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Prefazione a
Concerto
di Roberto Mosi
la
Scheda del
libro

Giuseppe Panella
La fonte del ritmo, l'avventura del tempo
1.
«Tutto è ritmo, l’intero destino
dell’uomo è un solo ritmo celeste, così come l’opera d’arte è un unico
ritmo» (Friedrich Hölderlin)
«L’io / Scopre il suono di una
voce che lo raddoppia / In immagini di desiderio, in figure che parlano, / In
idee che gli vengono sotto forma di parole, / Vecchi e filosofi sono assillati
da questa / Voce materna, luce nella notte…» (Wallace Stevens)
A Populonia, in tutta evidenza,
si verificano durante l’anno vicende inspiegabili e si scoprono rapporti oscuri
tra le diverse parti che compongono il quadro unitario delle esistenze umane.
Basta saperli osservare e
descrivere usando lo strumento privilegiato della poesia.
Il bene e il male della Storia
convergono e si dispiegano come su uno schermo a mostrare ciò che li
caratterizza e influisce sul destino delle esistenze umane. Ciò che appare
risulta non soltanto completamente diverso da ciò che sembra accadere in realtà
ma è tanto più contraddittorio rispetto a quello che si crede (o si vorrebbe)
che avvenga tanto che si può coglierlo soltanto per accenni, per scarti, per
tagli di luce e, fondamentalmente, solo per riflesso, per contatti lontani.
Non si tratta, però, di una
dimostrazione lirica basata sulla qualità e la specificità dei contenuti quanto
sull’esigenza del ritmo, sulla potenza del suono, sull’efficacia delle notazioni
timbriche.
Per Populonia si può esigere
soltanto un concerto, non un poema basato esclusivamente sulla linearità delle
parole.
Lo dichiara apertis verbis
lo stesso autore commentando al termine del suo poema quanto ha scritto:
«La poesia gioca, in
quest’occasione, con alcune forme del mondo della musica, ne riprende tratti,
impronte. E’ abbandonata la fisionomia consueta della forma-libro, orientata,
di solito, in una determinata, unica direzione, per seguire il movimento delle
composizioni musicali in andamenti plurali, ascendenti e discendenti. Questa
raccolta, Concerto, pone attenzione alle istanze della musica nella
struttura sinfonica per movimenti e a quelle poetiche nello svolgersi delle
evocazioni che generano immagini. Insieme le due istanze producono emozioni che
si rincorrono nel flusso della coscienza, di frammenti di memoria. E nella
sinfonia – come nel concerto – è composizione di abbandoni e riprese, dove un
tema è introdotto, poi sviluppato, poi accantonato, poi variato e organizzato in
discorso»
Dunque, Mosi si cimenta con un
linguaggio, quello della musica, in cui i livelli tonali si susseguono in una
ricerca di armonia finale e in cui ogni elemento si ricompone alla fine
dell’esecuzione e si ritrova nella sua particolare dimensione autonoma per cui è
nata, pur mantenendo la sua posizione all’interno del tutto. Tra autonomia del
significante e necessità del significato, la poesia di Mosi si aggira tra le
vicende del presente e la nostalgia del mito per cercare di ottenere il
risultato che gli interessa: dare alla poesia una chance di intervenire
sulla realtà senza esserne travolta e schiacciata.
I quattro movimenti del suo
Concerto, allora, dedicati come sono alle quattro stagioni (seguendo una
tradizione ben definita nella storia della musica), alternano ricostruzioni
delle vicende di attualità a momenti di vita familiare, intercetta segni
orribili di inciviltà persistente (il razzismo che i terribili fatti di Rosarno
hanno mostrato come ancora prevalenti nella in-cultura della penisola) ma si
apre a moti di speranza per il futuro delle generazioni che verranno.
Il dettato poetico di Mosi si
concentra sul dato e si articola per brevi sequenze narrative che sviluppano lo
spunto principale di partenza. Eccone un esempio (dalla sezione Inverno,
Caos) :
«A trecento
chilometri / il treno per la città. / L’incontro da “Mimì / alla Ferrovia”, gli
amici. / Sulla tovaglia tracce / di vino, la città di Gomorra. / Nove cerchi
rossi / del nostro Inferno. // Al centro il porto / intorno Secondigliano, /
Scampia e Forcella, / Torre Annunziata. / “La gente, vermi della
terra, / rimangono vermi, sempre”, / la voce d’aspide della Camorra.
// “Sono cinque giorni / che mangiamo arance / nascosti
nell’aranceto”. / La faccia appare / al telegiornale. / Per le strade di
Rosario / la furia della gente, / ronde di bianchi in giro. // Seduti nell’ombra
/ aspirano crack, / fiammelle per la dose, / uomini e donne / di Castel
Volturno. / Sopravvissuti alla droga, / la pelle di cenere. / Morti gli altri,
senza nome» (pp. 4-5).
oppure sul versante mitologico
dell’intervento poetico, l’ironia subentra al posto del dramma:
«Mito. Labirinto
mito / al centro la vampa / dell’io, in volo / con ali di cera. // E’ forse
uguale / a un dio l’uomo / calvo, senza ombra / che dorme in piedi / alla porta
di Populonia ? / I ginocchi piegati / la testa in avanti. // Ogni notte l’Eroe /
raggiunge la reggia. / Penelope dorme stizzita, / Arturo saluta, la coda ritta.
/ Apre la posta, ordina le armi, / si distende sul letto, /b il risveglio
vicino. / Ulisse torna sempre a Itaca. // Sono giunto alle terre / degli
Etruschi. Le navi / passano il Bosforo, / bandiere al vento. / Inseguo Giasone /
alla conquista del vello / d’oro, le carovane / sulla via della seta» (p. 8).
Nella sinfonia delle Quattro
Stagioni impostata nel libro, come si è visto, i momenti tragici della cronaca
nazionale (i fatti di Rosario o l’incidente del Moby Prince) si alternano
alle scoperte che costituiscono la sostanza della vita quotidiana e familiare
(come nella sezione Primavera, tutta la sequenza relativa alla nascita e
ai primi anni della nipotina Marta) mentre nella sezione dedicata all’Estate
la vita della natura e i suoi suoni e moti si intrecciano ai giochi e ai canti
dei bambini.
Nell’ultima sezione, quella che
chiude la Prima Parte, infine, l’Autunno, è la descrizione delle
parole della poesia, paragonate alle foglie che delicatamente si staccano dagli
alberi, a confortare la scrittura e renderla forma espressiva capace di
rafforzare e rinvigorire la sostanza di un Io che tenderebbe a sbiadire nel
corso del tempo. La potenza delle memorie conservate nel baule inesausto
dell’esistenza passata, tuttavia, è in grado di riportare il silenzio dalla sua
condizione di oblio incombente e minaccioso a quella di un elemento che fonda la
vita stessa, accentuandone gli elementi di bellezza assoluta:
«Ascolto il
silenzio / dalla Rocca di Populonia / lontano dalle spiagge, / dai motori delle
strade. / L’aruspice segue /il volo del falco, / coglie i segni del cielo / per
la nuova stagione. // La violenza del giorno / è lontana, la città cade /
nell’antico mistero. / I sacerdoti in processione / salgono all’altare / per il
sacrificio. / Nuovo sangue / nutre la vita del mito. // Mi lascio andare, /
l’acqua accarezza / il nuoto leggero. / Sotto di me le ombre, / le creature del
mare. / Sopra di me la luce / di Febo. La bellezza / a portata di mano» (pp.
28-29).
2.
«Della Primavera nessun segno! /
Leonardo va su e giù nella sua stanza angusta / … arrogante fissa la neve
ostinata. / Raffaello entra in un bagno caldo / … i suoi lunghi capelli di seta
sono secchi / per il poco sole. / Aretino ricorda la Primavera a Milano; la /
madre, / che ora, su dolci colline milanesi, dorme. / Della Primavera nessun
segno! Nessun segno! / Ah, Botticelli apre la porta del suo
studio» (Gregory Corso)
Il secondo tempo del libro di
Mosi, invece, è un omaggio all’arte fiorentina e soprattutto alla pittura che
l’ha resa grandissima. E’ alla Primavera di Sandro Filipepi-Botticelli
che i primi versi sono dedicati in questa sezione della rapsodia ed è con i
versi del Poliziano che il testo si apre.
Ma poi, dopo la descrizione
della grande apoteosi dei Medici che hanno riportato la pace a Firenze (secondo
una bella intuizione di Cristina Acidini Luchinat ripresa e fatta propria
nell’esecuzione del suo tempo poetico da Mosi), segue la descrizione di
Fiorenza stessa e delle sue bellezze artistiche:
«Geometrie
dalle piazze / il cerchio dei bambini, / le ellissi delle rondini, / il quadrato
dei turisti, / la retta della palla calciata / la sfera in rosa del cielo. //
Colori della storia. / L’argento della pietra forte, / l’oro della pietra
serena, / il bianco della calce, / il verde dei marmi, / il rosso dei tetti. //
Il suono della poesia, / Shelley alla Fonte del Narciso, / i Futuristi alle
Giubbe Rosse, / Montale all’antico Istituto, / Campana a San Salvi, / Dante per
ogni dove» (pp.
36-37).
La sezione dedicata alla
produzione artistica si conclude con un omaggio a Tredici tempere su tela
che il pittore Vinicio Berti aveva regalato alla Società di Mutuo Soccorso di
Peretola e che raccontavano per immagini la storia dell’associazione. Anche in
essa la decantazione rappresentativa delle vicende collocate sulla tela e la
musicalità delle parole si integrano in una sorta di concento di colori e suoni
che vogliono dare il senso e produrre forme evocative dei “miti popolari di
un’epoca” (come sostiene Mosi nel suo commento finale).
Sarà la Natura, invece, a dare
il la alla parte finale dell’opera, quella che vuole rendere omaggio alla
potenza quasi naturale dei versi di frate Francesco di Assisi. Riprendendo
talune sue composizioni già pubblicate, Mosi si distende nella descrizione della
forza degli elementi e di ciò che ricompone il quadro della bellezza del mondo:
«Compongo in versi / suoni e
silenzi / cerco parole, creo / un ammasso d’argilla / da modellare a piene mani.
// Scompongo, ricompongo / i versi, cerco la forma. / Ora il fuoco abbraccia /
l’argilla, la riscalda, / la cuoce, la brucia. // La poesia è pronta / per la
polvere del giorno» (p. 51).
Allo stesso modo, tra scrittura
/ descrizione della realtà e sua trasfigurazione in immagini e suoni, si apre lo
spazio di una soggettività che si muove tra l’una e l’altra, quella di un poeta
che accetta i limiti della parola scritta e vuole andare oltre di essa, nel
tentativo di costruire un progetto artistico che sia capace di ritornare alla
natura mitopoietica del canto che vive nel e con il mondo in cui si trova a
esistere.
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