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Il volo dei versi, l’ansia della vita, il sogno del destino

 

«Arietta di rimpianto (per voce tenorile). Entravo pieno d’allegria, / nel colmo della tempesta. / Il buio dell’osteria / era ardente. Lesta / come sempre, al banco / appariva di fuoco / la mia bottiglia. Un gioco, / per me, mischiarmi al branco, / lasciata ogni malinconia. // Ora dov’è, dov’è / la bella compagnia / d’allora – la gaia gente, / pronta a spartire il vino / (il cuore) e l’amicizia ? // Io non vedo più niente. / Solo scempio e nequizia»
(Giorgio Caproni)

 

1. Toccata e fuga, senso e sensibilità

E’ difficile giudicare a una prima lettura il “nuovo corso” della poesia di Anna Maria Guidi: poetessa in apparenza tradizionale (con tutti i distinguo del caso, ovviamente), liricamente atteggiata nella ricerca di uno status poetico fatto di mezzetinte, di ombre, di barlumi, di parziali accecamenti, di ricordi, di frantumi (per dirla con Giovanni Boine), di narrazioni di un passato non tanto remoto ma neppure, ahimé, più tanto vicino ai suoi lettori. I suoi libri precedenti, i loro stessi titoli (Esercizi del 1998, Tenacia d’ombra del 2002, In transito del 2005) lasciavano pensare a una poesia sempre in movimento, in continua ellisse lunare, in passaggio tra luci e ombre, tra tempo ed eternità, tra vita e sospensione del respiro. In Senz’alfabeto, invece, pare di essere giunti a una meta, a un traguardo, a un obiettivo: una poesia fatta di corpi e di movenze fisiche, di rimarchevoli innesti linguistici, di accettazione piena e ferma della realtà con un ingresso deciso e perfino feroce nel mondo della crisi del linguaggio poetico, della sua messa in discussione, del suo attestarsi e non considerarsi rivedibile e imprevedibile. La poesia è ormai, per Anna Maria Guidi, fatta di assaggi, di prove, di tentativi ma saporiti e sapidi come un buon caffè mattinale o una zolletta di zucchero presa per scacciare, almeno in parte, il saporaccio ambiguo di una realtà inaccettabile :

M
Senz’alfabeto

«l’ assaggio”
…….
         intanto io mi gusto
         nel primo caffè della mattina
         l’aromatico assaggio
         di questo cucchiaino d’armonia:

         che bussa come un picchio
         bramisce come un cervo
         tuba come un colombo
         trilla come un fringuello        
         insiste come un tarlo
         e com’ape operaia
         bottina e all’arnia smiela        
         dolceforte sapore di poesia»

L’armonia è fatta di un movimento fisico, non più di slittamenti progressivi dell’anima o del sentimento, un trepido investirsi della bellezza di una Natura che è fatta di suoni, di trilli, di bramiti, di ricerca d’amore (come fanno tutti gli animali menzionati dalla Guidi nella loro diuturna e irrefrenabile ricerca della loro ragione di vita).
Certo non tutto è armonia e melodiosità. Non tutto è coloritura pittorica e ritornello musicale, non tutto risuona della bellezza della vita come in un film ottimistico della Walt Disney dei tempi d’oro.
C’è anche il dolore, la morte, lo stagno immobile, l’implacabilità degli eventi cui non si può porre rimedio e che non danno scampo:

«volo immoto

scervella il sole
nell’agostano avvampo

febbra salini afrori
spolpa sfranti sapori
fuoca erbali umidori

spasima -stelo d’afa-
il kimono vizzito
dell’alata Cio-Cio-San

sf(r)inisce
il compulsivo mantra della cicala

ronzidanza l’anofele vampiro:
e s’avvespa il tafano
stizzoso antagonista

livida il cielo
in cenere di nuvole:

e senza cielo non ha scampo il vento
volo d’Icaro immoto
in precipiti incandescenze»

La descrizione dell’estate potrebbe sembrare simile a quella di tante altre illustrazioni del trionfo della vampa estiva, del solleone, delle cicale che friniscono e sfiniscono ecc. , se non fosse che il linguaggio che la descrive straborda e infittisce, insiste e si fa lucida follia nell’avvampare del sole e nel trionfo dell’afa, si rovescia in una sorta di privata Apocalisse del tempo e della vita, in attesa del compimento di un sogno o dell’arrivo del sonno ristoratore e obliante.

Qui Anna Maria Guidi sembra aver compiuto un totale rovesciamento della sua prospettiva e da poetessa dell’ombra e del cono di mezza luce che la sostiene (come si era accennato già poco prima) si è fatta paladina di un’illuminazione piena e accecante dove l’illuminato paesaggio è quello della lingua della poesia, fatta di spezzature e di scarti, di lucidità trasverse e di insistenze, di immobile sostanziarsi della vita. Lo stesso accade quando dal tempo atmosferico e dalla dimensione quotidiana si passa a quella dell’eros e del sesso. Così i due amanti, dopo aver raggiunto da poco il culmine del piacere, celebrano nel sonno il trionfo del loro corpo vittorioso, vinto dall’orgasmo ma vincitore del grigiore della quotidianità e della noia della loro non-appartenenza:

«corpo a corpo

reduci dal corpo a corpo /
della guerriera fregola /
due amanti s’addormono (av)vinti /
sugli origlieri sfranti /
della sfibrata alcova»

Ma c’è di più. Non sono soltanto gli amanti della tradizione a essere descritti nella loro vittoriosa e umanissima sconfitta; è l’intera umanità a condividerne il segno fragile e tuttavia continuato fino alla fine del tempo d’ognuno. Non è soltanto il tempo del piacere che spinge e “tira la volata” ma la necessità di continuare nel “tempo senza fine” (in omnia saecula saeculorum) a moltiplicarsi e a far continuare la “bella famiglia d’erbe e d’animali” (Leopardi) di cui l’uomo non è certo parte minore ma non assolutamente la massima:

«seme flebile d’eterno

qual reo capitano di fregata
all’umanide ciurma tira la volata
il lubrico miraggio
dell’erotico legato:
chiave e serratura
ad uso e abuso della cieca transumanza
che feroce e vorace bela e bruca
fotte e gode
chiagne e langue
per un seme flebile d’eterno
asservita al genetico rito
che replica e moltiplica miraggio e danno
nel compiacentissimo ergastolo
del sì beffardo inganno»

Il rito che si consuma ogni volta che si fa l’amore e ci si congiunge con un altro corpo (reale e/o immaginario) è un “miraggio” ma senza quel miraggio non saremmo qui a condolerci della nostra sorte e a felicitarcene ogni volta. Il “legato erotico” è l’indispensabile legame che collega tutta l’umanità – il suo piangere, il suo congiungersi carnalmente (Anna Maria Guidi si serve del gustoso e napoletanissimo apoftegma “chiagne e fotte”) è una volontà d’Eterno che verrà ogni volta frustrato e ogni volta raggiunto. Tutti ne partecipano, ogni notte e ogni mattino, anticipando con il grido di liberazione dell’orgasmo il futuro pianto rituale del lutto.

“irride e gode / nella vulva scoscesa della notte / l’orgasmica litania della civetta”…

La civetta, simbolo di morte e di malaugurio, innesta il suo roco canto lancinante nel luogo del piacere primigenio, “l’origine del mondo” (come ammonisce il titolo del quadro di Gustave Courbet).

 

2. Come in un film di Bergman…

Dall’origine alla fine (inevitabile) del mondo:

«l’obliquo struscio

cedua rampica il monte
la solenne baldanza della quercia

così l’obliquo struscio
della carne mortale:
materia in maschera
a corto passo a spasso
sull’inteschiato corso
del serotino carnevale»

La vita continua sempre e procede senza scampo, allora – il destino manifesta la propria volontà di durare senza piegarsi ai desideri degli uomini e senza deflettere, roccia o quercia, baluardo assoluto di ciò che non cambia. La “carne mortale”, invece, è destinata a cedere il passo e il suo corteggio è quello del funerale anche quando si maschera e si manifesta come un carnevale che dovrebbe essere divertente e fa soltanto una tristezza senza fine. La quercia è destinata a una diuturna sopravvivenza, gli uomini hanno già il fiato corto appena nascono e il teschio già sporge dalle loro facce ingoiate e stanche di esseri sempre in cammino. Ma la vita – ammonisce Anna Maria Guidi – è già tutta prevista dalla mente di un “regista” o tutto accade tutto a caso? La regia c’è – è la risposta – ma funziona bene soltanto nei sogni quando la realtà è sospesa e la vita appare splendente dei colori della mente che la riproduce e se ne compiace (anche quando inorridisce) :

«regista

carcata d’anni e inganni
nel segno d’ogni senso imparo e inseguo
la libertà del sogno che bisogna
al dissoluto convegno con la vita:

altro non mi s-occorre
mi dico randagiando in passi d’aria
la mia sopita corsa
di terra digerita
….

filma pedine senza scacchiera                                                      
il regista dei sogni»

Come in un film di Bergman, la Morte gioca a scacchi con la sua preda futura (e questa è la vita) ; nell’esistenza in sogno di ognuno, invece, la libertà è assoluta e di sfrenata e le pedine si muovono nell’aria senza bisogno di scacchiera. Così chi sogna crede di sconfiggere il destino ma non fa che rimandare l’incontro definitivo con la “terra” che lo digerirà e da cui sarà “digerito”. Non solo ma ciò che crede di aver accumulato e raggiunto e ricoperto con la forza e la potenza dei suoi risultati si scioglie come “la neve di marzo” o il barbaglio del suo silenzioso “lucore” :

«vane valanghe

sfinita sfranisce la neve di marzo
in (t)orme di passi brillando
il vergine lucore del silenzio:

ove bisbiglia e abbaglia
il primo vèr del ver(b)o
deflorato in vane valanghe di parole»

Così le parole non lasciano che una flebile orma (flebile è una delle parole chiave della raccolta di Anna Maria Guidi) e la loro verità edenica appare ormai persa, deflorata dal tempo e appesantita dalla loro inutilità, pronta a perdersi nel labirinto delle interpretazioni e delle chiacchiere, prestata alla morte come il ricordo dei sogni e la labilità del desiderio dei corpi. Per questo non resta che abolirle tutte, le parole, e scrivere in una lingua nuova, impastata di neologismi, di devastazioni lessicali, di deformazioni e di calembour, una lingua poetica che si conosce appena e si declina a stento ma dice oggi molto di più delle sillabe tronfie del lessico della tradizione del passato:

«senz’alfabeto
…….
         radiose assumo
         particole d’aurora        
         in lieviti di cielo delibando            
         sempre fresca la fame
         del pane dell’esistere:

         assolta le parole
         a corpo libero assumo la vertigine  
         della nientitudine plenaria
         che illimine crepuscola e inalbica
         nell’imprimizio ver(s)o
         che in tace il sogno dice
         senz’alfabeto»

Senz’alfabeto: parole che fuori-escono direttamente dal corpo e al corpo ritornano, versi che risuonano del loro tentativo finale di esistere. “assolte” dalla loro necessità di significare e di magnificare il destino umano, pure “particole” di vita e di sogno, aspirazioni implacabili e implacate a una Verità che solo la vertigine della libertà può insegnare a sfiorare (per ora), a conoscere, a possedere come forma di un’origine di cui ancora non è possibile conoscere la fine.

 

Recensione
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