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Oreste Fernando Nannetti si firmava N. O. F. 4 (il 4 sta per
quarto padiglione del Manicomio di Volterra). Quest’uomo, un elettricista di
Roma probabilmente rinchiuso nel Manicomio criminale volterrano per effetto di
una denuncia effettuata per vendetta da qualche fascista suo nemico, ha
trascorso tutta la sua vita adulta dal 1943 fino alla morte avvenuta in quello
stesso luogo il 24 gennaio 1994 nel Manicomio comune: nessuno volle più
occuparsi di lui dopo l’arresto e la detenzione e la casa di cura divenne
l’unico luogo nel quale poter trascorrere la propria esistenza. Durante tutti
quegli anni, N. O. F. 4 incise l’intonaco del cortile del suo reparto scavandolo
con la fibbia del suo panciotto d’ordinanza. Tutto questo per sedici anni senza
fermarsi mai. Il risultato del suo impegno artistico fu un graffito unico, lungo
centottantasue metri e alto un metro e sessanta, in cui risultano mescolati
disegni e parole e narrazioni della sua vita, delle sue proiezioni oniriche,
della sua visione del mondo. Il muro graffito è attualmente in disfacimento ma
della sua forza espressiva sono testimonianza le foto dell’intera sequenza
conservate nel Musée de la Collection de l’Art Brut di Losanna. Ha scritto
Davide Rondoni nella sua breve quanto efficace Prefazione (La
giustizia della poesia) al testo teatrale della Carraroli che:
«E’ una faccenda inenarrabile. E’ una faccenda che nasce da
parole graffite su un muro e ci arriva, in questo libro vivace e dolente, senza
perdere la sua grandezza, quasi di brutale immensità, di dolcissima immensità.
In un’epoca in cui troppo spesso l’arte gironzola dalle parti della follia con
una specie di gusto dolciastro, di vampiresca o morbosa voglia di meraviglia, la
parola di questo libro, che cresce dalle parole graffite sul muro del manicomio
da un uomo sfortunato, risulta infine l’unica munita di possibile giustizia:
quella della testimonianza. La vitalità dell’opera teatrale e poetica di
Mariagrazia Carraroli sta nella incandescente materia del racconto, e nello
speciale rispetto con cui ad essa si avvicina la voce dell’autrice, franta in
quella di più figure, e comunque composta, attenta sempre più al testimoniare
che all’esibirsi. C’è qui un atto di giustizia, dunque, se questo vocabolo ha un
senso accostato a vicende tutte traversate da una luce che le smaglia, le fa
fuggire a ogni definizione ma anche a ogni lamento che presuma di contenerle. La
giustizia della poesia, che è la giustizia della testimonianza. Del dare voce a
un dono arrivato, quando anche il dono ha la dura infelice sembianza di una
storia di ordinaria e straordinaria follia. Come se la mano della poetessa
volesse infine affiancarsi a quella che, visitata da simile insania, pose al
termine del muro tutto inciso con la fibbia del panciotto dal Nannetti la parola
tutta sgrammaticata ed esatta di “Mese ricodia”» (p. 5).
Il testo teatrale di Mariagrazia Carraroli ricorda tutto questo:
la vita nel padiglione numero 4 del Ferri di Volterra, la mente incessantemente
rivolta verso il mondo delle stelle di Nannetti, i suoi desideri, i suoi sogni,
le sue aspirazioni di vita. I personaggi sono cori (come nella tragedia greca):
le infermiere, i malati, N. O. F. 4 stesso. Un uomo negletto dalla sua famiglia,
figlio di N. N. e rifiutato dalla sua stessa madre che non l’avrebbe voluto,
senza parenti conosciuti, un esiliato all’interno di una società che non lo
riconosceva (nonostante fosse stato – pare – un bravo elettricista e avesse una
vasta, certo disordinata, cultura generale). Il suo sogno era andare alla
conquista dello spazio e trasformarsi in un uomo di scienza, in un “astronautico
scienziato” capace di congiungersi telepaticamente agli altri uomini, capace di
vedere e di scoprire mondi nuovi e terre nuove. Nannetti non sapeva dove andare
se non nello spazio profondo, in ciò simile al “vagabondo delle stelle”
protagonista di uno straordinario romanzo di Jack London,
The Star Rover del 1915, il cui
protagonista, rinchiuso in un carcere da cui sapeva di non poter evadere mai
più, ogni notte si slanciava verso il mondo dello spazio e della storia passata
per sfuggire al tormento inflittogli dall’essere ristretto all’interno di una
camicia di forza che avrebbe dovuto fiaccarne la volontà di resistere. Anche
Nannetti vuole evadere dalla dimensione di isolamenti in cui vive e dice:
«N. O. F. 4.
Mi hanno regalato una conchiglia / e sento il parlar fondo / del mio mare /
l’acqua salsa che non ho mai assaggiato / le maree / che non m’hanno mai
bagnato. // E calo dove Nemo non è andato / e sono il Capitano dell’abisso / che
balla con la piovra / e che non teme / la spada acuminata di quel pesce. // Ci
gioco di stocco e di fioretto / sul prato spettinato delle alghe. // Mi hanno
regalato una conchiglia / e sento la voce del mio mare / e vedo capovolta
l’astronave / che solca lo spazio di N. O. F. 4. // M’ immergo nel cielo
rovesciato / ch’è grande e ha le stelle nel fondale / creature che il mio occhio
può vedere / ma accecano gli sguardi sanitari. // Mi hanno regalato una
conchiglia / ha fonda la voce del mio mare / mi parla che nessuno può sentire /
e la graffio sul muro a ricordare» (p. 31).
Capitano Nemo alla rovescia, N. O. F. 4 si sprofonda nell’abisso
della sua mente sensibile e complessa, malata e integra al tempo stesso, per
cercare la verità che non trova nella vita che trascorre nel perimetro del
cortile del suo padiglione. La voce della Carraroli, però, non si alza fino a
mimare il diapason della
follia, ma è tenera, parca, urbanamente intesa a chiarire, a spiegare, a
raccontare. Nannetti cerca rifugio nella sua ricerca e non disturba il quieto
volgersi e rivolgersi della vita del manicomio. Non dà noia, non alza la voce,
non insiste: scrive decora scava graffia traduce in segni i simboli che la sua
mente agita e converte in misteriose leggi di funzionamento dell’universo, in
progetti di colonizzazione dello spazio, in aspirazioni a partire verso di esso.
«Infermiere.
Stava isolato, il Nannetti, sempre solo / zitto e con tutti diffidente. / Con me
che m’aveva già incontrato / all’EUR dove un tempo / elettricista aveva
lavorato, / scambiava qualche parola / e sul muro lasciava / che guardassi il
suo graffito. // Stava sempre lì. / Quello era il suo quaderno privato. / Mica
tanto, veramente, così scoperto com’era… / Lo graffiava usando un linguaggio /
via via meno leggibile / giorno dopo giorno più cifrato. // Dovevo stare attento
che non si facesse male / con fiammiferi o ferri a pezzetti. / Preferiva la
fibbia del panciotto in dotazione / per scrivere sul muro quotidiano / dentro il
graffio preciso dell’impaginazione. // Non so quante fibbie ha consumato. / Noi
si chiudeva un occhio / e si lasciava che cambiasse / spesso l’indumento /
ch’era diventato giornaliero strumento / della sua mania. // A scrivere sul muro
stava buono. / Secondava la terapia il suo lavoro / che era impegnativo,
concentrato. / E il tempo gli passava tra le righe / di quel diario murale /
squinternato» (p. 23).
La poesia è la terapia di Nannetti: scrivere giorno dopo giorno
il suo pensiero sul muro della Casa manicomiale lo porta a fuggire
dall’isolamento morale in cui è stato murale da una famiglia che non esisteva,
da una società che non lo voleva, da una dimensione medico-terapeutica che aveva
poco da spartire con le sue aspirazioni di “uomo di scienza”. La fibbia scava il
muro e lo trasforma in una tela sulla quale intingere e infrangere il dolore e
la forza d’anima, la proiezione onirica e la consapevolezza dell’irrealtà del
tutto. Nessuno lo può capire perché nessuno può vivere le sue esperienze
interrabili e supreme: i compagni di sofferenza nel padiglione non capiranno mai
il suo piano di conoscenza cosmica, sono solo dei “caconi”, sono “capri da
immolare”, sono “morti viventi”. Nannetti Oreste Fernando è pronto a partire
verso l’infinito della sua avventura spaziale, si sente un “figlio delle
stelle”, un Michel Ardan italiano pronto a emulare il protagonista di
Dalla Terra alla Luna di Verne. La
poesia di Mariagrazia Carraroli rende conto di questo e di altro ancora – della
diversità di un uomo che ha viaggiato
autour de son pavillion tutta la sua vita e non si è stancato mai.
Chi non lo ha capito merita solo di essere deriso:
«Coro. A
savi e benpensanti lo sberleffo / e ben gli sta, // Sberleffo sberla leffo /
leffo là» (p. 29).
Ed è giusto così, ovviamente.
° ° °
Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da
quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno)
di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si
legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere
tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il
Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato
sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione
inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e
poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e
via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate
restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti
da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori
di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi
potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di
qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che
valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo
(invece che scomparire)…
La poesia e lo spirito
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Recensione |
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