concretezza) che con il desiderio (l’utopia) ed in questo
senso si parla di conseguito esito neorinascimentale, tanto da mettere
l’eleganza al centro del discorso, del gioco della mente» (p. 9).
L’aspirazione
all’eleganza come ratio della poesia si coniuga pur sempre con il suo
valore semantico: l’aspirazione della parola a comprendere e a giudicare il
mondo non solo per quello che appare e mediante il quale illude coscienze e
menti ma anche per quello che dovrebbe effettivamente essere per poter essere
considerato a misura d’uomo:
«notte m’appare
senza sogno / stanco nocchiero vo / in quest’ora negata alle stelle / solo
scoprirò domani / se un’isola esiste / terra desiderata per eleganze / lì ecco
gioia di vita» (p. 17).
Scegliendo di
utilizzare sempre strofe di sette emistichi, Guasti vuole apparentare la
scrittura mitopoietica della poesia all’opera mitica della creazione originaria
pur senza dare alla propria operazione sulla scrittura alcun taglio mistico o
legato alla New Age. La tentazione di Guasti è semmai prepotentemente
utopica e legata alle potenzialità ancora non compiutamente sviluppate degli
esseri umani la cui “social catena” (per dirla ancora e sempre con Leopardi)
potrebbe permettere il superamento della “terra desolata” in cui essi si
aggirano ancora oggi:
«costruiamo noi
l’azione per andar sicuri oltre barriera / nel tempo con regola precisa sta
pensiero forte / e d’obbligo soluzione per contender spazi abbandonati / ricerca
in portamenti ed eleganza atti per verità sopite / forse orgoglio dato è in
sorte a render viva la memoria / e di ciascun vita storia diventa al cammin di
tanti unita / per ardimento la ragione come nocchier di nave in arrabbiato mare»
(p. 65).
dove sono da
rilevare non soltanto il ripetersi di “eleganza” e del “nocchiero” come metafora
della razionalità intrinseca allo scrittore quanto l’idea che la poesia possa
essere considerata la forma privilegiata della memoria che l’orgoglio umano ha
scelto come soluzione più vitale. La poesia è il mezzo mediante il quale il
percorso memoriale ed esistenziale di ognuno può accedere alla dimensione della
storia e trasformarla in percorso condiviso e voluto come progettualità
collettiva. L’eleganza è la misura dell’utopia e la garanzia della sua
pensabilità (se non addirittura della sua condivisibilità – visto che l’utopia
non è mai effettuale ma vive sempre e soltanto del suo essere in itinere,
intesa com’è a scandire la marcia del tempo).
L’eleganza è
filia temporis; la sua capacità di in-cedere è legata alla sua volontà di
pro-cedere: in essa volontà di essere e desiderio di continuare nella direzione
adottata è frutto di una logica che coniuga la razionalità della mente alla
passione per la vita.
Infine in Guasti
l’eleganza è anche la capacità di condividere con altri i propri sentimenti di
tenerezza nei confronti del mondo e di trasformare la pratica poetica da
esercizio di stile in forma di azione atta a comprendere (anche se non a
trasformare…) le ragioni e le urgenze della sua necessaria mutazione:
«della mente
eleganze ad ascoltar del mondo canti / voglia profonda per fare del presente
un’utopia concreta / è il cuore che invita ragione al ballo della tenerezza /
speciali desideri spingono uomini a ricercar l’ignoto / dire ed ascoltare
sgorgate le parole adulte / cammino dritto nel discorso attento fanno / lume e
passione si sveglia madre terra coi richiami» (p. 42).
Nella poesia di
Guasti, allora, il “ballo della tenerezza” del sentimento e le “parole adulte”
della concretezza del vivere si danno la mano per congiungersi simbolicamente e
compiutamente nella necessità di far risuonare il canto di chi ritiene che sia
ancora possibile lottare per esse.
Guasti coniuga,
in questo modo, il piacere dell’eleganza della scrittura poetica e l’amore per
la ragione che illumina le menti e produce sentimenti di immedesimazione e di
rapporto schietto e stretto con la natura e gli uomini. In tal modo, poesia e
capacità di contatto sociale e umano diventano un tutt’uno in un tentativo di
produrre e mettere in atto quel progetto di comunicazione linguistica che è al
centro del suo lucido “delirio” poetico.
3. Passaggio
di notte: passione e scrittura poetica in Anna Maria Guidi
La poesia di
Anna Maria Guidi è da sempre propensa a scandire passaggi e percorsi, piuttosto
che a meditare sul posto in attesa di un’illuminazione fatale. Si tratta per la
poetessa di saper rischiare la parola piuttosto che rimanere al passo con una
certa tradizione che vorrebbe le poetesse meditative e languorose, attente al
battito d’ali e allo astormire delle fronde piuttosto che capaci di lottare e di
articolare il loro dettato poetico con forza e spesso con violenza
rappresentativa. Giacché in Anna Maria Guidi la memoria è violenza delle
immagini e capacità di coniugare il realismo dei ricordi con la tenerezza
ammaliatrice dei sogni e della nostalgia del tempo.
«Certezze.
Per / contare quanti / “non so” ho scritto / da quando non sapevo / potrei
cominciare / dal pallottoliere fino / alla calcolatrice digitale. Ma / ciò che
lo stesso non potrò / sapere è il perché di tutti / quei “non so”: processione
che muove / dal primo, il capofila / che avanza con lo stendardo / rovesciato,
e non ci fa vedere / la risposta. // Ecco perché / il dubbio / è l’unica
certezza» [Anna Maria Guidi,
Certezze, Empoli, Ibiskos Editrice, 2002, p. 32.].
Vincitrice del
premio promosso dalla Casa Editrice Ibiskos per il miglior libro di poesie
inedito dell’anno (il premio consisteva, appunto, nella pubblicazione dell’opera
arrivata prima al concorso), Certezze è l’opera quarta di Anna Maria
Guidi. Venuto subito dopo Tenacia d’ombra, una raccolta che appare al
lettore tutt’altro che umbratile e sommessa quanto piuttosto la sentita e
coraggiosa rivendicazione della propria arte poetica, tesa come un arco pronto a
scoccare la freccia della propria scommessa di scrittura, Certezze è,
invece, un libro fatto di domande, di interrogazioni forti sulla propria natura
e sul proprio destino, simbolo e sintomo di una ricerca intesa a definire la
propria prospettiva di verità attraverso la scrittura. Le “certezze” che nascono
dai dubbi non sono, per questo, meno certezze. La sua riposata fiducia nell’aver
ormai attinto alle possibilità profonde di
una
scrittura radicata nel proprio mondo interiore emerge dalla capacità che essa
rivela nel momento stesso in cui si costituisce quale senso compiuto
dell’esplorazione del proprio universo sentimentale e umano; la prospettiva
dalla quale Anna Maria Guidi muove ed alimenta la propria ispirazione è legata,
infatti, alla sua capacità acquisita di stabilire la differenza tra parole vere
e parole menzognere, tra parole supportate dalla verità e tra parole destinate
all’oblio della chiacchiera. Per questo motivo, la sua poesia si stringe intorno
ad alcuni nuclei fondanti la sua ragion d’essere più autentica e si configura
come un’esplorazione della perdita di senso del mondo e del modo di
riappropriarsi della sua prossimità. Le parole appaiono l’unico sistema capace
di ridare senso a ciò che sembra non poterne più avere e di ridare fiducia a
quelle forme di relazione intellettuale e morale (la pratica della ragione come
confronto e come ricerca, l’amicizia e l’amore come collanti della dimensione
sociale) che la poesia insegue nel tentativo di mettervi un punto fermo. Forse
il suo compito oggi è proprio questo di fronte alla Storia e al Mito: inseguire
le domande e trasformarle in certezze non apparenti o scontate ma in strumenti
che risultino fondamentali per rifondare e verificare le proprie possibilità di
vita a venire. Quella di Anna Maria Guidi è, per questo, una poesia ad alta
densità morale. Infatti, la sua ricerca poetica procede verso l’alto, di
difficoltà morali in difficoltà linguistiche: la sua ascesa al Parnaso è ardua
e ha bisogno di lavori di scavo molto profondi per aprirsi una strada
purchessia.
Di questo
l’autrice dà conto in alcune liriche di forte pensosità metaforica come questo:
“Tratturi. Non faccio che sognare // Sogno / sogni scoscesi / come
tratturi / irti di montagna / che senza appigli devo / scalare” (p.31). Dove
l’evidente equivalenza tra sogno e scrittura, tra sognare e scrivere poesia si
trasforma in esaltazione e sforzo, in timore nei confronti delle difficoltà e in
gioia per saperle affrontare. I “tratturi” da scavare per accedere alle alte
vette della perfezione letteraria (lo sforzo titanico di scalare una montagna
scoscesa e pericolosa, irta di punte aguzze e di tratti scivolosi per il
ghiaccio eterno, per raggiungere, dopo la fatica di un percorso lungo, pesante e
angosciato, la vetta della gloria letteraria è topos ben radicato nella cultura
occidentale a partire dal suo estensore Flaubert) sono ovviamente i percorsi
dello scrivere, dell’incidere i propri pensieri e le proprie parole (con la
penna o con i tasti del proprio computer) nella materia magmatica e sconnessa,
nella ganga fangosa delle idee e delle parole ancora non calibrate o non
adeguatamente trasformate nella carica dialogica del concetto. Tra tratturi e
in-certezze, allora, la poesia di Anna Maria Guidi tenta l’assalto al cielo e il
suo risultato finale fa capire come l’autrice sia riuscita a superare le
inevitabili difficoltà di ogni percorso di questo tipo e stia per intraprendere
un cammino che potrà portarla molto lontano e molto in profondità se saprà
perseverare in esso, come è infatti legittimo pensare nel momento in cui la
poetessa reitera il suo sforzo linguistico e si propone di meglio articolare e
legittimare liricamente le proposte contenute nel libro precedente.
In transito [Firenze, Polistampa, 2005.]
(che contiene anche un importante e sollecito
Invito alla lettura di Giorgio Luti) che è, infatti, il quinto libro di Anna
Maria Guidi rappresenta forse la sua mano sinistra pronta a scandire il tempo
musicale della sua poesia con l’aiuto della razionalità della sua mano destra.
In esso, ma in
maniera mai così possente e con tanta coerenza con i propri assunti di
partenza, la forza espressiva e il senso del dolore del mondo che nasce dalla
messa in scena del cammino attraverso la storia (piccola e grande, fatta da
pochi e subita da ognuno) di chi ha saputo continuare a percorrere e superare
le macerie del secolo trova nel momento cruciale del percorso il suo tratto
distintivo, la sua marca precisa, ogni volta e di nuovo capace di identificare
la ragion d’essere di una scelta poetica. Essere poeti – sostiene Anna Maria
Guidi – significa saper mettersi in transito, rischiare in proprio, definire e
definirsi come momenti itineranti i propri momenti migliori e la propria
capacità di vivere traendo da essa la linfa vitale per la propria poesia.
Ed è davvero
nella descrizione del passaggio tra dolore e gioia, tra vita e morte, tra
poesia e sua negazione nelle brutture dell’esistenza negata, tra riflessione e
canto il senso e la verità della scrittura di Anna Maria Guidi: un sogno che si
fa espressione lirica e trasforma le esperienze vissute in progetto di
rigenerazione del reale atttraverso le parole martellanti e dolcissime del
poeta.
Fin dall’esergo
(“Vivere è un sentiero futuro, / già trascorso. / Niente ci dice addio. /
Niente, niente ci lascia”) dovuto alla penna autorevole di Jorge Luis Borges,
l’idea di fondo del libro è quella dell’attraversamento del tempo, della sua
esplosione in epifanie legate al quotidiano e alla sperimentazione del reale
senza che questo comporti un giudizio (moralistico o meno – ma, è noto, i
giudizi sul tempo e sul passato rischiano sempre, per loro natura, di essere
moralistici) ma soltanto un’ accettazione della loro funzione e del loro
successo in essa.
Si legga, ad
esempio, a p. 67:
«The show
must go on. E’ un acrobata / al trapezio il poeta. //
Volteggia di parole / e non usa la rete. // Regala segni, / labili tracce / in
punta di pensiero: // euritmiche giostre / guerriere d’armonia, / senz’armi
nella tenda insanguinata / ove tiene la scena /
–
prim’attore – / il numero spietato dell’esistere».
La poesia,
dunque, è un rischio, un salto mortale nell’assoluto, un viaggio senza
(possibile) ritorno: ci si può far male nell’intingere di parole la pagina
bianca, nel passare da un sogno all’altro, da un delirio di segni ad ogni altro
possibile altro, da un’epifania fatta di ricordi e di sensazioni alla
descrizione senza pietà del proprio animo profondo e del proprio dolore di
vivere.
Come già aveva
annotato Giorgio Luti nel suo Invito alla lettura al libro:
«Così sembra
chiara l’intenzione di corrispondere con i vari gruppi di liriche alle tre fasi
che si possono facilmente individuare nel contesto generale dell’opera. Voglio
dire che in realtà la raccolta si suddivide, è vero, in tredici movimenti, ma
questi a loro volta si addensano e confluiscono nella agglutinazione di una
sorvegliata, precisa dimensione. Il percorso che si viene compiendo porta da una
memoria di una giovinezza ricca di scontri e battaglie interiori nelle
difficoltà di una crescita sempre provvisoria, mai conclusa, dal superamento di
tutte le appuntite avversità che i versi vengono rivelando (“ferivano, acuminate
spine / di riccio i miei pensieri”) fino alla mietitura di “raccolti d’armonia”
nel campo dell’anima, che di quei pensieri custodisce “intatto il sentire” » (p.
9).
Il “transito”,
dunque, è certo quello della vita (e ciò potrebbe assomigliare a una semplice
quanto banale trenodia per il tempo che passa) ma è quello della conoscenza
della indefettibilità e della scorrevole inesorabilità della vita perché senza
le storie di Celestino che in grisaglia metteva in ordine il tabernacolo della
Madonnina sull’argine ripulendolo dagli insetti e dalle erbacce che la abitano e
la possiedono con la loro maniacale e meccanica virtù di auto-riproduzione (pp.
43- 45) o di Fidelmo che dura la sua sobria e rassegnata esistenza in attesa di
“andare” e di raggiungere la moglie senza dolore e senza rimpianti per aver
vissuto molto poco la propria vita di stenti e di magre soddisfazioni (p.
65-66), senza il racconto della vecchiaia solerte e silenziosamente sorridente
di Teresina ed Ernesto (p. 94) o del destino sereno di Sterpignèra morto senza
soffrire in pace e in coerenza con se stesso (pp. 97-98), senza la storia di
Lena, lunga e dolorosa e languida vicenda d’amore e di morte (pp. 113-116) o di
quella di vino e di delirio di Schìcchero morto per non aver saputo trovare più
casa sua (pp.131-132), il libro di Anna Maria Guidi non avrebbe né potrebbe
avere quel senso di ineluttabile accettazione della prossimità del mondo che
conserva.
Per questo
motivo, In transito costituisce uno straordinario regesto di situazioni
poetiche (e forsanche di impoetiche ma ricondotte quasi a forza al registro di
queste) che permettono di pensare alla poesia come a una raccolta di vicende che
accadono misteriosamente e si svolgono, quasi in sogno, davanti agli occhi di
chi ha appreso a vedere proprio grazie alla poesia e le trova capaci di
alimentare quel gioco di prestigio e quell’esercizio sul trapezio in cui
consiste (di solito esattamente e talvolta con un qualcosa in più che la rende
capace di sopravvivere al Tempo e al Transito) la natura della scrittura come
verifica e sostegno morale alle misteriose vie traverse della Vita.
In queste tre
prove di maturità espressiva, Anna Maria Guidi si conferma scrittrice lirica di
forte interesse poetico – la sua produzione abbondante e sempre di livello
permette di considerare il suo approdo una sorta di punto di resistenza nei
confronti dell’avanzata (che si spera arrestabile) della poesia di passo di una
gran parte della sua generazione.
4. Alla
ricerca di una purezza possibile. Etica e poesia in Innocenza Scerrotta Samà
Le raccolte di
versi di Innocenza Scerrotta Samà sono sempre piuttosto smilze e sembrano povere
di contenuto rispetto alla voga dei grossi volumi che contraddistingue il
trend dell’editoria globalizzata. I suoi libri non superano di solito le
cinquanta pagine e nessuno di essi è, di solito, più lungo o più gonfio di
parole degli altri. Esattezza, misura, parsimonia di aggettivi e avverbi, nitore
formale, precisione nella costruzione delle frasi, volontà di costruire
espressioni concise e frementi di significato, rigore nella ricerca nei
contenuti: tutti questo appartiene alla logica di funzionamento della poesia di
Innocenza Scerrotta Samà. Come sempre. Quasi come sempre.
Il suo punto di
partenza (come in Dal sangue di Medusa del 2002 – ma è caratteristica
comune a molti suoi testi) resta pur sempre il tentativo di costruire una
mitologia “del moderno” che non sia inferiore nei risultati a quelli conseguiti
ricercando e revisionando i temi topici della mitologia classica. La
rivisitazione del mito e la loro trasformazione in “favole del Moderno” occupa
la mente operosa di Innocenza Scerrotta Samà e la rende capace di operare, con
pochi tratti, uno stravolgimento e spesso un ribaltamento lirico dell’opaco
panorama di un’esperienza vissuta e quotidiana incapace di accettare e
determinare se stessa. Il lirismo della Samà si sostanzia della visione di un
passato non certo acriticamente accettato e assorbito in quanto tale ma
ri-vissuto come esperienza assoluta che tende all’eterna dinamicità di un
sempre-presente dello spirito. Nella sua opera, infatti, non c’è sutura o
frattura tra ciò che si vive e ciò che si aspira a vivere: l’orizzonte del
ricordo del passato classico basta a rendere praticabile la battigia di un
presente che si vorrebbe riscattare e rinnovare con la forza e la potenza di un
verso capace di illuminarsi nel sogno.
Tra i miti (e
gli eroi che li incarnano) che costellano e sanciscono la legittimità della
mitologia classica a costituirsi quale fondo ed archetipo iniziatico della
cultura occidentale, quello di Medusa è sicuramente il più spaventoso e,
sicuramente, il più numinoso, il più dotato di forza del Sacro.
La forma di paura più esiziale per gli esseri umani non è tanto
quella (naturale e, in fondo, prevista e prevedibile, anche se sempre respinta)
che concerne la necessità di morire quanto il timore di essere eterni nella
propria morte.
Essere trasformati in figure di pietra, essere medusizzati e
ridotti al rango di una cosa (un qualcosa di gelido, immobile, roccioso,
impassibile anche se immortale) produce un tale raccapriccio che a stento esso
può essere comunicato ai propri simili.
Tale è l'effetto del gorgoneikon agli occhi di chi si
trova ad essere guardato con la stessa fissità del proprio sguardo atterrito dal
volto vivente della Morte.
«Da questo punto di vista si potrebbe dire che la maschera
mostruosa di Medusa traduce l'estrema alterità, l'orrore terrificante di
quel che è assolutamente altro, l'indicibile, l'impensabile,il puro
caos: per l'uomo, lo scontro con la morte, quella morte che l'occhio
di Medusa impone a tutti coloro che incrociano il suo sguardo, trasformando ogni
essere che vive, si muove e vede la luce del sole in una pietra immobile gelida,
cieca, ottenebrata» [Jean-Pierre Vernant, La morte negli occhi, trad. it. di L. Saletti,
Bologna, Il Mulino, 1987, p. 6.].
Per questo
motivo, Medusa rappresenta l'Orrore senza aggettivi.
Ma proprio perché non può essere attenuato nel suo potere e
nella sua capacità di riflettere e restituire l'immagine di una paura senza
termini di confronto diretto, essa attinge la dimensione di un Sublime che forza
la dimensione della parola per disporsi sul piano di un'umanità che conosce il
grado zero del terrore puro e quindi della propria assoluta fragilità
creaturale.
La testa di Medusa mozzata allo specchio da Perseo e riposta
nella bisaccia da viandante dell'eroe destinato dal Fato a porre termine al suo
comando sulle sorti umane diventa il simbolo di ciò che si rivela totalmente
Altro rispetto all'uomo e la sua natura materiale e spirituale: essa rappresenta
ciò che l'uomo non potrà mai sconfiggere ma che dovrà imparare a fronteggiare
anche in futuro.
Medusa è, quindi, simbolo (efficace e grottesco insieme,
spaventoso e ridicolo nello stesso tempo) del Male puro.
«La faccia di Medusa è una maschera; ma non è che la si porti su
di sé per mimare la divinità: questa figura produce l'effetto di maschera
semplicemente guardandoti negli occhi. Come se questa maschera non avesse
lasciato il tuo volto, non si fosse separata da te che per fissarsi di
fronte a te, come la tua ombra o il tuo riflesso, senza che tu possa
staccartene. E' il tuo sguardo che è preso nella maschera. La faccia di Medusa è
l'Altro, il doppio di te, l'Estraneo, in reciprocità con la tua figura come
un'immagine nello specchio (quello specchio dove i Greci non potevano vedersi
che di faccia e sotto forma di una semplice testa), ma un’ immagine che sarebbe
ad un tempo meno e più di te, semplice riflesso e realtà dell'aldilà,
un'immagine che ti afferrerebbe perché, invece di rimandarti soltanto l'aspetto
della tua figura, di rifrangere il tuo sguardo, rappresenterebbe, nel suo
ghigno, l'orrore terrificante di una alterità radicale, nella quale tu finisci
per identificarti, diventando pietra» [Jean-Pierre Vernant, La morte negli occhi cit., pp. 82-83.]
Diventare
pietra: ecco la sostanza di cui è composto l'orrore allo stato puro.
Restare per sempre immobili, astratti, non identificabili. Non
poter più aspirare alla libertà d'azione e di movimento degli uomini. Non essere
mai più una “libera pietra” (il nome del più celebre Dottore della letteratura
romantioca viene dalla sua capacità di farsi pietra e rimanere libero –franken-stein:
anch'esso rappresentazione tremenda e ammonitrice della libertà umana e della
sua potenziale ύβρίς). Ma dal sangue di Medusa non si sprigiona soltanto la
potenza dell'orrore della stagnazione e dell'immobilità, la negazione del
movimento e della libertà degli uomini.
Il mito racconta altro ancora. Dalla testa mozzata dal falcetto
di Perseo nasce Pegaso, l'immortale cavallo alato caro a Poseidone da cui Medusa
era stata fecondata.
«La leggenda sostiene che quanto meno due sorgenti siano nate da
un colpo dello zoccolo del cavallo: quella di Ippocrene ("sorgente del cavallo")
sul monte Elicona e quella omonima di Crezene. Il puledro vagava libero per la
terra e nei cieli rifiutando di farsi avvicinare da qualunque uomo. Bellerofonte
lo catturò ugualmente con l'aiuto dell'indovino Polido» [Michael
Grant - John Hazel, Dizionario della mitologia classica,
trad. di K. Bagnoli, MIlano, SugarCo, 1986, p. 67.].
E il mito aggiunge ancora: le Muse, dee della Memoria e della
Narrazione poetica, del Canto e della Bellezza, solevano risiedere ad Elicona,
vicino ad Ascra in Boezia, proprio presso la sorgente fatta scaturire dallo
zoccolo di Pegaso.
E soprattutto: chi fu sconfitto da Bellerofonte con l'aiuto del
suo fido cavallo alato se non la Chimera, il mostro che infestava e devastava la
Licia?
E' in questo modo che si può meglio precisare il disegno
metaforico (sottile ma teso come la corda di un arco da tiro, sotterraneo ma
pronto a riaffiorare come un fiume carsico) della poesia di Innocenza Scerrotta
Samà.
Dal sangue di Medusa (il Male che si scopre assoluto, l'orrore
che è senza definizioni, la malvagità senza aggettivi, katexochen) nasce
e si libera la capacità proiettiva della Poesia, la sua natura assoluta e
libera, il dono fatto agli uomini di potersi e sapersi liberare a loro volta
grazie ad essa.
La Poesia scaturisce dalla morte e dalla condanna del Male
(della violenza, del dolore, della sofferenza, della Morte come negazione della
gioia e del piacere di vivere).
E' questo, in sostanza, il messaggio etico che Innocenza incarna
con la sua poesia: la sua pietas si trasfonde in parole scabre come
pietre e affilate come lame di Toledo, in toni dolci e mormorati di musiche
antiche, in sussurri che rimbombano come grida nella valle dell'eco della
soggettività contemporanea.
La sua passione è passione dell'umano; il suo grido di rivolta è
in nome di tutta l'umanità; il suo gesto lirico e appassionato si rivolge a
tutti in nome di una bellezza che appartiene più al futuro che al presente.
E' questo anelito di speranza per coloro che verranno che le fa
scrivere senza retorica (ma anche senza paura):
«Ti vidi / bianco vestita / nel mattino, / paludata d'oro /
nel meriggio, / fasciata d'ombra / la sera / Prima che scenda / la
notte, / concedimi la tua nudità» (a p.19).
Siamo, ovviamente, di fronte all'evocazione della Vita: candida
perché ancora non toccata nel candore della sua speranza in un mondo migliore e
nella sua giovinezza inebriata e pura, rifulgente d'oro nello splendore del
meriggio della maturità, umbratile e abbrunata nel primo apparire delle ombre
vespertine.
Prima che la notte cali il proprio sipario supremo, la poesia
aspira a rivelare in pieno la natura del mistero (sacro e profano) che
l'esistenza rilutta a portare alla luce.
E' di tali profonde aspirazioni etiche che è trapuntato il velo
translucido della scrittura di Innocenza Scerrotta Samà: aspirazioni che si
fanno sapienza compositiva e modalità strutturali di una scrittura che da sempre
si costringe a correre il rischio di bruciare pur di portare a termine il suo
tentativo assoluto di attingere alle fonti dell'inesprimibile.
Il suo ultimo
libro, invece, che reca l’emblematico e attonito titolo di Afa d’agosto,
contiene tuttavia degli elementi di diversità anche forti rispetto alle
precedenti raccolte (penso soprattutto a Quale Volto che è del 1997 ma
anche a Fra i rovi del dubbio del 1999 e a Il peso del silenzio
del 2004 che immediatamente segue il già citato e commentato Dal sangue di
Medusa del 2002). Per questo motivo è opportuno ritornare sul discorso
critico già fatto.
In esso la
capacità di dialogo con gli altri, con il mondo, con la realtà a lei circostante
e che l’avvolge indistricabilmente, sembra per un momento bloccata, occlusa,
quasi resa ottusa dal dolore del mondo e per il mondo. Si legga perlappunto la
poesia che dà il titolo alla raccolta:
«L’afa d’agosto
ingombra la
stanza,
la mente, il
respiro.
Occhi vitrei
ingombrano il
lavello.
Ossessivo
il gocciolar
dell’acqua
sull’eterna
assenza,
il martellar di
voci
sui colpi di
mitra
e di lupara,
corpi
riversi sulla
sabbia,
immersi nello
stagno,
confusi tra
discariche ferrigne,
in dolorismi
il volto di
Niobe.
Lampo di sfida
Al corso degli
eventi» (p. 3).
Qui il richiamo
alla vicenda antica e sempre nuova di Niobe, sposa di Anfione e vittima del suo
orgoglio di madre (di ben quattordici figli! che saranno, però, il bersaglio
delle frecce acute e spietate di Apollo e di Artemide), in realtà, non vuole
creare un ponte tra antico e moderno, tra il sangue versato invano e il suo
riscatto nell’eternità del mito (e della scrittura).
Qui la sorgente
delle lacrime eternamente fluenti di Niobe fatta diventare pietosamente roccia
dalla commossa volontà di riparazione degli dei non compensa i corpi massacrati
dalle mafie e dalle camorre che della potenza degli immortali non hanno
veramente nulla.
Qui il gocciolio
insistente e un po’ ottundente dell’acqua della cannella estiva non ha nulla del
flusso pietoso delle sorgenti che scendono, calme e impetuose allo stesso tempo,
giù dal monte Sipilo. Qui il caldo soffocante dell’estatre non ha nulla a che
vedere con il calore rappacificato che contraddistingue il rapporto armonico tra
uomini e dei.
«Una delle
qualità essenziali di Innocenza Scerrotta Samà, che appare immediatamente a chi
legga le sue poesie, è la virtù dell'attenzione (alle persone, ai propri cari,
agli amici, alla storia contemporanea, alla bellezza del mondo, della
creazione). Questa attenzione si traduce, si esprime, in un dettato poetico che,
in metafore di luminosa intuizione, sa cogliere nell'attimo fuggente del tempo i
valori eterni di una memoria tradizionale, classica e cristiana. La lettura del
mondo classico, della sua mitologia, rivive nelle sue pagine con una attualità
cosciente, in liriche forti e lievi» - ha
scritto della sua poesia, con intelligenza e pietas
critico-artistica, Franco Manescalchi.
E non si può non
concordare con lui quando ritrova nella volontà di creare cortocircuiti
espressivi e concettuali con la tradizione del legato classico del mondo
occidentale la forma preponderante della ricerca di poetica della Scerrotta
Samà.
Ma qui sembra
che quel rapporto appagante e costruttivo tra la dolorosa armonia dell’Antico e
la dilacerante monodia del Moderno (per dirla con la filosofia dell’arte che
contraddistingue il Nietzsche di La nascita della tragedia) non
sembra più voler avere luogo.
Qui la poesia
getta la maschera e si rivela il luogo per eccellenza delle contraddizioni tra
la vita e il suo luogo di decantazione assoluto rappresentato dall’Arte. Così
scrive la Scerrotta Samà più da presso:
«La parola si
spoglia
dell’ipocrita
bellezza
del sublime.
Esclusa dal
luogo di luce
cui tendeva
senza voce
e ardor di
conoscenza,
cammina muta nel
caos,
muta di stupore
al quieto volto
dell’essere
straziato
dall’istinto selvaggio
e teso a quella
forza
che sempre e
dovunque gli appartiene
come nave
in oscura deriva
al faro lontano
» (p. 13).
La parola del
poeta non ha più bisogno della retorica che la voleva appagata della sua
bellezza.
Né la “grande
anima” di longiniana ascendenza, quella forma di agire morale che rendeva
entusiasmante e prodigiosa la costruzione del disegno della poesia può più far
gioco nel momento in cui il vivere umano non ha più Centro e il suo sogno di
luminescenza etica e conoscitiva si spegne nella buia pozzanghera di un Male più
assoluto della sua possibile redenzione.
La nave della
giusta e corretta condotta degli uomini andrà a schiantarsi lontana in mare
aperto sulle secche di una falsa ed ipocrita concezione del bene da perseguire,
molto distante dal faro che avrebbe dovuto guidarla nel suo cammino assoluto di
doveri e di necesssità esistenziali, di sogni e di aspirazioni per il futuro.
La luce della
verità e il soffio della sapienza si rovesciano nella pozza nera e stagnante
dell’ignoranza e nell’aria stagnante dell’incapacità di decidere da che parte
si trova il senso giusto del proprio destino.
Così l’aria che
si rifiuta al soffio del Paraclito sarà condannata alla morte per asfissia nella
prigione del delirio insensato di un caos senza speranza di riscatto:
«L’afa d’agosto
col volto
affilato di pietra
incide ferite
che rifiutano
bende
di pensiero
nostalgico,
d’innocenza
edenica.
Perduta
senza conoscerla
dal grembo
materno
alla luce» (p.
24).
La nostalgia di
un passato armonioso e privo di cicatrici e la prospettiva di un ritorno alla
dimensione linguistica dell’eden primigenio non bastano a saldare il conto alla
corruzione e alla corrosione del linguaggio dell’oggi.
Il cammino che
andrebbe compiuto lungo il percorso che conduce alla salvezza possibile si
perde fin dal momento stesso in cui si viene alla luce e si accetta il fardello
di una culpa che però ormai non sembra più avere nulla della felicitas
che gli assegnava il santo di Ippona. Solo l’aria chiusa e impazzita del dolore
che anticipa il gelido riposo senza sogni della morte o l’acquiescenza senza
ribellione all’’inebetito scorrere dei giorni:
«Il treno fermo
vive la mia
noia,
la noia,
la noia,
la mia noia
sulle rotaie
ferrigne.
Foglie vaganti
in acque
limacciose
mostrano al
cielo
la mia noia.
La noia,
la noia,
la mia noia
sente chi
accanto a me
guarda nel
vuoto.
Lenta la pioggia
piange la mia
noia,
grigia la nebbia
avvolge la mia
noia,
gli uomini e le
cose» (p. 10).
Il mondo allora,
schopenhauerianamente, si distende tra dolore e noia dove la noia non è più l’ennui
creativo di chi riempiva di essa le proprie giornate ciondolanti tra
ambizione poetica e dispiegamento incontrastato dei propri sensi liberati (è il
caso della grande poesia simbolista francese dell’Ottocento rimbaldiano) ma è la
pura e semplice accettazione dell’infelicità. Viaggiando alla ricerca di se
stessi non si ritrova quel cammino diritto che conduce alla consapevolezza e
alla gioia di vivere ma si scandisce sempre e ancora un passaggio su rotaie
infinite ed implacabili che riconducono solo nell’inferno immobile e
irredimibile dell’autocompiacimento e della ripetitività.
Il grigiore
della pioggia, la sonnolenta e snervata attesa di novità che non arrivano (né
potranno mai arrivare in quest’”atomo opaco del male”) il pianto lento e
implacato del mondo preludono a un lento disfarsi dei soggetti e dei loro amori
e alla loro condanna di non essere mai più in grado di pronunziare la parola
“felicità” (o “amore” – ma si tratterebbe di termini che vorrebbero coincidere
nel giro di giorni che continuo si inanella e si distende sotto il sole di ieri
e di oggi).
Il Male sembra
essere in continuo e perenne agguato al posto di quello che ci aspetteremmo
essere ancora “il migliore dei mondi possibili”:
«Indomito
striscia il
serpente
sulla terra
che inventammo
d’esilio.
Adamo oscura
immensità ridenti
con rovesci
improvvisi di follia,
illumina di
gioia
abissi d’ombra»
(p. 25).
Il Male striscia
ancora sotto forma del serpente tentatore che trasse nell’abisso Eva e Adamo e
li condusse nella terra d’esilio priva del conforto della presenza di Dio. Ora
noi viviamo nel suo silenzio immane e senza apparente rifugio e salvezza
rispetto al dolore e all’impotenza di vivere.
Eppure,
nonostante tutto, anche per Adamo e le sue nuove trasformazioni che vengono
profetizzate quali rivelazioni straordinarie del destino del presente (vere e
proprie lezioni che vengono dall’abisso, sopite nel silenzio delle profondità
della mente o rivelate da emergenze improvvise di follia e di ferocia) è
possibile pensare a un riscatto, a un vento nuovo che sia in grado di spazzare
l’afa pesante di un estate eterna, illune e senza senso:
«Vento
improvviso.
Impetuoso.
Scuote le
imposte,
ruba tegole al
tetto,
strappa alla
chiesa cadente
la campana,
sconvolge l’orto
con acqua
d’oceano,
urlo di
Cassandra,
s’abbandona
docile,
stanco
docile alla
quiete» (p. 4).
Il vento nuovo
della tempesta salvifica sorge all’improvviso e il grido che l’annuncia rende
accettabile e accessibile il suo gesto aurorale e la sua volontà potente di
rigenerazione (dopo l’afa il temporale che porta via la morte ed il contagio
come nel penultimo capitolo dei Promessi Sposi).
Il vento
soffia dove vuole – come dice Giovanni nel suo
Vangelo finale – e soffia dove è necessario che avvenga il passaggio dalla morte
alla vita ritrovata.
L’arrivo della
tempesta non è l’avvento della distruzione, anzi è la catastrofe (linguistica)
che rovescia un verbo periclitante per sostituirlo con la parole mai creduta di
Cassandra. Eppure vera, eppure sincera, eppura fresca come il linguaggio che gli
uomini parlarono in un Eden che era non tanto un luogo geografico quanto la
topografia dei loro cuori incapaci dell’ipocrita sanzione che condanna la parola
al ruolo seduttivo di menzogna o di cancellazione della potenza della verità che
libera:
«Luci ed ombre
si chiamano,
s’inseguono,
si baciano
nei campi,
sui tetti,
fra case.
La città,
specchiata
in pozze
azzurre,
non riconosce,
aerei, i suoi palazzi.
Danzano.
Tremano.
Scompaiono.
Tornano
ossequiosi a salutarla.
La furia estiva
gocciola nel
sole.
L’afa d’agosto
evapora in
frescura» (p. 5).
La potenza del
vento si trasforma in freschezza di parola. La poesia, evocata dal soffio
assoluto che conduce e consente l’emergenza della capacità di nominare cose e
situazioni, passioni e concetti, aspirazioni e sogni trasforma il mondo e ne
sovverte i criteri sul quale si fonda.
La sua forza e
la sua furia sovvertitrice cambiano il volto dei luoghi e il loro senso una
volta ammuffito e corroso.
La bellezza
della realtà ritorna a far sentire il morso ardente dell’amore che non soffoca
né artiglia ma rinfresca e consola, rinvivisce e restituisce ciò che è spento e
non si riconosce più nel suo soffio vitale. Si attua il rovesciamento atteso e
pur tuttavia insperato da tempo.
La forza
immemoriale della poesia (la sua tempesta impietosa e tenerissima) salva il
poeta e chi lo circonda dalla morte per asfissia dell’afa dei sentimenti e del
cuore, dal tracollo non riscattabile delle parole che non hanno più senso e non
ne comunicano a chi legge e ascolta..
«Senza ipocrisia
di veli
s’alza l’urlo
della nostra
giungla,
il fragore
dell’oceano oscuro,
il nostro oceano
oscuro,
violento
d’onda e di
relitti,
di calici amari
sul verde
sentiero
degli ulivi,
sulla tenera
notte
degli amori,
sul sereno
risveglio
del mattino.
Senza ipocrisia
di veli
Sull’abbandono,
lo strazio,
la caduta
l’occhio
dell’amore nudo.
Ed
è
armonia» (p.
30).
Dopo l’afa
d’agosto, il fresco soffiare di venti dolci e ammalianti. Dopo la pausa
stagnante della morte-in-vita la resurrezione del desiderio e del piacere dei
corpi e delle anime. Dopo la noia dell’impossibilità di vivere, il recupero del
sogno dell’armonia pregressa.
La poesia invita
ad accettare il grido e il furore della tempesta, il buio dell’abisso, il salto
mortale della scelta radicale e della decisione assoluta.
Il compito del
poeta è quello di leggere quell’abisso e quel salto nel vuoto per trasformarlo
in una nuova e definitiva “promessa di felicità” (per dirla con lo Stendhal del
De l’amour).
Il cerchio si è
chiuso; la parabola dell’amore e della morte, della caduta e del regno, del
trionfo e della decadenza, del potere e della gloria (il richiamo dal profondo e
la consapevolezza dell’emergenza del “Dio che atterra e suscita / che affanna e
che consola” di manzoniana ascendenza) può ricominciare ancora il proprio “giro
di giostra” sotto il segno senza tempo della poesia quale bene comune degli
uomini.
4. Lezioni di
chiaroscuro poetico: la dialettica di Patrizia Pallotta, lo sperimentalismo
appassionato di Nadia Cavalera
Il dolce e
l’amaro: una dialettica ben nota nella vita e nella
scrittura poetica ma qui declinate in maniera nuova, se non del tutto personale.
Certo l’andamento della poesia di Patrizia Pallotta è ampiamente confessato come
aderente ad una poetica di tipo classicistico anche se in esso permangono dubbi
severi e striature profonde di riflessione critica:
«Dilemma.
Mi seduce il poetare / nel cullarmi fra maree di dilemmi / e lo sciabordio / di
gondole a riva / pensose e trasognate. // Amletico dubbio: / svilire parole che
affiorano lente, / o socchiudere gli occhi / gettando sul candido foglio /
inedite macchie vaganti? // E’ attratta da tale altalena / la piccola mente, /
racchiusa da rime profane, / che, frizzanti come grandine, / destano vecchie
fontane di pietra» [Patrizia Pallotta, Il dolce e l’amaro, Roma, Sovera Editore, 2005, p.
15.].
La logica
dialettica del chiaroscuro qui colpisce ancora: la scelta tra il classicismo (le
parole che”affiorano lente” sfilandosi da un passato sempre vivente) o l’attesa
dell’evento sperimentale (le “inedite macchie vaganti”) è colta nel suo
oscillare tra l’appagamento nei confronti del passato e la pretesa di un nuovo
avvenire linguistico. L’”altalena” è quella legata alla scelta di un modo di
esprimersi il più possibile originale senza tradire però il legato della
tradizione originaria.
La scelta per la
possibilità di coniugare le paroli “frizzanti come grandine” (e quindi capaci di
una effettiva penetrazione nel reale) sempre collegate però alla fonte primaria
(le “vecchie fontane di pietra”) da cui pur sempre esse scaturiscono. Il
dolce e l’amaro, infatti, cerca di scandagliare il fondo della poesia e di
ritrovarne una dimensione più naturale e più confacente che possa essere
considerata come quella autentica:
«Lettura.
Una mano / volta la pagina di un libro / e quel fruscio / è il tuo desiderio /
assetato di scoprire / il suono del dopo. // Quel dopo / che ti verrà narrato,
/ è la fantasia lontana / di un’arpa che sottolinea / l’evadere / dal frastuono
del mondo. // Quel mondo, / sommerso da voci / che non avvertono il dolce
vbrare / della tua mente, / che spazia, sospira, / affievolisce la luce… e
sogna» [Patrizia Pallotta, Il dolce e l’amaro cit. , p. 60.].
La poesia è
fuga, evasione, sogno: leggere (e, di converso, anche scrivere) implica il
desiderio di cancellare con un tratto di penna (o voltando in fretta la pagina
per trovarne un’altra) una realtà fatta di frastuono, di noia, di grigiore
quotidiano, di desideri e sensazioni insoddisfatte. Il primato poetico è nella
mente: la capacità di fuga e di costruzione di mondi altri e diversi dal
presente (eco leopardiana potente!) è dentro la poesia e la sua capacità di
definire i propri perimetri di gioco e di scrittura. Per Patrizia Pallotta,
dunque, il lascito della poesia classica permette alla sua lirica di esistere in
un mondo che ha completamente dismesso (sembra) l’habitus della cultura
scritta per abbandonarsi ad un’orgia di immagini e di voci, di parole urlate e
di gesti sbracati e illusori.
«Vestita di
parole. Mi sono vestita di complesse parole. / Ho cosparso il mio corpo / di
latinismi, ellenismi / dantesche similitudini / e nel calpestare le strade / ho
sperato di vederti, / vanamente pensando / d’accendere un umano riflesso / per
capire ch’io sia» [Patrizia Pallotta, Il dolce e l’amaro cit. , p. 47.].
Il corpo del
poeta coincide con la sua scrittura e si nutre di essa: il livello culto
dell’espressione non può far dimenticare la dimensione attiva e pubblica della
scrittura che non può ridursi ad essere il veicolo passivo di un’azione
macchinale: le strade e le parole sono strumenti, mezzi concreti, forme
d’attenzione utilizzate per conquistare la vita (e l’amore). Il chiaroscuro
nella poesia di Patrizia Pallotta si rivela, dunque, dialettico e formale
insieme – tra il contenuto e la forma (stretta e composta), tra la scrittura e
il desiderio profondo che rivela, tra le sensazioni e la loro ricomposizione si
instaura un gioco reciproco a ritrovarsi (e a spesso a scavalcarsi) che permette
alle pulsioni nascoste (e spesso ignote) di ritrovare la loro ragion d’essere
all’interno di una ricerca solo apparentemente resa stabile dalla compostezza
classicistica del detto.
Ciò è evidente
in un testo come:
«Imprevedibile.
Non amo l’imprevedibile, / che spezza l’equilibrio, / frantumando il mio corpo
/ che anticipa il suo sapore. // Sento il suo profumo, / avverto il colore del
suo fiore, / lo vivo, ancora prima / che si sveli a me. // La clessidra lascia
cadere / sabbia ingiallita / e vibra, come presagio, / che non sa riconciliarsi
col tempo» [Patrizia Pallotta, Il dolce e l’amaro cit. , p. 36.].
Ma
l’imprevedibilità della scrittura coglie di sorpresa anche il più calibrato
schema di copertura psicologica: la scrittura si prende la propria rivincita
attraverso lo scatto improvviso del desiderio nascosto. Il lascito classico si
sposa al chiaroscuro della mente in tensione per produrre poesia.
Allo stesso
modo, il lascito neo-avanguardistico gioca la propria partita nella scrittura
materialisticamente declinata di Nadia Cavalera e la costringe ad una
formalizzazioone tanto intensa quanto schiacciata sul versante di una
personalità forte e denotata quale è quella della poetessa in questione.
Neo-avanguardia e passione per il presente sono due dei termini prioritari per
l’interpretazione della sua scrittura apparentemente legata soltanto al libero
gioco del linguaggio.
Il progetto
della Cavalera è, però, più complesso. Et pour cause.
In
Vitanovissima (che è già del 1992) si legge ardentemente e con un po’ di
sfotto’ artistico:
«7
tes'è la lamma kriss e io volteggio alla
più peggio in ferro greggio saltellanfa
nando sui tacchi spilli dei capelli con
I'anchilosate mani reggo bucat'ombrelli
con la bocca lancio in sponsor gl'anelli
nei cestelli pirelli (: venite venite son
tanto belli!) mentre con ambo i pie'
titilvellico il monte paraninfeo d'una muta
grigi'anatra in volo forfait e sbatto in
gratto la natica d'una nuvola in desabillée
con le brache ai garre'
8
oggi meglio dunque me vedi miri et odi (:
altrove son le rose dei priori bollo-
ri a fiori) (: dopo lo squallore del vicolo
di aberdeen il ragazzo si rallegrò del
titolo e della sua abbazia e volle
acquistare il carattere dei suoi antenati in segno
di riconoscenza per le loro terre)
9
ah lulù rispetto a quanto prima non ci
credere (: si fa per la rima) nzartika pu-
re con le tue sperticate gambe strambe
rott'a stozze struncunisciata in bozze e
binche cozze lasci'anz'un folco folto solco
anche folclo ruspa vispa la via
smottala mulcila e fulcila e frullane nello
shaker piper con catrame e bignè la
polvere porteur poi fruttata ruttala
negl'occhi fissi dei robot a nastri già
confezionati marche e marchette brevettate
pluriassaggiate prima d'essere al
pubblico vendute (: vince sempr'ovunque
dunque il silenzio dei muti come dei
fottuti polluti cornuti) {..[..( lo
stoicismo contemporaneo per origine
all'epicureismo ebbe una storia più lunga
ed una minore costanza dottrinale)..]..}
10
sgattaiolai
ancora notte dalla botte culla del primiero saluto in scorbuto e
starnuto (: ororro la sfida dell'alba calva
senza malva meglio macerarsi
nell'alga marchi senza tanti carchi)
I'intentio era provare ma non risicare (:
puntata max tenuta pex) e in tax uncinai
tra i lai il metrò per una coincidentia
di partenza pel rinnovo di vicenza in
bianca dementia (: benché il piacere non
sia il bene, cionondimeno è ingiusto ch'il
virtuos'anche moroso debba soffrire
e manfrire)»
In questo testo
centrale per la sua produzione [Nel 1988 per le edizioni
della rivista TamTam, coordinate dal
compianto Adriano Spatola che firmava anche l’introduzione al testo, era già
uscito un testo assai singolare dal titolo Amsirutuf Enimma (dove il
primo termine è, ovviamente, Futurismo alla rovescia ma coniugato al
femminile) e di cui non si possono qui riportare brani per le difficoltà
grafiche che esso comporta. I testi poeti in esso compresi risultano
stampati una volta sul recto e un’altra sul verso in modo da
risultare modulati come una sorta di striscia di Möbius poetica.],
la Cavalera prova a inseguire il significante puro attraverso una vertiginosa
corsa tra dialetto, parole colte ed espressioni gergali (smottala mulcila e
fulcila e frullane nello shaker piper con catrame e bignè la polvere porteur poi
fruttata ruttala negl'occhi fissi dei robot a nastri già confezionati) dove
le espressioni extracolte come “mulcila” si connettono senza soluzione di
continuità con lo shaker e il piper e il porteur e i
robot usati come espressioni linguistiche “pure”. E’ evidente il
(confessato) rapporto con la scrittura del primo Sanguineti (da Laborintus
ai TAT di Wirrwarr) ma è altrettanto evidente il tentativo di
liberarsene attraverso un uso massiccio e spesso provocatorio di una possibile
prosa ritmica basata non più soltanto sulle assonanze ma anche sulle
contraddizioni fonico-tonali:
« 12
andar diando sf ma per alte mete quaggiù
lulù anche tu mi sprechi in prieghi e
di questi flebili striscianti echi (:
l'etica aristotelica non mi convince va bene
per chi ha deboli passioni ma nulla dice a
chi è posseduta da un dio da un
demonio o ai grandi disperati)
13
quel monaco eretico forse italico di certo
solo per errore fu elvetico non si può
ammettere neppure in lettere tale
degradazione è solo una questione d'amor di
patria pria in ribasso ora in rialzo
ovunque di sbalzo e così anch'io mi scalzo
nella congrega dei kamel trophyani (: che
soggetti strani: nel disastro sociale
piovono eremiti avventurieri giusto
nostrani)
14
mercato rionale informale follicolare (:
palato parziale) dalla finestra laterale di
casa mia (: restia ria mania) lungo fungo
disteso mungo oculato sulla via
spruzzato di memoria sonorizzato limite
gelato reclamizzato ciarliero forno
giornaliero attorno in azione l'esposizione
rispunta assunta punta mai smunta
la canzone mammone l'ambulante con volante
rampante come tante maneggia
mercanzia più meno greggia passeggia
occheggia (: scheggia della mia reggia)
guida novella mida invita alla vita trita
la clientela bela gela nella tela della vela
cela pela di mela financo querela chiede
ammende fende mente dalla sua mano
pende prende spende il lavoro rende vende
bende delle tende di chi sotto si
stende sente bisogno vitale sogno
essenziale agogno mandibolare riproduzione
materiale agghindata a breve data truccata
(: una rata) palizzata fatata ad una
mazzata setizzata (: mia tata) purga malata
visceralmente ingoiata massamente
sabotata in tornata (: ballata di sola
andata)»
si legge poi di
seguito, infatti. Alla lezione neosperimentale di vitanovissima,
seguiranno opere come Americanata [Il testo esce
come supplemento ai nn. 8/9, 1992 (in realtà nel 1993) di
Bollettario, la rivista che dal 1989 Nadia Cavalera dirige coadiuvata
dal maestro Sanguineti. Bollettario è, inoltre, una delle prime
riviste di poesia ad avere una versione online contemporanea a quella
su supporto cartaceo.]
(attribuita a una non meglio identificata Marie Donna Lancaster) ed Ecce
femina [Ecce femina (che è del 1994) esce nella collana che affianca la
napoletana rivista sperimentale Altri Termini.],
opera, invece, collettiva (dagli epigrammi latini di una supposta Annia Aurelia
Galeria Lumilla Augusta conseguono traduzioni dal latino in interlinea di Nadia
Cavalera che si fa aiutare per il commento da una pedantesca e assai retorica
signora dal nome di Kristina Donnicola). Due esperienza di scrittura basate su
un taglio assai simile di provocazione dove “il testo è una proposta, la
traduzione un’interpretazione” (come si legge nel colophon di
Americanata). In verità, anche il testo (soprattutto nel caso di Ecce
femina) è una proposta in quanto espone una forma di contaminazione
linguistica basata sulla rivelazione di mondi di parole appartenenti a tempi
diversi e lontanissimi, eppure com-presenti nel testo stesso.
Così la
presenza ricorrente della frase were motivated by religious fervor che
compare in qusi tutti i frammenti poetici di Americanata (e tradotta come
“erano spinti da fervore religioso”) è una sorta di coda beffarda che viene
aggiunta dappertutto (come accadeva all’”ampollina” applicata negli Inferi ai
versi di Eschilo e di Euripide nel corso delle Rane di Aristofane per
saggiarne la resa e la validità poetica). E così nel testo di Ecce femina,
la presenza dei due eteronimi fa saldare ogni gerarchia linguistica in corso di
scrittura:
«Il fatto che
Annia Aurelia Galeria Lumilla Augusta sia Nadia Cavalera, che ha fabbricato un
falso e ha pure, alla maniera di Pessoa, preso il nome della Donnicola, produce
in Ecce femina una straordinaria quota aggiuntiva di problematicità e di
demistificazione. Salta, infatti, qualsiasi gerarchia e si fa entropica
l’interferenza fra i testi; l’opera appare un tutto, ma discontinuo e frantumato
e polimorfo; l’interruzione prende a rovesciare sulla scrittura straniamento a
dosi massicce e d’urto. La citazione la vince, e non solo perché i prelievi,
senza essere recuperati ad un disegno fortemente coeso, popolano e intasano i
lacerti latini o le note di commento: la stessa traduzione, nella sua
dislocazione tipografica da bignamino (nel suo concorso in una simulazione
straniante di una poesia visiva), distrae ed enuclea particole materiali dal
contesto in sé frammentario e, infine, per dierla in breve, cita. La pratica
citatoria rilancia il plurilinguismo attraverso la contraddizione fra l’unità
dell’opera e la differenza dei discorsi, funzionalmente e linguisticamente
distinti, in cui essa si articola; e siamo ben al di là di una intenzione
meramente ludica, fuori della (e contro la) ideologia postmoderna, che
interpreta e usa il citazionismo come conciliante e neutrale allineamento. Si
pensi solo alla ginnastica dell’occhio e della mente che Ecce femina
induce, e alle scelte a cui chiama perentoriamente, pagina, dopo pagina, il
lettore. Come leggere?» [Marcello Carlino, Prefazione a Ecce femina cit. , p. 9.].
A riprova di
quanto Carlino scrive acutamente sopra, basterà andare a vedere cosa succede a
p. 24, al testo contrassegnato come XII:
«fortunam…
(turpi fraude sustinear tibi)
La
fortuna… con turpe frode sostenga te),
accipere nolo,
et spes
non voglio accettare, e la speranza
agricolae
paucis vero electis
dell’agricoltore in verità è per pochi
eletti
sed magis amica
veritas in hoc signo
ma più amica in questo segno la verità
(in fabula
fides pro domo suo)
(nella favola la fede per la sua casa)
»
E sotto, il
commento in calce di Kristina Donnicola:
«Non si
smarrisce di tanta vastità e tutto coglie l’aspetto di questo meraviglioso
tripudio in unn universo linguistico dove tersi fortemente speculative
affiancano l’articolazione logica della riflessione e del suo farsi grammatica.
Dove la persuasione matura nella verifica di un discorso consequienziale sul
livello semantico e su quello ritmo-fonico».
Le spiegazioni
in calce date da Kristina non hanno nulla a che vedere con il testo latino della
pseudo-Annia Aurelia, eppure i due testi si combinano nel ricreare l’atmosfera
del falso d’epoca: il commento (un po’ folle, retorico e onnicomprendente)
riprende la reboante prosopea del critico d’antan a confronto con un
classico e ne mima le contorsioni letterarie e pseudo-scientifiche mentre il
testo latino è fatto di frammenti coordinati di testi e frasi classiche
d’eccezione (e ampiamente riconoscibili) e la traduzione è letterale e fasulla –
in realtà non dà senso compiuto così com’è compitata. Ne viene fuori un
pastiche di rara grazia (e follia) che mira più al concerrto di voci e di
suoni che al senso prodotto dall’incontro delle parole.
Lo stesso
accade in Nottilabio [Nadia Cavalera, Nottilabio, con una nota di Giorgio Celli,
Roma, La Città della Luna, 1995.],
singolare romanzo-affabulazione-delirio di innesti di parole in un collage
di sensazioni e di citazioni. Di esso Giorgio Celli dice nella sua Nota:
«Quando la
Cavalera afferma qualcosa, la spiazza immediatamente dopo, e se ne va sempre per
la tangente della sua ultima affermazione, coltivando una pervicace vocazione
per la fuga, e per una trasgressione operata, diciamo così, su sé medesima.
Dicevo della tecnica del collage, ma ancor più, forse, ci troviamo di fronte ad
una trasposizione in prosa del far poesia – la Cavalera è soprattutto una
poetessa –, perché la metafora, che è la struttura portante dei versi, è pur
sempre un’espressione dell’eterogeneo, di un eterogeneo particolare che trova la
sua convalida, volta per volta, nella scopeta di quanto il casso possa
contribuire all’emergenza estetica».
Un esempio? A
p. 13 prima si parla con interesse di Violeta Chamorro e della rivoluzione
sandinista in Nicaragua e dei suoi problemi con l’imperialismo americano, poi
distrattamente di Berlino Ovest che vuole tornare ad essere una capitale di
livello mondiale e poi:
«[…] quando
prima ero a tavola lei non so bene come né perché mi aveva sorriso si vedeva
solo la lingua avvoltolata a mo’ di sberleffo ricordava il Perù uno sfascio di
lacrime e sangue poi siamo in un campo corre io la seguo la inseguo siamo
vicini gelidamente vicini senza brividi ci baciamo appesi al ramo mentre contro
l’involuzione inglese nasce la charta 88 con Calvino e Marquez. Quando sembrava
che il bacio cominciasse a ingranare ci stacchiamo e a questo punto lei sembra
avvertire tutto il cattivo fulgore del mio alito il ritorno all’antico è un mito
ricorrente nel Novecento e la sera prima avevo mangiato proprio dell’aglio e mi
dico a mente potevi ingurgitsre almeno delle caramelle prioma per evitare la
disistima che serve per la prima e il check up sociale dà un grande divario».
Che cos’è? La
parodia di un romance? Forse. Un sogno, un delirio, un inseguimento di
temi e parole e situazioni le più varie, dal sociale al personale? Certo.
Un’insieme di rapporti e prospettive di visione che vanno dal realismo più outré
(l’alito cattivo che fa fallire il bacio) all’inseguimento onirico ed erotico
(“ci baciamo appesi al ramo”). Nadia Cavalera chiama questo suo modo di porsi di
fronte alla scrittura e alla realtà “superrealismo allegorico” [A
p. 7 di Nottilabio, l’autrice scrive del suo tenttivo di scrittura:
“Un limite? O il semplice inverarsi della mia poetica: descrizione di un
fatto reale che possa assurgere ad allegoria di un altro fatto reale, su cui
esprimere, così, in distanza per maggiore presa, il mio punto di vista? Che
se questo poi è duro, spietato, aspro e amaro, perché sabbia la realtà sino
all’essenziale trivialità dei tempi, di questa sottovita, pazienza! So per
certo che giova, nel dialogo, ai miei interlocutori. Come spero, anche agli
altri lettori. E questo mi basta (: un giorno qualcuno mi chiamò Krista, per
il resto ero sempre Rossella O’)”. Da questa poetica Nadia Cavalera non si
distaccherà più.].
Tale
atteggiamento mentale (e poetico) sarà presente fin da subito in Brogliasso
(Modena, Gheminga, 1996), un incredibile tentativo circolare di poesia (ancora!)
con un testo stampato dalle due parti in modo che si incontrino nel momento in
cui il lettore ha scelto di cominciare a leggere da una parte o dall’altra. Un
libro che non ha un prima o un dopo, un davanti o un dietro, un inizio e una
fine. In esso (come già però in Amsirutuf Enimma) insieme alle parole ci
sono i pentagrammi e la musica in una complessa partitura (è proprio il caso di
dirlo..) in cui i suoni si inseguono e si scontrano fino a ricomporsi in una
possibile melodia di parole.
«epitaffio.
Alto là imberbe sull’erbe di questa lapide di rapide sapide: qui giace tranche
e trench verace lulù (: in vita spentita»
è solo il primo
dei moltissimi esempi che si potrebbero fare senza utilizzare complessi
programmi di grafica. Per evidenziare l’ormai raggiunto livello di raffinatezza
linguistico-fonica.
Tale
raffinatezza, peraltro, si evidenzia nella scrittura dei limerick che
compongono Salentudine [Venezia, Marsilio, 2004,
presente nella prestigiosa collana diretta da Cesare Ruffato.],
omaggio alla
lingua materna di Galatone (Lecce).
Il testo vuole
essere apprezzato per le caratteristiche di fonologia linguistica storica che ne
sono parte rilevante e presenta la riproduzione esatta della pronuncia dei
termini usati.
«C’era un prete
di Lucugnano / che faceva tricche e tracche con un paesano / ora era focaccia
ora kartiddata (= dolce natalizio) / finiva sempre a tavola con una serenata, /
quel prete Galeazzo di Lucugnano» [Nadia Cavalera, Salentudine cit. , p. 50.].
La traduzione
italiana, in realtà, non rende affatto la musicalità giocosa (e ricavata da
quella della lingua “infantile” dell’autrice) delle rime e del nonsense.
La capacità di far rivivere i momenti felici trascorsi in compagnia della madre
che recitava i suoi limerick alla figlia si ritrova nella campitura
spesso estrema e volontariamente al limite della sua scrittura.
In
Superrealisticallegoricamente (Roma, Fermenti, 2005 – ultima fatica finora
della poetessa), il tentativo (anzi, la tentazione) della sintesi è assai forte
(come è testimoniato anche dalla lunga nota su “La scrittura tra realismo e
allegoria” che chiude il volume oblungo che la ospita).
«La mia voce.
La mia voce un tempo flautata fatata fata di sogni heidi picchiettata con questo
morso in bocca d’un mondo allocco è bacalà fisso che stocca ogni corso ricorso
torsolo senza rimborso ed io muta m’abbiocco come rotto balocco» (si legge a p.
24).
E’ ancora la
voce a decidere della verità della parola; è la lingua che scandisce i tempi di
una poesia che vuole essere passaggio continua (quasi una fuga incessante) tra
allegoria e surrealtà (non tanto nel senso proposto da Breton nel Primo
Manifesto del Surrealismo del 1924 quanto in quello, ben più attuale e
rilevato, di una necessaria integrazione tra reale e rete telematica, tra mondo
quotidiano e Internet).
«Superrealisticallegoricamente, nel titolo lunghissimo,
costituito da un avverbio chilometrico che ricorda la famosa formula magica di
Mary Poppins, enuncia in modo esplicito la sua tendenza di scrittura. Come
scrive Nadia Cavalera? Risposta: superrealisticallegoricamente. E però: cosa c’è
dentro a quella parola-valigia? L’avverbio e la modalità sono tutti da spiegare,
in quanto indicatori di una ricerca letteraria; e di una tendenza addirittura
“doppia”, che tiene insieme il “superrealismo” (parente e riaffioramento
dell’avanguardia storica surrealista, con la sua carica libertaria-anarchica) e
l’“allegoria” (pervenutaci via Benjamin come poetica dello scarto e
dell’interferenza, del rimando verso l’esterno e della significazione
complessa). Nadia Cavalera provvede da par suo in questo libro (pubblicato nella
prestigiosa collana “alternativa” di Mario Lunetta, Controsensi) ad articolare
la sua endiadi teorica e programmatica – già avanzata in altre sedi – con
l’autorevolezza e la vulcanicità di una poliedrica produzione testuale,
aggiungendo in più una parte aforistica e una appendice argomentativa. Vorrei
dire, innanzitutto, che si tratta di una operazione su diversi fronti e su più
livelli: la prima cosa che salta agli occhi è la tessitura “sonora”, nella quale
viene inverata la poetica dell’oggettività della lingua, che può vantare il
proprio ascendente nell’ambito del surrealismo (“Dopo di lei, carissima lingua”,
diceva Breton»
scrive Francesco Muzzioli in una bella recensione a questo
lavoro.
In questa prospettiva di poetica, Nadia Cavalera accentua la
dimensione chiaroscurale della sua dizione poetica: sogno e realtà, luce e
ombra, diritto e rovescio si inseguono e spesso si scavalcano per tentare la
resa sulla pagina della schizofrenia della contemporaneità. Una schizofrenia che
non è solo degli uomini e dei tempi ma anche della poesia stessa.
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