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Ascesa all'ombelico di Dio
Caro Veniero,
Non mi sembra proprio che il tuo nuovo poema meriti alcuna riserva.
Sto arrovellandomi da questa estate proprio
contro il prepotente arrembaggio, anche in capo filosofico, del nuovo realismo,
realismo che, prima di diventare canone marxista, era nel Novecento esigenza
borghese di verosimiglianza, e che io ho sempre considerato una repressiva
illusione.
Anche questa volta perciò ho seguito la tua avventurosa allegoria in
cerca non
di realtà ma di una verità che, a quanto pare, per te, come per noi, è termine
sempre presente al nostro vivere come oggetto irraggiungibile di una inquieta
ricerca che non elude certo le apparenze della realtà più effimera ma tende a
trascenderle.
Tu sei solo originale, assolutamente riconoscibile e questo è un
indiscutibile merito. I tuoi versi, come ti ho detto, trascinano il lettore
specialmente quando da una lettura silenziosa si passa coraggiosamente a una
lettura ad alta voce accentuando con sapienza il ritmo costante e quasi
ossessivo, col ridurre le varie sillabe di quei versi a un tempo equivalente
scivolando sulle anacrusi e anche su quelle sillabe inserite in più che
Bertolucci chiama “extrasistole”.
Quella lettura ad alta voce dei tuoi versi mi
porta a pormi più che in altri casi il problema di un altro mistero
insondabile, quello del potere anche connotativo della metrica e in genere del
ritmo, della distinguibilità di ritmo giusto e ritmo sbagliato. Per la nostra
metrica, dunque, l’equivalenza non è solo questione di sillabe. Affronto questo
tema del tutto digiuna di studi teorici. Ma credo che anche una conoscenza
profonda del problema non mi permetterebbe di dire, per esempio, perché anche
nel tuo poema alcuni versi, pochissimi, non mi convincono del tutto.
Qualcuno
ha scritto che “i versi liberi di un poeta hanno una metrica segreta che
sfugge allo sguardo ma non all’orecchio”. E il Narciso che io sono è convinto
di avere orecchio.
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Recensione |
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